Saggi Poesia

Discanto – Francesco Sassetto

Pubblicato il 11 gennaio 2024 su Saggi Poesia da Adam Vaccaro

La Canoscenza cercata e dovuta

Rivelare o Ri-velare nella notte che stiamo attraversando

Adam Vaccaro
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Francesco Sassetto, Discanto, Arcipelago Itaca Ed., Osimo (AN) 2023, pp.114

Quest’ultimo libro1 di Francesco Sassetto, insieme a tutto il suo percorso espressivo precedente, si colloca in quella che ho chiamato qualche decennio fa, nello sviluppo della mia ricerca di Adiacenza, Terza Riva, rispetto a due modalità prevalenti nella poesia contemporanea italiana: una di iperdeterminazione del significante, e l’altra di iperterminazione del significato.
La prima Riva tende ad appagarsi di culto e magia della lingua, con rarefazione di sensi e significati ed effetti di ri-velazione, che ricopre l’Altro ignoto di fascinosi suoni e ritmi neoparnassiani, fino a idolatrie del nulla, che relegano in stanze chiuse un io appagato da ruote pavoneggianti intorno al proprio ombelico, e indifferente alla fame di conoscenza della complessità della realtà in cui viviamo. Forme alonate da ideologia del Testo, per le quali le formiche nere incise sulla carta sono Tutto.
La seconda Riva tende invece, tra minimalismi o visioni ideologiche precotte, a scodellare narrazioni di realtà monca o immaginaria. Forme diverse di chiusure e aperture ugualmente illusorie, che a volte si ammantano del termine civile, e che ri-velano in altri modi la durezza di vita convissuta dalla maggioranza degli esseri umani. La quale si dibatte da sempre tra disperazione e speranze utopiche di orizzonti rispondenti a esigenze primarie, materiali e culturali, tra cui il bisogno di capire, senza il quale rimaniamo a zampettare freneticamente immobili, prede facili dei poteri in essere.
Specificavo nello scritto richiamato2, una “Terza riva, che tenda a coniugare complessità e transitività, adiacente alla totalità del Soggetto Scrivente e del mondo, ricca di sensi e domande sospese ma anche di risposte e aperture rispetto al contesto chiuso e senza speranza che i poteri in atto ci offrono. Contesto che si rafforza quanto più i comportamenti e il dire non mettono in comune, non creano comunità e condivisione ma solo somma fàtica di io io, in ridicola paranoica competizione”
Francesco Sassetto, fa proprio questo mandato e scrive all’incrocio del bisogno di mostrare le falsità e le vergogne del Re odierno, dalle forme invasive e invisibili nella civiltà decantata dalle mille trombe mediatiche, al fine di sollecitare un pensiero critico, senza il quale la maggiore conoscenza diventa impossibile.

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Il Testimone e l’Idiota – Paolo Valesio

Pubblicato il 19 maggio 2023 su Saggi Poesia da Adam Vaccaro

OLTRE LO SCONTATO

Adam Vaccaro

Paolo Valesio, IL TESTIMONE E L’IDIOTA, La nave di Teseo, p. 284, 2022

Tra i tanti libri che ricalcano forme e contenuti che non riescono a produrre in noi meraviglia, né tantomeno acquisizione di conoscenza, ci imbattiamo poi in alcuni libri capaci di rimescolare il risaputo e offrirci squarci e percorsi oltre lo scontato. Utili e preziosi, ancor più nella attuale china distopica che ci sta cullando entro il suo orizzonte che pare fatalistico accettare passivamente. Diventa perciò ancora più acuto il bisogno di libri col coraggio di uno sguardo radicale, oltre le miserie e il destino apparentemente immutabile e irreversibile, disegnato dalle logiche vincenti nel presente.

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anonimie – Massimo Pamio

Pubblicato il 13 gennaio 2023 su Saggi Poesia da Adam Vaccaro
Replichiamo l’articolo già pubblicato sulla Rivista “Odissea”, che ringraziamo.

https://libertariam.blogspot.com/2023/01/la-ricerca-inesausta-di-pamio-diadam.html 

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La ricerca inesausta di Massimo Pamio
In anonimie (Poesie 2010–2020), Edizioni Mondo Nuovo, Pescara, gennaio 2023, pp. 272
Adam Vaccaro

