V. Guarracino

Guarracino, L’Angelo e il Tempo

Pubblicato il 30 gennaio 2023 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

L’Anima, la Rosa e la nostalgia del Padre
Adam Vaccaro

Vincenzo Guarracino, L’Angelo e il Tempo – e altri poemetti, Book Editore, 2022, pp.70

Un libro dal titolo che potrebbe essere tradotto in lo Spirito e la Storia, seppure ogni traduzione è sempre tradimento, e la storia è evocata nelle Note dell’Autore in fondo al libro, non solo nel richiamo del primo poemetto che dà titolo al libro e sintetizza la sua visione espressiva: “dar voce per scorci visionari a questa storia”. Ma sono due in ogni caso le polarità o colonne di senso della costruzione di questo splendido libro di Vincenzo Guarracino: il divino e il profano, l’invisibile e il visibile, della realtà totale e vitale che ci costituisce. E per uno studioso appassionato di Leopardi, quale è Guarracino, non stupirà se rilevo quale nervo della forma che unisce e restituisce la tensione alla totalità – per me timbro di poesia – la stella polare leopardiana sintetizzata nel sintagma di una parola materiale e lirica.
Certo, il tempo del titolo è anche quello che va dal 1978 al 2022, in cui sono gemmati e maturati i nove poemetti che costituiscono il libro. Ognuno dei quali è radicato in un Autore/Maestro, un Padre (cui è dedicato il poemetto in forma di raccolta preghiera, “NEL NOME DEL PADRE”) o di un tratto di rilievo del proprio percorso umano e culturale, oppure in entrambi: lieviti epifanici dei testi, di cui Guarracino offre nelle sue Note ampi richiami, che confermano come lo spirito e la forma siano con-fusi in quella parola, che guida la sua scrittura, saggistica o creativa che sia.
A una lettura superficiale tutti i poemetti possono risuonare come un concerto raffinato di parole, appagato della musica che intonano, ci culla e delizia. Ma gli echi e alimenti che sostanziano i testi risalgono sempre a quell’Oltre che chiamiamo Vita, tra squarci di Memorie, Incontri e Nomi, che vanno da Catullo a fari della poetica moderna, luci del percorso nel Tempo di chi è stato colto dal silente annuncio di quell’angelo chiamato Poesia.
Ognuno dei poemetti meriterebbe un’analisi specifica, per la loro dispiegata immersione rigenerante in quel Tutto di cui si fanno voce e forma. Ma – entro i limiti di una recensione – scelgo di soffermarmi in particolare sul secondo, UNA VISIONE ELEMENTARE, che ha in esergo versi e richiami di Roberto Sanesi, poeta e Maestro che ci ha trasmesso una visione di poesia interminabile, come linguaggio necessario nella misura col mistero inesauribile della Totalità.
Il poemetto è un oceano in XXV strofe, isole di una micro-macro nesia, rima poesia, con un Nettuno-Poseidone umanissimo, remigante e lampeggiante col suo sorriso denso di dolcezza e sapienza, ricondotto a noi da Guarracino, con memorie e versi nati sul crinale della nostra irriducibile dolorosa-gioiosa distanza. Che tuttavia si fa lievito di adiacenza, che risale come salmone alle fonti dell’incessante bisogno di rinascita:
“Non c’è più nella casa del poeta/…/il triste richiamo del telefono:// la voce scivola nel vortice/…/oscura tra il glicine la stanza:”, dove il poeta ci riappare con le sue indimenticabili reinvenzioni; “sorridesti; ‘M’affumico d’incenso’” e “’ti dirò chi c’è in cantina’ disse/ con la neve che scese su Milano” (XXIII, p.33).
Versi che si svolgono fino a una sorta di cantico della necessità del male, se “il pensiero col male esce dal sogno/ e la stanza è invasa d’improvviso/ da tutti forse i sensi della rosa/…/ le parole a te ormai più necessarie/ quelle che giorno dopo giorno danno/ corpo a una vita solo sognata// non fanno che riscrivere il destino/ nel vuoto di questo impenetrabile/ presente oltre l’opaco dello schermo:” (XIV, pp, 33-34).
Devo dire, versi che ricompongono una forte omofonia con i ritmi, i sensi e la musica di Sanesi, mentre interloquiscono, cercando di chiudere un cerchio che non può essere chiuso: “e qui forse potrebbe fatalmente/ padre fratello amico tu poeta/ qualcosa nel molteplice apparire:// l’ossimoro perfetto che è la vita” (XV, p.34).
Poesia immersa nell’indicibile, per spingerlo fuori dall’ombra di una caliginosa caverna platonica, quale orchestrata dagli schermi dell’”impenetrabile presente”, per strappargli alla fine quel lembo inarreso che sfugge, “ove ripensa la rosa la sua anima” (I,p. 21) e sa farne parola dicibile, senso e poesia.
26 gennaio 2023

