Andrea Mantelli, Killer Game – Romanzo, puntoacapo, Pasturana (AL), 2023
Laura Cantelmo
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Quella che, con una definizione corrente viene chiamata “letteratura d’intrattenimento” non rende giustizia a chi, come Mantelli, fa dire a un personaggio, nella prima riga del suo romanzo: “Scrivo. Esisto per scrivere”. Lo scrittore, in questa sorta di outing, manifesta la passione di una vita, sempre vissuta scrivendo, per necessità di lavoro o per semplice impulso interiore. E lo fa attraverso una maschera, un personaggio scelto come portavoce, secondo la mimesis classica della narrazione. Pensiamo persino che in lui l’umorismo abbia un malcelato scopo satirico di quel genere, che solitamente è destinato allo svago.
Killer Game non è un romanzo tradizionale, non ha una trama che gradualmente si sviluppa con personaggi suddivisi a seconda delle funzioni, in primari e secondari. Anzi, esso si presenta interessante a un’analisi semiotica, avendo una struttura che non segue uno sviluppo lineare, bensì in una successione di scatole cinesi: ogni capitolo/racconto o microtesto è propedeutico a quello successivo, la trama procede come per gemmazione, sviluppando il tema centrale, ma non la coerente fabula che ci si aspetta, poiché ciascun capitolo, almeno nella prima parte, ha una sua autonomia narrativa, con personaggi differenti di volta in volta, mirando sempre a un unico fine: individuare la formula dell’assassinio perfetto.
Non troviamo qui il classico protagonista con tutta la serie di antagonisti e personaggi secondari, attorno ai quali si evolve l’intreccio. Il titolo dice chiaramente che il tema riguarda i killer e rientra quindi nella definizione di romanzo giallo. Ciò che appare come filo conduttore, non è tanto la trama, ma è la vasta sfaccettatura del Male, in particolare dell’assassinio, incarnata in personaggi la cui tendenza omicida, verso chi li disturba nella vita privata o in affari più o meno leciti, non risulta essere innata, bensì indotta, provocata da evenienze casuali del destino. Quasi sempre è l’occasione che rende assassini, ci dice il racconto/capitolo “L’assassino che è in noi”: “Si è svegliato l’assassino che c’è in me, in noi, in tutti noi, compresi voi che state leggendo, non negate…Possiedo una pistola ed è certo che nulla sarà più come prima.” (Pag.69) Abbastanza inquietante, come affermazione, che non può non far pensare il lettore.
Ma è anche vero che quanto l’Autore afferma, capita che venga successivamente smentito. Infatti, nel racconto eponimo, Killer Game, la tesi precedente è inficiata dalla presenza della Facoltà del Crimine Applicato e dal suo opposto, la Facoltà del Crimine Represso, dove la dottrina criminologica è clamorosamente messa in ridicolo dall’umorismo della narrazione e dalla comicità grottesca dei personaggi.
Con disinvolta ironia l’Autore affronta il tema della circolazione delle armi, facendo supporre che il libro che stiamo leggendo, pur se apparentemente si presenta come un giallo, abbia per lo meno un pensiero di fondo molto serio, che svia dalla rituale definizione accademica di “letteratura d’intrattenimento”. A differenza del classico poliziesco, manca qui la figura dell’inquirente amatoriale, non ci sono delitti di cui non si conosca il colpevole, non c’è alcun rappresentante della legge chiamato a risolvere il caso. Il tema da sviluppare è come arrivare a compiere un assassinio perfetto.