Un libro che si impone con cadenze e intrecci che sono, per chi ha seguito le evoluzioni creative di Massimo Pamio, costitutive della sua inarresa misura con i temi più profondi del nostro esistere. Ma se forma e stile definiscono un Autore, qui ritroviamo confermato – pur nell’impegno richiesto dall’alveo tematico – il rigetto di ogni seriosità supponente, a favore dei panni variegati e dinamici sintetizzati dal Cantimbanco, sintagma e invenzione di uno dei primi testi poetici di questa raccolta antologica che abbraccia un decennio. Una raccolta che è corredata – a sottolinearne il rilievo espressivo – da una ricca Antologia critica, con contributi di Giovanni D’Alessandro, Rossano De Laurentiis, Erica Gazzoldi, Daniela Forni, Renato Minore, Elio Pecora, oltre a una lettera di Gabriella Sica (alcuni dei quali, con fraterne condivisioni del processo decennale di editing, riportano anche le interessanti varianti, precedenti il testo definitivo).
I temi affrontati coinvolgono la totalità di pensiero ed emozioni del Soggetto Scrivente, ma come detto il moto testuale tende a svolgersi nella leggerezza del Cantimbanco, termine che è “un calco di saltimbanco” (come rileva Erica Gazzoldi), e insieme “termine medievale per indicare il cantastorie” (lo ricorda Daniela Forni, che incastona lo stile dell’Autore in giullare del mistero), alias, il cantore, il poeta, che rifugge dal “prendersi troppo sul serio – a mo’ di Aldo Palazzeschi, che si definiva il saltimbanco dell’anima.”
Il Cantimbanco, vola e svolazza (ridacchiando anche sul Volo romanziere popolare) con le sue poesie volte a una Teomantica, prima parte della raccolta, e un altro dei molti termini inventati e necessari alla interminabile ricerca interrogante di cui si nutre (e ci nutre) il libro. “La ‘teomantica’ unisce il dio (teo-) all’arte della divinazione (–mantica). È dunque ispirazione divina, che fa vedere in profondità” (Gazzoldi), coniugando continuamente opposti, paradossi e ossimori, alimenti verbali che qui non sono Jeu de mots autoappaganti, ma segni di una insaziabile fame di canoscenza. È la prima comunicazione complessa che questa poesia e questo libro trasmettono.
“Mio Dio che sei l’unica parola/ che avrei voluto dire e pensare/ echeggiare nel silenzio e nell’anima/ mio Dio che sei tutto ciò che non so/ che sei il più lontano dei miei no”
Dio è parola di ricerca nel mistero, esteriore ed interiore del giullare. Un esteriore che tra i grani del suo rosario, declina ignominie di violenze e guerre di dominio, unite a autodistruzioni di ogni equilibrio della “Madre Terra”. Non meraviglia perciò lo sbocco nell’invettiva: “scaglia gli ignoranti / che vivono sul tuo volto dolcissimo”. Mentre il singolo diventa collettivo: “Schiaffeggiati dal guanto del mondo,/ pretendiamo ragione”, e si fa profetico, tra gli estremi frutti velenosi delle logiche in atto, di “grande freddo” o “riscaldamento globale” e “desertificazione del futuro”. Che nella campitura mistica, domanda: “che sia questo del Maligno” il disegno? Domanda rivolta anche al qui-ora e al noi: “C’è una persona in noi o c’è uno spiraglio del vero del mondo…un segnale del divino che ci avvisa ogni volta del nostro misterioso ingannarci?” Domande che non salvano lo stesso cantimbanco: “inguaribile egocentrico” e “fingitore”, quale denudato da Fernando Pessoa? “Narciso trasformista” che rimane chiuso in sé, o Autore di sé, che sa uscire dai deliri di essere Fattore del Mondo e Castello di Dio, facendone uscio di un senso D’Io?
Domande, interrogazioni e ribaltamenti di sensi compongono la struttura retorica portante del testo: “L’uomo, misura di tutte le cose che non sono,/ di tutte le assenze in sé cumulate, come di quelle/ neanche immaginate. Precluse, tutte, all’interiorità/ come all’esteriorità: escluse da ogni mondo, per amore”.
Pochi versi che incidono il nucleo portante del libro, sintetizzato nel titolo, anonimie. Le minuscole evidenziano il senso di cancellazione di una soggettività che si afferma, Io o Sé che sia. Ma quel “non sono” non ha qui – come ben sottolinea Giovanni D’Alessandro – il significato storicizzato montaliano, di “ciò che non siamo… non vogliamo” – ma di un soggetto singolo-collettivo che si sente smarrito, annullato, non da un gioco autoreferenziale di pensiero, ma dalla immensità dell’esperienza dell’universo, presente e per lui intangibile, come rileva Elio Pecora.
Ma questo vuoto, questo zero, non sono ripiegamento piangente, perché si fa pedana di ripresa del “cammino verso la conoscenza del sé” (D’Alessandro). Siamo dunque alle origini della Sofia, dell’essere conscio della propria infima e insignificante essenza e presenza di fronte a un universo dal significante e significato ignoti. Ribaltati però a fondamento di moto verso domande inesauste, di ricerca che può essere solo del senso dell’Altro e dell’Oltre, ma ricongiunte a specchio nel proprio sconosciuto Sé. Il vuoto diventa così fonte e utero di conoscenza, coscienza dell’interminabile circuito di nascita e rinascita, senza il quale il tutto rimane nulla.
Il gioco e la sfida di Pamio vanno perciò al di là del moderno e di qualunque suo post. Se in tali fasi storiche siamo stati folgorati e sommersi da forme di hybris, deliri di onnipotenza di incrollabili certezze di “magnifiche sorti e progressive” (La Ginestra, Leopardi), Pamio declina e ci sconvolge con versi: “l’incanto/ della fissità d’un bambino mai nato/ il poeta che io sono, mai avuto/ da nessuna madre, da nessun uovo”. Versi che sanno coniugare umiltà e ripresa di sé, nel volo di rinascita di una Fenice-Poesia.