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Vincenzo Guarracino su Gilberto Finzi

Pubblicato il 28 luglio 2020 su antologie da Adam Vaccaro

Segnaliamo il libro a cura di Vincenzo Guarracino
GILBERTO FINZI – PAROLE A GUARDIA DEL FUTURO – puntoacapo Editrice, 2020.

Un libro denso e appassionato, tra i vari che Vincenzo Guarracino ha dedicato ad Autori di rilievo del secondo Novecento, da poco scomparsi. Autori che ci hanno lasciato somme di testi poetici e critici assolutamente necessari, per una conoscenza della nostra epoca non solo letteraria. I contributi di Gilberto Finzi sono stati, infatti, sia di ricerca poetica innervata in una visione di storia della letteratura, sia di testi di critica dedicati di volta in volta ad Autori e movimenti del passato, come ad esemplari della produzione poetica contemporanea. Ma non solo, diversi suoi libri sono dedicati a una critica contropelo ai molti mali e snodi del degrado italiano.
Di tutta l’enorme produzione creativa e critica di Finzi il libro di Guarracino ci offre una una profonda sapiente lettura, insieme a una selezione antologica. E a corredo il libro è arricchito da una completa bibliografia, oltre che da una qualificata serie di testimonianze personali e critiche di: Cesare Cavalleri, Angelo Gaccione, Mario Grasso, Anita Guarino Sanesi, Stefano Lanuzza, Franco Manzoni, Angelo Maugeri, Guido Oldani, Ottavio Rossani, Carlo Alberto Sitta, Antonio Spagnuolo, Adam Vaccaro.

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L’infinito Leopardi

Pubblicato il 25 novembre 2019 su antologie da Adam Vaccaro

L’infinito Leopardi

di Stefano Lanuzza

Nell’Antologia
POETI PER L’INFINITO, a cura di Vincenzo Guarracino
Di Felice Edizioni, 2019

“Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / E questa siepe, che da tanta parte / Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”…: è l’incipit che contrassegna e fa volare i quindici endecasillabi sciolti dell’Infinito, dodicesimo dei Canti inclusi nella raccolta degli Idilli (1826) leopardiani dove la tendenza lirica romantica si fonde con una volontà realistica che contraddice l’introspezione puramente contemplativa e perfino arcadica troppo a lungo attribuita al poeta dalla critica idealistica.
L’Infinito, nella versione originale marcato con una I maiuscola che tuttavia non vuole suggerire un’interpretazione per così dire metafisica del testo, è composto negli anni 1818-’19 dal ventenne Giacomo Leopardi, “giovane” detto “favoloso”, prima del regista cinematografico Mario Martone nel 2014, da Anna Maria Ortese: “Così ho pensato di andare verso la Grotta, in fondo alla quale, in un paese di luce, dorme, da cento anni, il giovane favoloso” (Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi. In Da Moby Dick all’Orsa Bianca. Scritti sulla letteratura e sull’arte. A cura di Monica Farnetti, Adelphi, 2001).
La celebre poesia evoca un luogo di meditazione, il prediletto colle solitario, e una siepe che impedisce la vista dell’orizzonte segnando un confine oltre il quale regna l’arduo inconoscibile. Allora, fluente verso “interminati spazi e sovrumani silenzi”, resta la soccorrevole immaginazione, altro nome della poesia che Leopardi sempre volge in libera ricerca conoscitiva.
Spazi e silenzi inquietano l’animo del poeta e, non senza un orrore subito acquietato, gli fanno meditare sull’eternità coi suoi silenzi incommensurabili, sulle “trascorse stagioni” e “la stagione presente”, un realistico ‘qui e ora’ risonante dello stormire di piante carezzate dal vento che ha voce di un “infinito” eterno e indeterminato a colmare di sé ogni pensiero.
“Io nel pensier mi fingo” (con senso ben diverso da “Sogni e favole io fingo”, 1733 ca., del melodrammatico Metastasio); “ma sedendo e mirando” immagino e m’inabisso come a toccare, appunto, l’infinito stesso: “ove per poco / Il cor non si spaura”. È un pensiero che pure soavemente abbandonato al “mare” dell’“immensità” non per questo smette di essere lucido e di sciogliere la propria struggente aura lirica nell’attenzione per il mondo e l’umano destino, ossia con la verità intera della realtà mimesi della spinoziana ‘natura’ o laica e cogente ‘sostanza infinita’.
Ora, a ben due secoli di distanza dalla sua composizione, l’idillio leopardiano viene da Vincenzo Guarracino, uno dei maggiori studiosi dell’opera del recanatese, affrancato dall’entropia museale dei libri scolastici e, nell’antologia Poeti per l’infinito (Di Felice Edizioni, 2019, pp. 186, € 20,00), assunto quale misura di paragone dell’influsso esercitato sulla poesia italiana più recente.
È – osserva Guarracino – una trama di sorvegliate suggestioni o l’evocazione di una “memoria segreta e sotterranea” quella intessuta con le prove di cento poeti secondonovecenteschi presso i quali si assiste a una “riemersione” che fa “assomigliare” L’Infinito “a una sorta di carsica vena inesauribile, una memoria segreta e sotterranea che s’impasta e struttura con l’idea stessa di poesia”: qualcosa che, perlappunto, ha a che fare con l’indefinibile infinito.
‘Sottotesto’ risonante di echi, palinsesto ‘raschiato’ per far emergere sodali genealogie, emulazioni e simulazioni, L’Infinito appare un vivo “archetipo” per una conoscenza comparatistica en poète, ampio luogo di pluralità e metamorfosi confluenti in “un catalogo che convoca ed esibisce testi di autori che oggi vivono ed operano scrivendo il loro esserci nel panorama morale e civile di questi anni” in nome di “un’esigenza di parola” che continua ad avere in Leopardi l’inobliabile maestro e testimone.