Lo scopo ufficiale è il divertimento. Ma non solo. Quello non verrà mai a mancare, perché nella vasta gamma dei killer vi è una ricerca del paradosso, degli incidenti esilaranti che fanno fallire i progetti malsani, fino a quando, nella parte centrale, troviamo una farsesca esaltazione del crimine, che dice la ragione del titolo: Killer Game. Così è chiamato il Festival del Delitto, indetto dalla Facoltà di Crimine Applicato, promosso dal Magnifico Rettore denominato Flaccido Bimbo, cui è assegnata l’ARRAPANTE cattedra di killeraggio. La comicità è al massimo, allorché i personaggi che si susseguono nel Festival sono tratteggiati tenendo presente, si direbbe, la tipologia di alcuni grandi film comici del passato – Il Grande Dittatore o Tempi moderni – che hanno segnato altissimi momenti di critica politica e sociale nella storia del cinema. Qui, ad esempio, si cita il precariato nel lavoro, lo sfruttamento e l’abuso di potere (vediamo la povera Gambozzi, assistente del Rettore, regolarmente sculacciata per punizione), per avvicinare alla realtà un racconto che è tutt’altro che realistico. Ė abbastanza evidente che, delle categorie letterarie di cui si occupava con una certa rigidità la semiotica degli ultimi decenni del Novecento, l’Autore non si curi affatto, agendo nella massima libertà. La trama o, meglio, le trame, si muovono nell’ambito del grottesco, a volte il finale del racconto resta in sospeso, mentre gli “eroi”, i killer maldestri, sono sempre diligentemente impegnati a studiare come organizzare il delitto perfetto.
La scelta del registro linguistico basso, espressa anche nei nomi propri – personaggi stilizzati come nella Commedia dell’Arte: Flaccido Bimbo – il Magnifico Rettore – il concorrente al Premio, Enanito (perché minuscolo), l’esilarante romano Li Mortacci, indicano che ci troviamo di fronte a una parodia di quei romanzi criminali da cui siamo sommersi, in stampa e in video, nonché dalla realistica volgarità che in essi si manifesta.
La novità sta nel ribaltamento della struttura che li caratterizza, con la presa in giro della categoria dell’assassino, con la ricerca minuziosa nel progettare l’omicidio e al contempo il tenero abbandonarsi alla nostalgia di Li Mortacci “della casetta…a Torpignattara” (pag.117). Mentre la parodia si fa più spietata grazie alla comica diligenza degli interessati, impiegata nel perseguire lo scopo finale, un assassinio efferato.
Nel concorso a premi che riguarda i video presentati al Festival sul miglior piano per un delitto, gli aspiranti assassini si presentano intimoriti come normali studenti, di fronte ai loro improbabili, severissimi giudici, i quali tacciano come “sfigati” coloro che si iscriveranno al Crimine Represso. Mantelli ha così ribaltato la grandiosità del Male, che in passato era stata rilevata dalla critica cinematografica ne Il Padrino o nella televisiva Gomorra, trasformandola in qualcosa di comico. Tenendo conto che, in questo romanzo, molti “progetti criminali”, nonostante tutto, falliscono.
Se il confronto con il cinema, più che con la letteratura, sorge spontaneo, dobbiamo risalire al passato dell’Autore: avendo lavorato come scrittore di trame di fumetti, Mantelli ha sempre avuto presente l’aspetto visivo, più che la descrizione. E non dimenticando il pubblico a cui di solito sono destinate quelle storie, dà importanza più al dialogo che agli intermezzi descrittivi e alla definizione del personaggio che non all’aspetto letterario del racconto. La differenza con il “genere” sta nell’offrire un testo più raffinato grazie all’uso dell’ironia e alla ricerca dell’eccesso in un registro linguistico fantasioso e volutamente sboccato, come si addice a un ambiente di malavita o al bar sport, là dove solitamente non si va per il sottile: “quindici gnocche di materiale plastico” (pag. 42), ne è un esempio eloquente.
Sarà l’Autore stesso a dirci nel finale, tramite una sua maschera: ”A me piacciono le storie che tornano su se stesse. Storie in circolo,” (pag.164). Lo si era capito, ma il divertimento consiste proprio nel volere candidamente ammettere ciò che è diventato ovvio nel corso della lettura, creando una sorta di spaesamento nel sovvertire gli schemi di un genere dalla struttura un po’ statica.
Quello che dalla critica più rigorosa è stato spesso definito come “crisi del racconto”, in questo frizzante romanzo viene attuato in assoluta e consapevole autonomia di scelta.
Milano, 20/05/2024
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