Rinascere alla vita, nonostante i suoi orrori è l’imperativo categorico che ci dona l’astro (come è chiamato dall’Autore) della sua poesia. Davanti al Tutto che parla ed è muto, nasce lo stupore, lo smarrimento, la sofia e la poesia, che danno anche il nome di Dio a tutte le domande interminabili, cui l’atteggiamento mistico risponde col fervore della fede, e l’atteggiamento agnostico, con diversa umiltà lascia sospese.
Ma il Sacro è campo aperto per entrambi, imprescindibile fondamento del senso del limite e dell’etica, il cammino umano negli impervi ed esaltanti passi del pensiero moderno ha piantato lapidi con su scritto “Dio è morto”. Ma l’uomo è vivo? Pamio su questo crinale riparte dalla lapide della morte dell’uomo, eredità di un processo antropologico, senza il quale siamo nulla. In tale alveo, le domande riguardano anche la teomantica e il campo pieno di croci e orrori consegnato dalla storia. Pamio ci invita a ripartire davanti a un immane fallimento che, se è di Dio, è in primo luogo del suo presunto vertice o specie eletta della Creazione.
Nel circuito vitale misterioso, che continua e non ci appartiene, la morte e la vita sono due facce dello stesso Tutto, congiunte in un punto che è Amore, con mille nomi e forme al pari di ogni altro ramo e nucleo della Cosa che chiamiamo Vita. È il nome del mistero che ci dona e domina con la sua petite mort – geniale dicto-scintilla, verbale, materiale e spirituale – di nuova vita. È il campo aperto di infinite anonimie, che attendono da noi di riavere la dignità di un nome.
Può il poièin morire e rinascere in questo campo di croci offrendo il suo canto straziato di corpi senza nomi? È la domanda aperta, senza pace ma affamata di gioia, che questo libro ci lascia. Un libro che si libra in precario equilibrio, di un soggetto che dopo aver inscritto lapidario “Fugge da me ogni certezza”, ribalta come clessidra gioiosa l’invito a “orfanarsi” nel volo di una “cartaventosa”, di una “Cartadittamondo” per porsi e porci, nudi e indifesi, tra paure e tragedie, in uno smarrimento che si fa luogo di linfa singola-collettiva di utopia resistente: “uniti nella speranza nella pienezza dei tempi/ disseppelliremo il nuovo contratto con il mondo”, fino a reinventare il lampo sotto le bombe del mattino ungarettiano, in una forma che è una sorta di balbettio infante: “M’incantesimo d(’)i/m– (m)en(s)o. Scoppiano le bombe e insieme scoppia la gioia-poesia:
“vita è scostare le tende/ per vedere ogni altro mondo”. L’insegnamento è: bisogna partire dal minimo, ma occorre salvare il sogno critico capace di re-agire e smascherare il pensiero unico del turbocapitalismo, tendente a cancellare differenze e a ridurre la ricchezza dell’umanità in un’unica metropoli mondiale.
La ricerca espressiva di Pamio va dunque oltre appagamenti minimalistici o chiusure in torri d’avorio parnassiane, per misurarsi col vento di tutta la storia umana. Un libro vitale e ricchissimo di stimoli, di filosofia, scienze sociali e poesia, da quella più alta fino ai cantautori moderni.
L’Io è sbeffeggiato e rincorso tra sarcasmo e autoironia, colma infine di pietas: “il mio io…consenziente, vigliacco, imbecille, codardo. lo conosco come le mie tasche. Vorrebbe corrompermi o vendermi per pochi denari, tradirmi. Non sa chi sono e di che cosa sono capace. Prima o poi lo trovo e lo ammazzo, con le sue stesse mani. E lo perdono.”
E uguale contropelo è riservato al contesto storico attuale, coi suoi simboli e poteri, che mentre marchiano la vita di massacri e “dal seme della sconfitta del bene”, continuano le declamazioni retoriche di trattati e sigle inutili (ONU, UNESCO, FAO), in un “teatro delle Illusioni” e delle falsità.
Allo stesso Dio, nome di Tutto e Nulla della sua Teomantica, non concede sconti e quella pietas riservata all’umano: “Mio Dio che sei l’unica parola/ che avrei voluto dire e pensare”; “Dio, solo l’inizio d’una negazione senza fine”; “L’Eterno, L’Onnisciente,…L’Onnipotente…lo cerchi in ogni dove./ Fin quando – in un filo d’erba che oscilla/ con superbia per aver resistito/ allo strazio del vento,/ lo trovi: il tuo Io.”; sì, se “Sono: ti annullo, Dio./ E poiché mi doni la parola,/ sia Tu maledetto, compiaciuto in Te stesso…/ amarTi del Tuo Amore, demente Dio ingordo di me,/ che io non sia mai Tuo.”
Le domande su Dio e sulla Poesia sono entrambe interminabili e senza possibili risposte definitive. Altrettanto si può dire della scienza e del soggetto interrogante, Io o Sé che sia. Ma senza queste domande la vita umana è monca. Il valore di questo libro è di farne testo in forma di poesia. Per cui, chiosa opportunamente Forni: “La sua poesia potrebbe sembrare a una lettura superficiale scevra dagli agganci al presente, intrisa di metafisica e di spiritualità”. È un profilo rispondente a quello proposto da Gabriella Sica: “Forse sei anche tu, almeno un po’, come un tuo antenato, il bellissimo pre–italico guerriero di Capestrano. Anche lui non smette di combattere nell’istante e nei secoli, orgoglioso e docile, ‘l’eroico protagonista/ e l’umile comparsa’”.
11 gennaio 2023