Sono versi di agonistico quanto discreto confronto quelli che Guarracino aduna nel suo florilegio da cui si estraggono, qui, alcune campionature; con brevi versi trascelti a rappresentare un accordo e, talvolta, un’intima declinazione dei versi dell’Infinito…: “E in questa immensità / annegava la mia mente, pensando i confini del pensiero” scrive Alida Airaghi. Sono versi – commenta Guarracino – per affermare come sia “nel segno della solitudine, della ‘magia di ore solitarie’ che si scrive”. Mentre per Baudino, che modula la condizione di solitudine vissuta dal poeta dibattuto “fra luce e ombra”, l’infinito somiglia a un navigare “nella notte”; Brancale: “sia siepe o colle, / uno sbocco nell’orizzonte immenso”. Ciò – spiega Guarracino – attraversando “la siepe, il colle, l’orizzonte, il mare e poi il vento, le piante, lo stormire, il naufragio […]: quanti segnali a punteggiare la devozione del testo all’archetipo leopardiano!”; Cajani: “l’infinito porta l’eco della fiducia / distrutta nell’età che corre”. Col poeta che, tra impressioni di paesaggio, “insegue un sentimento oltre (e nonostante) ostacoli e difficoltà, la ‘siepe’ di un oggi senza qualità”; Giuseppe Conte: “… Cerca, esplora // tutte le vie del finito”. È inesausta la ricerca del poeta, la sua “‘fame’, quasi fisica” di sfidare “la propria condizione di ‘cecità’ con la felice smemoratezza e ‘leggerezza’ del suo canto”; Claudio Damiani: “lascia correre il tempo dentro di sé / e si apre l’infinito”. Senonché il poeta prende a farsi “rincorrere ‘all’‘infinito’ senza mai lasciarsi veramente catturare”; “Sempre cara mi fu questa spianata” svaria Antonio De Marchi-Gherini, “il quale legge nella filigrana dei versi leopardiani il proprio paesaggio fisico (il lago di Como)”; “Sempre ritorni tu sull’ermo colle / a questa siepe che nessuna parte / dell’ultimo orizzonte ormai esclude” sembra celiare Antonio Donadio con “una riscrittura divertita tra umori e veleni che si intuiscono lievitanti tra le pieghe dell’archetipo”; Alba Donati, consegnandosi a uno spazio-tempo tutto interiore: “… io a questo mai visto, / paesaggio appartengo tutta intera”; “Buio agli occhi. Vertigine” davanti all’indifferente infinito, immaginato oltre la realtà – appunta Marco Ercolani. Perché – rileva Guarracino – “il reale, ciò che si vede, è sostanzialmente una questione di ‘immaginazione’ […,] innescando un’avventura creativa destinata a un ‘naufragio’ essenziale”; Luciano Luisi: “Fin dove giunge lo sguardo”; intanto che – svela Elio Grasso – “Su questa collina / troviamo un’altra siepe, / un secondo orizzonte / che occupa il nostro sguardo”. Un luogo, la collina – commenta Guarracino – “di impensate risorse, consentendo di osservare oltre una ‘siepe’ continuamente risorgente ‘orizzonti’ sempre nuovi”; Dante Maffia: “… la violazione della siepe leopardiana”. Ché la statica “siepe” è “da oltrepassare (da ‘violare’) come scelta, come atto rivoluzionario di affermazione di sé”; Maugeri, traguardando le prospettive temporali: “… questo spazio d’aerei limiti…”; Rino Mele, con riflessiva requie: “Sempre più mi perdo”; Alessandra Paganardi, drammaticamente: “… ho sospettato l’infinito / e quanto può far male”; Renzo Paris, senza idillio e con lucidità: “in un pianeta dove il futuro sono / le morte stagioni e la presente / che è già materia di ricordo”; Ruffilli, indagando con sguardo speculativo: “Quanto dista, / si chiede dalla siepe, il mero fatto”; Adam Vaccaro, “sognando l’infinito”; e Silvia Venuti, gravitante in una quotidianità non scevra di attese: “Lì sostare, per intuire / segni d’Infinito”… Peraltro, “L’infinito quotidiano” è anche il titolo di una raccolta di versi del 1973 di Ennio Cavalli.
Come suggerisce Cavalli, in fondo, il sentimento dell’infinito, lungi dall’apparire come una condizione spirituale oppure metafisica, o solo cervellotica, riguarda soprattutto la vita materiale quotidiana e il desiderio mai sopito perché signoreggiato dall’immaginazione che, non limitabile dentro campi precostituiti, col suo carico di speranze, disperazioni, inganni e chimere pervicacemente s’innesta nell’umana esistenza.
Con puntuale adesione al cuore profondo della poetica leopardiana e moderna coscienza critica, Vincenzo Guarracino, nel suo saggio introduttivo Dentro l’infinito, tiene soprattutto a esprimere, pressoché segnalando un viatico non consolatorio per i poeti da lui scelti e per coloro che alla poesia possono ancora oggi fare malgré tout affidamento, che “l’esperienza della poesia, di ogni poesia, è l’esperienza di un nulla che interviene nell’attimo del pensiero, di quel pensiero che dice non senza impagabili sforzi, io sul crinale di un abisso”.