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Helene Paraskeva – Storie, Sogni e Segreti

Pubblicato il 7 novembre 2022 su Saggi Poesia da Adam Vaccaro

STORIE, SOGNI E SEGRETI
di Helene Paraskeva, poesie, Fuis, 2018

Lettura critica di Francesca Farina

Il volumetto, pubblicato a cura della Federazione Unitaria Italiana Scrittori, agile ma tutt’altro che semplice o di facile lettura, se non apparentemente, comprende tre diverse sezioni, che tuttavia si intersecano tra loro come in arcane corrispondenze, quasi a richiamare la nota poesia di Baudelaire dal titolo omonimo. Nella prima sezione intitolata Storie, sin dalla poesia incipitaria Profughi, l’angoscia della Storia, del tempo presente che siamo vivendo, del tempo declinato in ogni suo modo, spinge la poeta a immedesimarsi nella condizione di colui che vaga perennemente lungo le strade dell’esistenza e della terra, portando pesi intollerabili, realtà che la stessa autrice, di origine greca ma residente in Italia da molti anni, probabilmente ha sperimentato e che non può non destare amare riflessioni sul destino dell’uomo. Un grido promana dai versi, una disperata ricerca di evidenza contro lo sguardo cieco del mondo, che nega la realtà tanto tangibile della violenza subita dai diseredati, dell’abbrutimento degli ultimi. Il delitto dell’indifferenza permea le menti, più che gli occhi, di chi non si cura del simile, lo ignora, lo cancella dalla vista e dal cuore.
Ancora grida di selvaggio orrore che invocano amore, corrispondenza, attenzione, laddove non esiste compassione, accettazione, compassione: muri, lacrime, valigie in Profughi e barriere, una fuga priva di speranza, e tuttavia la sofferenza umana senza senso potrebbe far “crollare i muri”, mentre nell’abisso dei gorghi marini si gioca la sorte tra chi sarà salvato e chi sarà sommerso: come se scalassero una montagna d’acqua, i naufraghi risalgono la china delle onde per non esserne travolti. L’angoscia della eliotiana “morte per acqua”, dopo aver attraversato senza cibo né bevande il deserto di un mare più crudele di quello di sabbia, è lontana dalla retorica delle parole degli indifferenti. Ma neppure all’Isola di Lesbo, il beato luogo dell’anima a cui allude la poeta, che vide Saffo aggirarsi tra le fanciulle del suo tiaso, si ritrova un po’ di pace, se ora è diventata rifugio precario e spaventoso dei miseri profughi di guerra, i cui “panni scoloriti” “violano l’atarassia delle agavi immortali”: perfino le sacre, eterne piante paiono assorbire il dolore di questa tragedia.
Nessuno, neanche la potente Medusa anguicrinita, leggiamo in un’altra poesia, benché supplicata dai suoi stessi serpenti, può salvare le vittime che sprofondano nel nero abisso dell’indifferenza, oltre che delle paurose onde del Mediterraneo. La grandezza degli dei atavici, che intervenivano a soccorrere gli antichi eroi, nulla può di fronte al nuovo sfacelo dei corpi e delle anime. Mostruosi, terribili pesci emergono dai flutti, tra le reti dei pescatori: un “Bambino vestito a festa”, ma forse ne abbiamo già dimenticato il nome, non la postura, simile a quella di un bambolotto di pezza abbandonato sulla spiaggia: nessuna salvezza per lui, nessuna pietà.
Un’improvvisa, tenera nostalgia investe i versi, dopo tanto orrore: il passato fuggito, le estati volate via come aquile, tutto ritorna nella poesia che fa risorgere ogni sentimento, ogni memoria, ogni parola, le persone amate e scomparse ma non dalle strofe, il desiderio del ballo, del canto, delle risate, della vita stessa: la poesia ricostruisce sulla pagina e ridesta a nuova esistenza tutto ciò che si credeva perduto per sempre. Anche l’amore colma di sé i testi, l’amore che arriva inaspettato e che tutto travolge, destato da “un uomo impavido” che sfidò gli eventi tragici della Storia, un bene assoluto, bramato, che trascina in un precipizio, un infinito tutto, indimenticabile e inesauribile. Immagini potenti vengono poi suscitate in Fantasmi, i cui versi sono ritmati come al suono del tamburo della voga, in un’imbarcazione: ed ecco che grazie alle parole della poeta si innalza di fronte a noi Desdemona, condannata a morte con violenza barbarica dal suo Otello, ecco Famagosta, ecco le galee e le onde, ecco il delitto e la passione, il Tempo che tutto annulla.
Si ritorna a volte a casa, nella memoria, al luogo del lutto, della tragedia annunciata, mentre imperversa un’estate furente, e ci si sente quasi invasori nella propria terra, assai bene connotata da pochi versi, certo la Grecia, patria della nostra autrice. Una leggenda millenaria si accampa sulla pagina, la splendida Sirena dalla sensuale postura, mentre l’amore aleggia tra le rocce e il cielo, fino al compimento del suo destino, al recupero doloroso della propria mortalità. La Storia è importante, questo ammonisce l’autrice da altre strofe, a conclusione di questa prima sezione del volume: dobbiamo “rimembrare tutto” e per primo il secolo appena trascorso, l’oscenità dello sterminio, parola d’orrore, odore di morte alle narici, i forni crematori ancora caldi di corpi…e oggi nella nuova, atroce guerra, sappiamo che dimenticare può costare la vita.
In apertura della seconda sezione, intitolata come detto Sogni, l’amore entra di soppiatto con la grazia di un “sogno estivo” e si fa largo tramite la dolcezza delle sensazioni e dei sentimenti, così baci e visioni si mescolano tra loro fino a creare illusioni meravigliose, fatte di fuoco come il sole d’agosto, altrettanto necessarie della stessa luce del sole. La classicità arriva quasi inevitabilmente nella poesia dedicata a Icaro, con la grecità di cui è intrisa l’esistenza, l’anima stessa della nostra autrice che si fa largo tra le frasi poetiche e squarcia l’ineluttabile, facendo trionfare ancora il mito antico quanto l’uomo nella necessità del volo, l’impossibile anelito che sempre attira al cielo e fa precipitare le ambizioni umane in un eterno baratro.
Perfino nello sport, esaltato dal testo successivo che si intitola Sci nautico, si colgono echi sovrani di classicità, la mitologia degli antichi emerge ancora, siamo di nuovo a Olimpia, nello stadio o nello specchio di mare di fronte ad Atene, ad eccitarci nello slancio che fa ebbro l’uomo che aspira al volo e alla libertà. Talvolta le poesie di Helene Paraskeva si fanno criptiche, ma bastano pochi nomi, quelli immortali di Kavafis o Seferis, a suggerire un intero universo, una stagione ardente, sensualità di colori accesi, di corpi esposti, e ancora desiderio di libertà, oltre la finitezza dell’umano, parola-chiave della sua narrazione. Ma quale sarà l’isola non trovata, la “terra perduta” della poesia Senza nome di cui parla la poeta alla pagina 43 del suo volumetto? Forse quella dei sogni mai avverati, delle occasioni mancate, dei traguardi mai raggiunti? Una nostalgia d’eterno mai sanata si rivela tra i brevi, lancinanti versi che ci fanno andare oltre l’apparente semplicità, in realtà succo distillato di senso, parola che squarcia, pensiero che dilata la vita fino all’impossibile immaginazione, vero regno del poeta. Una fiaba, una leggenda, un mito riassunti forse in questa Occhi d’oro in cui Helene Paraskeva traccia delicatamente il ritratto della dea dell’amore, la “Maestra dagli occhi d’oro”, Afrodite appunto, colei che sorse dalle acque dell’isola di Cipro, colei che insegna ad Eros la sensualità e non permette a nessuno di sfuggire al suo sguardo, di non sottoporsi al suo dominio, quasi nuova Medusa abbagliante e inesorabile.
Nella successiva, sempre dedicata ad Afrodite, sembra di assistere alla nascita della dea suprema e avvertiamo le tenerissime sensazioni che dovette provare la Dea e chi per primo la vide emergere dai flutti del mare Egeo o Greco, posata poi la mano “sulla tiepida sabbia” del litorale, l’ombelico divino esposto alle acque, alla luce, eppure l’amore è stato calpestato, quasi cancellato, perché sappiamo bene quante volte questo delitto è stato commesso col massacro pressoché incessante delle donne.
Nella terza e ultima sezione intitolata Segreti, ancora il mito classico greco pervade come un’ombra sotterranea, ma vivissima, esuberante, la pagina, e qui è Edipo a dominare i versi, ed Ercole, e Tebe, e Giove, ma anche la Bibbia con Isacco il capostipite, nomi che permeano le nostre esistenze con le loro antiche rimembranze. Il desiderio del ritorno, o meglio la nostalgia, ossia il dolore del ritorno, compongono un’unica quartina dal titolo Ancora e ancora e… colma di struggente malinconia: si vorrebbe sempre tornare, ma occorre rendersi umili e accettare di ritornare anche al se stesso di un tempo e al rischio di sentire “amara” perfino la propria terra. Nel testo successivo, la poeta ci propone quasi una rilettura dell’Amleto di Shakespeare: qui la Regina col suo mistero, forse la complicità nel delitto del suo stesso sposo, è come se si stesse risvegliando dopo l’incubo del suo assassinio e vorrebbe allontanarne l’orrendo ricordo, avviandosi lungo una strada infernale. Eppure non vuole ammettere neanche con se stessa quanto è accaduto, mentre Amleto, suo figlio, si strazia per lei più di quanto quella non sia straziata da se medesima.
In Re Barbone, sempre citando Shakespeare, troviamo un testo mosso come un mare in tempesta, agitato dal plurilinguismo che sconvolge la trama dei versi, inseguendo un senso, ma niente pare avere significato, poiché il nulla assoluto domina fino alla follia i personaggi in scena, ancora sullo sfondo delle tragedie shakespeariane. Perfino la pittura entra nella pagina, in Picasso sa, con le immagini tipiche dei suoi dipinti, le donne fatte a pezzi, ciuffi, nasi, fronti e menti, occhi e nomi, una sola guancia per non girare l’altra, accenno alla nota parabola del Vangelo cristiano: scatta quindi l’ironia che suscita un sorriso amaro e una riflessione su quell’artista irraggiungibile e irredimibile.
Anche nella successiva poesia rinveniamo il sarcasmo scatenato dall’esaltazione della falsa modernità che provoca soltanto sofferenza, dato che deriva dal possesso di oggetti per fabbricare i quali serve il Coltan, un materiale speciale e quasi demoniaco, dato che per ricavarlo dalla terra si impiegano anche dei bambini. In realtà, la tragedia della morte in fabbrica entra nella pagina a sconvolgere la memoria degli smemorati: ancora una volta lo scherno scardina il verso, quasi a voler mitigare l’orrore di un dramma inaccettabile che passa ormai sotto silenzio e si fa routine sui mass-media come fosse uno scherzo degno di Halloween. Helene Paraskeva si volge di continuo verso il mito eterno degli dei che sovrastano la sua mente, che permeano la sua stessa essenza, quando cita Selene, che poi è la Diana dei Romani, dea della luna e della caccia, colei che turba i sogni degli uomini illudendoli che siano ancora forti e potenti almeno nel sonno, ma al risveglio la realtà mostrerà di nuovo le loro ferite, precipitandoli nell’orrore e nel dolore del quotidiano.
Ancora, andando avanti nella lettura, ecco un amore che dilania, che faccia piangere e soffrire il fedifrago: questo si augura la donna innamorata e delusa, come per guarire dalla passione lacerante, devastata dall’assenza dell’amato, il quale diventa poi un cinghiale nei versi: ma si tratta di un cinghiale o di un uomo colui che viene sottoposto ai tranelli del linguaggio? Lo squartamento, l’eviscerazione avviene nelle carni dell’animale o della persona? Talvolta nei testi dell’autrice troviamo sensi assai ardui da decifrare, che forse soltanto lei potrebbe aiutarci a comprendere, a sviscerare… La parola gabbiano, abusata in poesia e spesso banalizzata, se utilizzata romanticamente come simbolo di libertà, di assoluto, di anelito supremo, assurge qui ad un nuovo significato, assai originale, dell’uccello filosofo, in contemplazione presso una pira, sul sacro Gange, ma anche di colui che è fedele al Dogma dell’Attesa. Del resto la Grecia non è forse patria della filosofia? Però qui è sufficiente una sola parola, Gange appunto, a spostare repentinamente tutta l’azione in un altrove straniante.
La triste condizione del povero Orso Manolo, costretto a umanizzarsi di fronte alla bestia-uomo e al Mostro Domatore, è più umano degli umani e ci ricorda, casomai ce ne fosse bisogno, dello sfacelo della Natura, delle indicibili sofferenze degli animali che non possono non ricadere sulle persone, sull’intera specie umana, toccando un altro tema molto caro all’autrice anche quando rende protagonista, venerandola nei suoi versi, una semplice ma mitica Civetta, Athena noctua, nella celebrazione perfetta di questa creatura notturna, una piccola dea dei boschi profondi, la quale, secondo la tradizione greca, se ne stava appollaiata sulla spalla/ di Atena, simbolo della sapienza ancestrale che irradia ancora da lei attraverso i secoli. La rievocazione dei grandi lirici greci, con l’immagine della giovinezza e della freschezza di graziose fanciulle, Lolite, solubili all’istante, contrapposta alla malinconia e ai rimpianti del vecchio Omero: immagine eterna di due diversi destini, ci riporta inequivocabilmente alla classicità, ma spesso i versi di Helene sono criptici, ermetici, quasi misterici come le profezie della Pizia, nella poesia Corridoio, in cui creature, simboli arcani, parole simili a coltelli, insomma ogni elemento del testo sembra nascondere un enigma, che forse solamente l’autrice potrebbe sciogliere, se lo volesse.