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Giornata per Gio Ferri – Forum Anterem 2019

Pubblicato il 4 ottobre 2019 su Eventi Suggeriti da Adam Vaccaro

PROGRAMMA DEL FORUM

A CURA DI AGOSTINO CONTÒ, FLAVIO ERMINI E RANIERI TETI

sabato 12 ottobre 2019
mattino – dalle ore 10.00

ore 10.00-10.15
INAUGURAZIONE DEL FORUM ANTEREM
Saluti delle Autorità

ore 10.15-11.00
“La realtà Testuale”
GIO FERRI (1936-2018)
POETA, CRITICO E ARTISTA VISIVO
Mostra a cura di Agostino Contò

Paola Ferrari legge una scelta di testi poetici
di Gio Ferri, predisposta dallo stesso Autore
negli ultimi giorni di vita

RELATORI
Vincenzo Guarracino, Adam Vaccaro,
Agostino Contò, Flavio Ermini

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Gli Attraversamenti di Beppe Mariano

Pubblicato il 9 marzo 2019 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

Beppe Mariano
ATTRAVERSAMENTI
Edizioni Interlinea, Novara 2018

Come dice nella nota critica di Giovanni Tesio, che accompagna, assieme a quella, more poetico, di Gianni D’Elia, l’ultima raccolta Attraversamenti di Beppe Mariano, ciò che compete al poeta e di cui si parla sono gli “attraversamenti di spazi, di tempi (di tempo), di vite”, per testimoniare attraverso di essi “l’orma, l’ombra, la traccia che sono le parole a segnare, a sostenere, nonostante la debolezza del loro naturale statuto”.
È insomma l’attraversamento della vita nella molteplicità delle sue occasioni e degli incontri (penso a persone concrete, Giuseppe Conte, Giorgio Barberi Squarotti, Stefano Verdino, il prefatore Giovanni Tesio, per restare ai più noti evocati nei versi), in cui il poeta, come un “migrante”, al culmine di un periplo di disgrazie e miserie, di vicissitudini e migrazioni, di disperazioni e speranze, di guerre e mari faticosamente vinti e superati non soltanto metaforicamente, si pone drammaticamente la domanda: “Mi sono salvato: perché io fra i tanti?”: l’attraversamento della storia, della storia dei nostri anni, su una scena di miti intramontabili che hanno nomi antichi (Edipo, Ismaele) ma solo per parlare dell’oggi, senza alcuna concessione al patetismo, che “solo la poesia” (per citare il titolo di un testo della seconda sezione Pietr/erba) sa salvare e conservare con laica pietas per risvegliare le coscienze dal torpore.
In questo senso, Mariano, già autore di una monumentale silloge Il seme di un pensiero (Aragno, 2011), fin dal primo e più caratterizzante poemetto, quello che dà il la a tutta raccolta, fa parlare la propria coscienza con una domanda in cui s’avverte sconcerto e stupore e insieme vicinanza con l’Altro, con le vittime di un Male irredimibile, che a tante prove non sono scampate: domanda tragica di una sensibilità perplessa di fronte a un orizzonte incomprensibile e in cui risuona il senso di una storia che non sa riconoscersi “nella maledizione che altri subisce e che altri sommerge”, che, come rileva Tesio, fa pensare ai Sommersi e i salvati di Primo Levi, per concludersi con il riconoscimento e l’affermazione dell’impegno a testimoniare, a “ricordare”, strappando all’oblio lacerti di vita. Un tema questo della memoria, che, urgente nell’ultimo testo della sezione, L’angelo, si innesta sulla presenza di luoghi, della Montagna (il “suo” Monviso), come ancoraggio a un sistema di valori, fatto di “gente” e di “storia” (“il tuo corpo mappa diventa della memoria: / della tua gente, della tua e loro storia”).
Qualcosa di più di una generica, buonista, solidarietà, insomma: è, il suo, l’atteggiamento morale di un individuo che si interroga sui fondamenti stessi dell’esistenza, sulle ragioni ontologiche dell’essere, con una determinazione amara che fa pensare al Leopardi del Canto notturno: “Dove comincia il cielo, dove finisce? / L’antica domanda si riformula / in una mente diventata troppo logica: / indaga il cosmo, non più chi l’ha pensato”.
A concludere l’intera raccolta, nella terza sezione Sconfinamenti, un testo, In regioni alte, che tematicamente e moralmente condensa e sintetizza il tutto, in cui campeggia il tema di una “vecchiezza” ostinata e al tempo stesso rapacemente ancorata alla vita (“corsara”) che non si rassegna e continua a proclamare la sua fede nel “poco verde che rimane”, nel residuo di umanità che l’individuo continua a coltivare nell’impervio e disumano paesaggio dell’oggi.
Vincenzo Guarracino