Improvvisa si fa largo una gioia amara, la fine della stagione più attraente, l’estate dei giorni raggianti, la quale non porta altro che spaesamento, dispersione, panico, quasi che si piombasse in una voragine senza luce perché tutta la felicità del tempo scintillante della calda stagione è scomparsa, probabilmente per sempre, se è emblema della maturità dell’esistenza umana che declina. Miti, leggende, fiabe e racconti, penetrati tutti nei gangli del mondo, vengono rievocati in Trasformazioni, dove la Regina di Saba si muta in Esmeralda, la protagonista di Notre-Dame de Paris di Victor Hugo, accanto al suo pio campanaro Quasimodo, e rinasce zingara, ovvero gitana, come i suoi più lontani antenati. Ricordiamo infatti che la parola “gitani” deriva da Aegyptus, Egitto in latino, perché si dicevano originari della terra delle Piramidi, mentre Saba è identificabile col Sud dell’Egitto, appunto. Esmeralda si tramuta ancora nella Carmen plebea, la sigaraia dell’omonima opera di Bizet, e tutto si fonde e si compenetra, in una danza esaltante di versi, a chiudere questo vertiginoso cerchio di connessioni culturali.
In Inspiegabilmente un’altra stagione, l’autunno, viene celebrata in pochi, perfetti versi carichi di nostalgia per ciò che scorre, che è impossibile fermare, mentre anche la passione, per un’estate o per un uomo, si spegne, spazzata via dal vento come ha spazzato dal tavolo di latta,/ l’amore eterno/ e la magia degli avanzi, oppure in Caos una pioggia incessante diventa un diluvio universale, con le sue acque infernali quasi omeriche o dantesche, che travolge ogni cosa facendo esplodere il mondo quasi fosse l’eruzione di un vulcano: immagini suggestive nate da una potente fantasia, dall’oscurità del linguaggio e venute alla luce soltanto grazie alla parola. Altra immagine infernale, quella dell’Ade, di fronte alla cui porta stazionano Minosse, Eaco e Radamante, i pesatori dell’anima, coloro che vagliano i cuori, a cui nulla e nessuno può sfuggire, mentre la classicità intride i versi, poiché appartiene al sangue della poeta e sgorga sulla pagina tanto spesso come da una ferita aperta e mai del tutto rimarginata.
Il Vesuvio con la città di Napoli è invece sullo sfondo di certi versi, rievocata dall’espressione vernacolare, allora si cade all’improvviso in un altro universo, quello sconvolto dalla modernità che si sottomette alla tecnologia, sconfitto lo zolfo dei millenni, cancellato il tempo eterno. Subito dopo non sappiamo a quale città l’autrice rivolge due brevi strofe, quale agglomerato urbano celebri nella sua patetica bellezza quando, come una mendicante, fruga tra le rovine e la spazzatura, ed è ridicola se fa la sciantosa: forse si tratta ancora di Neapolis, la Nuova Città fondata dai Greci, miserabile e scellerata, ma sempre pronta a ritrovare la grazia millenaria, risorgendo dalle sue stesse ceneri, come l’araba fenice del mito.
Nella successiva Milano invece è dichiaratamente omaggiata la città lombarda, davvero clamorosa, dove l’eccezionalità diventa pane quotidiano, e in cui ogni atto crea stupore se si incontra Manzoni sul tram, se si ritrova il quartiere popolare accanto all’elegante belcanto, se il lavoro diventa l’assoluto dell’esistenza, quando a Roma risorgono ovunque laceranti memorie, Giordano Bruno arso vivo a Campo de’ Fiori, o gli ebrei traditi nel loro Ghetto e sterminati nei lager tedeschi: da una parte l’estrema solitudine del filosofo e dall’altra l’orrore dell’indicibile che ancora aleggia nelle vie del quartiere presso il Tevere, il ricordo innominabile ma incancellabile del rastrellamento del 16 ottobre del 1943.
Il mistero della vita e della morte ancora si insegue tra i versi criptici, quasi cifrati, con Amleto che ancora una volta ci guida ad indagare sul senso dell’esistenza e della sua fine come davanti al cranio di Yorick nell’omonima tragedia shakespeariana, ma la missione del poeta è quella di dialogare col sacro e col sublime come con l’infimo, tentando percorsi secolari e aprendo nuove strade, gli occhi accesi a scrutare l’impossibile, a profetizzare da ogni cosa, Inferno Purgatorio e Speranza: Orrore, Mediocrità e Futuro, forse sono queste le parole-chiave che si celano dentro il verso che chiude l’unica, brevissima sestina Al Poeta, di pagina 101?
Testimonianza altri versi di un tempo tragico appena trascorso, probabilmente, dell’esilio sofferto, del dissanguamento simbolico patito, ma anche della speranza che infine viene esaltata come una liberazione, sebbene sia troppo tardi per festeggiare: la vita precipita e ci avviciniamo decisamente alla conclusione delle poesie e alla chiusura della silloge, con ancora un’eco indicibile della classicità mai trascorsa, che permane nel telo incompiuto/sul telaio a rammemorare Penelope, con la celebrazione dell’ormai passata stagione dell’epica, trasposta nell’attualità quotidiana, lo stile modesto delle battaglie del cuore e delle passioni amorose, irrinunciabili. La stagione estiva, che si consuma come si consuma la vita, è di nuovo oggetto di struggente poesia, denotata da un verso che ricorda banalmente le previsioni meteorologiche, commento che abbassa subito il climax perché nei testi di Helene Paraskeva alto e basso, sublime e comune convivono e si confrontano di continuo: così, nuovamente l’eccelso e il vieto si mescolano e si compenetrano nel segno della Divina Sfinge da interrogare incessantemente.
Ma è sotto il segno della frenesia della Menade, innominata eppure presente, che la poeta si congeda nel richiamo della selvaggia danza solitaria, convulsa, simbolo del piacere di vivere come anche della stessa Poesia, canto che lei si augura di praticare finché il suo cuore batterà come un tamburo, immagine potente di vitalità e di forza che invita a cogliere la gioia dei giorni, nonostante tutto.

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“Google – Il nome di Dio”, sulla Rivista Italica – Canada

Pubblicato il 16 giugno 2022 su Saggi Poesia da Adam Vaccaro

Scritture e letture

Adam Vaccaro, Google – Il nome di Dio, Pasturana (AL), puntoacapo, 2021

Comunichiamo con piacere che il libro, nella lettura approfondita di Luigi Cannillo, è stato inserito nel Volume 98-N.4 della Rivista Accademica Americana, ITALICA. Rivista Canadese prestigiosa, per le ricerche estese e le testimonianze letterarie che offre dalla sua fondazione, del 1924.

Ne siamo onorati e grati alla Direzione.

Redazione Milanocosa

Vedi a

Google – Il nome di Dio – Letture4

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Lo scrigno e il labirinto di Annamaria De Pietro

Pubblicato il 19 novembre 2020 su Saggi Poesia da Adam Vaccaro

Alla Poesia di Annamaria De Pietro

Riprendo due, tra i miei saggi critici, dedicati alla poesia di Annamaria: quello che segue,  sul suo Primo Libro delle Quartine, del 2015, e in fondo (link Il labirinto, in Sotto la Superficie, letture di poeti italiani contemporanei, (Milano, 2004).

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Lo scrigno salvato di Annamaria De Pietro
In “Rettangoli in cerca di un pi greco – Il Primo Libro delle Quartine”
Marco Saya Edizioni, Milano 2015.

Adam Vaccaro

Sono due le aree di esperienza, quali possibili fonti di una forma e di una espressione letteraria: quella vissuta al di fuori di ogni contesto letterario, e quella alimentata da quest’ultimo. Sono due ipotesi estreme e astratte, che non possono essere mai esclusive. L’esperienza col mondo della prassi non può non esserci, come l’esperienza con quanto la scrittura ha accumulato nei secoli. Ma è questione di misure. Nel caso di Annamaria De Pietro, anche non conoscendola o non frequentandola, i suoi testi non lasciano dubbi sulla preponderanza della fonte letteraria.
Ho seguito sin dall’inizio la produzione di Annamaria, sviluppata in forme e rami diluviali e variegati, ma sempre connotati dal timbro di un incrocio mobile tra ricerca ossessiva di precisione, fascinazione sonora e ricchezza barocca. I pregi della sua scrittura si sono articolati e sviluppati nell’arco ormai ventennale della sua ampia produzione poetica, entro tale preponderanza e quadro esperienziale, e entro tale inesausta ricerca creativa.
Scrissi, a proposito di Venti fusioni a cera persa (Manni, Lecce 2002) che in particolare con quel libro Annamaria trasmetteva l’immagine di “uno strano incrocio tra un altare e un banco da lavoro di artigiano, di falegname o di faber”, e se “Il fautore, fattore, dell’altare è naturalmente figura sacerdotale, che pretende di incarnare i segreti dell’ignoto…, l’artigiano è colui che si muove qui, nelle fatiche del quotidiano, tra lampi del corpo e pietre del cuore, e per questo sa dare forma concreta all’evocazione, controllandone/ garantendone l’accuratezza esecutoria”. Termine che, sottolineavo, aveva anche un “carattere omicida, anzi di ‘matricidio’ e/o ‘parricidio’ del gesto della scrittura”, di cui De Pietro “sottolinea il re-inizio e l’iniziazione ai misteri più profondi della vita”; e “per questo la scrittura è ‘superba, assassina per buon diritto’, che nel processo generativo agisce ‘a tutto imponendo, violentemente, il suo patrimonio genetico, la sua serie formale’”.
“Dunque, accento posto sull’arte che nasce dalla morte, dalla perdita irreparabile (come la cera del modello da cui emerge l’oggetto fuso con tale tecnica) di ciò che ne è fondo epifanico…Arte del resto omologa a ogni spietata fenomenologia del processo vitale”: il “seme deve essere distrutto perché nasca la nuova pianta” e “milioni di spermatozoi devono morire per salvarne uno solo, uno solo alla volta. È la radice biologica della perentoria esclusività dell’amore…almeno, così come si è costituita nella nostra cultura. Allo stesso modo, la scrittura procede e costruisce le sue forme, uccidendo e scartando milioni di possibili parole per sceglierne e salvarne una, una sola alla volta.”
Chiosavo, però, che “sono gli accenti che contano. Cioè il punto di vista. Dello stesso processo possono essere ostensi i cardini (gli stessi) sul versante della vita o della morte”. E se “il sacerdote tende a illuminare lo scacco di ciò che precede”, per mostrarne “tutta la riduzione a residuo e nulla”, per “esaltare…la suprema e definitiva nascita, che si innalza autonoma e (quasi) sprezzante su ciò che c’era prima e ciò che ci sarà dopo”, salva dal “rischio della deriva di onnipotenza la presenza dell’artigiano, del faber. Che conosce l’umiltà e i segreti della materia. Che sa come ogni materia, anche quella fatta di semi neri sulla pagina, non viene dal nulla, viene da un immane calco ignoto, irraggiungibile e indimenticabile, cui la sua opera non può smettere di continuare a tendere…. Pena una perdita totale di misura di sé e/o di totalizzazione e ideologia del testo.”