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Memorie di Cesare Ruffato

Pubblicato il 23 febbraio 2019 su Senza categoria da Adam Vaccaro

Segue un articolo dedicato da Vincenzo Guarracino alla memoria di Cesare Ruffato.
Ruffato è stato anche per me un amico e un maestro – una delle tappe più importanti del mio percorso di ricerca, cui ho dedicato alcuni saggi critici (vedi link in fondo), cruciali per la definizione di quella che ho chiamato Terza Riva della poesia.
Adam Vaccaro
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IN RICORDO DI CESARE RUFFATO E DELLA SUA POESIA
Vincenzo Guarracino

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Sulla poesia di Giovanni Albini

Pubblicato il 9 febbraio 2019 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

Una riflessione sulle Poesie di Giovanni Albini

“Mi tengo stretto alle parole”, dice Giovanni Albini in un testo, Testimone, che ha il sapore di una specie di dichiarazione di poetica, di un’istantanea che condensa il senso di un’intera esperienza di vita, nel segno di “piccole” ma necessarie, essenziali cose: tra un brivido iridescente di “felicità” e il dono impagabile di un “bacio”, la vita dispiega le sue magie, godendosi le “parole” che la dicono e ricordano fissandosi nel prodigio di una scia di suoni e di luce, nell’attimo effimero della loro apparizione e scomparsa.
Godendosi le “parole”, restando ad esse “stretto” e fedele: come dire che le cose esistono, ci sono se dette, se assaporate nei loro suoni, nei loro sapori. Che sono in grado di salvare dal naufragio, dal rischio della perdita di senso: “un guscio” protettivo e accogliente, come un caldo alveo di sentimenti.
Interpretando l’esistere come un “ex-sistere”, non “un permanere”, bensì un continuo spostarsi e oltrepassare, travalicando il permanere, andando verso la possibilità aperta, verso orizzonti e accadimenti attraverso i quali l’esistenza possa mutare nel corso del tempo. È l’avverarsi e il divenire forse di un sogno, in cui l’io possa avvertirsi a casa propria, pienamente padrone di mezzi e prospettive, benché con l’avvertenza di un senso di precarietà, dell’incombenza anche del dolore: un tendere sempre verso un modo di intendersi diverso e inassimilabile, verso “l’infinito o il nulla”, ecco, giusto come dice una lirica del 2001 il Gabbiano solitario, senza che immagini e ricordi, le “piccole cose”, si cancellino ma per via delle “parole” si addizionino in una sorta di catalogo di meraviglie, in un “oggi” perenne, come un’interminabile rivelazione.
È questo che intravediamo, in questo come in tutti i testi della breve silloge, governati da una educazione espressiva esemplare: una “felicità” in divenire, emozioni e brividi dell’anima, cui fanno da sfondo luoghi, figure, incontri, atmosfere di esotico fascino e suggestione, tra isole caraibiche e Marocco, contrassegnati spesso da nomi di forte impatto emozionale (Cuba, Havana, Playa de l’Este, Medina di Fes), e in cui trovano il loro spazio e la loro casa “pigri sogni e parole” e un desiderio inesausto di gioia che può prendere le fattezze come dei paesaggi di sogno dei mari attraversati e vissuti, così più ancora di femminili forme statuarie invitanti al gioco dell’amore.
“Sono felice nel mio spazio”, esclama con soddisfazione Albini, “felice” come il Principe di Oscar Wilde, “custode della bellezza e della miseria”: uno spazio fatto di cose semplici ed essenziali (il mare, una palma, le nuvole, il vento), esposto a un “sole” che è non solo quello fisico ma anche quello metaforico, metafisico. Pare di sentire Ovidio che con orgoglio proclama di stare bene nel suo tempo: “Prisca iuvent alios;…haec aetas moribus apta meis” (“Amino gli altri il passato; io mi compiaccio di appartenere al mio tempo: questa è l’età mi appartiene e piace”).