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Vincenzo Guarracino su Gilberto Finzi

Pubblicato il 28 luglio 2020 su antologie da Adam Vaccaro

Segnaliamo il libro a cura di Vincenzo Guarracino
GILBERTO FINZI – PAROLE A GUARDIA DEL FUTURO – puntoacapo Editrice, 2020.

Un libro denso e appassionato, tra i vari che Vincenzo Guarracino ha dedicato ad Autori di rilievo del secondo Novecento, da poco scomparsi. Autori che ci hanno lasciato somme di testi poetici e critici assolutamente necessari, per una conoscenza della nostra epoca non solo letteraria. I contributi di Gilberto Finzi sono stati, infatti, sia di ricerca poetica innervata in una visione di storia della letteratura, sia di testi di critica dedicati di volta in volta ad Autori e movimenti del passato, come ad esemplari della produzione poetica contemporanea. Ma non solo, diversi suoi libri sono dedicati a una critica contropelo ai molti mali e snodi del degrado italiano.
Di tutta l’enorme produzione creativa e critica di Finzi il libro di Guarracino ci offre una una profonda sapiente lettura, insieme a una selezione antologica. E a corredo il libro è arricchito da una completa bibliografia, oltre che da una qualificata serie di testimonianze personali e critiche di: Cesare Cavalleri, Angelo Gaccione, Mario Grasso, Anita Guarino Sanesi, Stefano Lanuzza, Franco Manzoni, Angelo Maugeri, Guido Oldani, Ottavio Rossani, Carlo Alberto Sitta, Antonio Spagnuolo, Adam Vaccaro.

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Attraverso Milano – Relazioni su Beat Generation

Pubblicato il 28 giugno 2019 su Eventi Milanocosa da Adam Vaccaro

Biblioteca Sormani

Sala del Grechetto – Via Francesco Sforza 7 

 L’Associazione Culturale Milanocosa

Presenta

13 Maggio 2019 – ore 17,30

Attraverso Milano

Staffette letterarie e artistiche 

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Terzo Incontro

 Jack Kerouac e i poeti della beat generation italiana

A cura di Luigi Cannillo

 Relatori

Luigi Cannillo e Alessandro Manca

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Alessandro Manca
Estratto dal documento prodotto per l’evento dedicato alla presenza milanese di Jack Kerouac

1966
Kerouac a Milano
“Non c’è artista che tolleri il reale”
Nietzsche

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Testuale – N.61-62

Pubblicato il 20 giugno 2018 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

TESTUALE

critica della poesia contemporanea

n.61/62/2018

Autori

Giorgio Barberi Squarotti, Adriano Spatola, Giacinto Scelsi

Rosa Pierno, Gio Ferri, Luigi Cannillo, Adam Vaccaro

“Letterale”

Recensioni

Eleonora Fiorani, Marica Larocchi, Fausta Squatriti

Alessandra Carnaroli, Michelangelo Coviello, Michele Zaffarano,

Luciano Troisio, Andrea Rompianesi, Luciano Fusi

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TESTUALE 61 / 62 / 2018

Direzione

Gio Ferri, Rosa Pierno

Consulenza critica e redazionale

ITALIA: Renato Barilli, Marosia Castaldi, Ottavio Cecchi, Cesare De Michelis,

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L’origine – di Domenico Cipriano

Pubblicato il 5 aprile 2018 su Saggi Poesia da Adam Vaccaro

L’origine e l’Appartenenza
In L’origine di Domenico Cipriano

Adam Vaccaro

Domenico Cipriano, L’origine, l’arcolaio, Forlimpopoli, pp.60, 7€

Ci sono poesie che leggiamo con una operazione mentale di sguardo dall’esterno del suo altro o estraneo, che il piacere del testo tras-forma in alimento di crescita della nostra identità, nel suo moto vitale, autopoietico e proteiforme. Ci sono poi testi (e intendo con ciò anche immagini, suoni, emozioni ed esperienze di qualsivoglia condivisione intensa), come L’origine di Domenico Cipriano, che sono materia e specchi subito riconosciuti parte di noi. È un tipo di condivisione che dona senso di appartenenza in quel tutto che possiamo prendere sempre e solo in parte, magari per “la grazia di frammenti/ provenienti da lontano”, o per qualche “dettaglio marginale – sepolto e inaccessibile –/ che compensa l’angoscia/ la distanza sconfinata dalle stelle” (p.23).
Già con questi versi viene divaricata la complessità non riducibile delle nostre esperienze. Di quel Tutto, che pure è utero che fa di noi ciò che siamo, non riusciamo peraltro a vincerne il senso di distanza insopportabile. A cominciare da quello che Claudio Magris chiama primogiardino, luogo della nostra prima visione e (ri)creazione mentale del mondo. In tutti i casi la poesia ci affascina se sa dirci che “la memoria è un cuscino ardente”(p.35), voce dell’anima comune nel mare di ricchezza e molteplicità di una umanità, che chiede virtude e conoscenza.
Una complessità che comincia nell’incrocio strabico che fa vedere anche noi stessi come “dal di fuori”. Ma il “chiarore della mente/ che non lascia arrendere la conoscenza”, può farsi epifania di una sollecitazione etica: “salviamo la distanza” (p.22). Che qui vuol rovesciamento di clessidra, operazione mentale e vitale per la quale ciò che ci appare esterno diventa nostro, il nonluogo diventa luogo, e l’estraneo diventa fratello. Il che vale anche per la nostra immagine riflessa in uno specchio all’inizio del nostro percorso di formazione. O parimenti per lo specchio-scrittura, rispetto al quale c’è l’atteggiamento di chi si compiace del suo tasso di falsificazione o ri-velazione; e chi, invece, come Cipriano, dice “Soffro la distanza della scrittura”(p.33), per cui tutta la sua azione poetica diventa (f)attore prezioso di una tensione tesa alla riduzione di tale distanza.

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