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Laura di Corcia – Epica dello spreco

Pubblicato il 7 febbraio 2019 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

Laura Di Corcia
EPICA DELLO SPRECO
Dot.Com Press, Milano 2016
pp.55, 10,00 euro

“Frontale”, ne definisce l’esordio Viola Amarelli, che evidenzia altresì la sua “capacità di utilizzare quasi magrittianamente” figurazioni e metafore; Laura Garavaglia, nella prefazione, non si limita a rilevare soltanto che la sua è un’opera già matura a dispetto della giovane età (essendo nata a Mendrisio nel 1982) ma aggiunge anche che possiede qualità e potenza “visionarie” e Anna Lamberti-Bocconi le riconosce una “voce” ben forte e autorevole nel proclamare, “a colpi di pensiero e di immagini”, una voglia di capire non comune, la decisione di esserci, a dispetto del “tempo” e del suo “enigma” indecifrabile.
Sto parlando della giovane Laura Di Corcia, che si propone all’attenzione (e all’ammirazione) dei lettori italiani e ticinesi con la sua raccolta Epica dello spreco meritandosi pienamente gli elogi che le stanno elargendo critici ed estimatori. Tra questi, oltre i già citati, vanno annoverati, innanzi tutto, il suo mentore, Giuseppe Langella, accademico ma anche poeta e critico, promotore assieme a Guido Oldani del Movimento del Realismo terminale, tenuto a battesimo nell’antologia Luci di posizione, poesie per il nuovo millennio (2017), poi il poeta Giancarlo Majorino, Maestro e già fatto oggetto di un suo pregevole profilo biografico-critico (Vita quasi vera di Giancarlo Majorino, 2014), e infine l’auctor per antonomasia, il ticinese Gilberto Isella, poeta verso la cui raccolta più recente, L’occhio piegato (2015), la giovane autrice ha sicuramente qualche debito, se non altro per certe tangenze tematiche e stilistiche.
Cosa c’è di notevole in questo suo libro? Due cose principalmente: il suo linguaggio poetico, innanzi tutto, e poi la capacità di orchestrazione delle sue tematiche intorno a un fulcro già ben evidente nel titolo.
Partiamo dal primo, dal suo disporsi e distendersi in maniera direi poematica, attraverso 25 lasse di diversa estensione, in una scrittura che si protende, molto sperimentalisticamente, in un flusso discorsivo dai molteplici livelli semantici per ritmi e toni, in un ductus espressivo molto marezzato e cangiante che, tra strutture ora brevi ora stroficamente più ampie e distese, si modella sull’andamento del pensiero e della riflessione (nel senso più letterale del termine di un soggetto che si ripiega e rispecchia su se stesso, sul paesaggio che lo circonda, e con esso si identifica, penso al testo 4), sul ritmo si direbbe del pensiero (diastole-sistole), per approdare progressivamente a un prosciugamento quale è quello che si constata negli ultimi testi.
Per quanto riguarda il secondo, la trama cioè dei contenuti, colpisce che tutto parta da una constatazione, che leggiamo nel primo testo, “Viviamo appesi a un dramma, / un’idea fissa ci perseguita” e che questo “dramma” angosciosamente consista, stando all’autrice, nel vivere tra la palude (nel testo 2) e il lago (nel testo 4), tra stagnazione e impotenza (ma anche pacificazione e rasserenamento), non senza però una forte tensione verso un “sogno” di cieli finalmente sgombri, verso un brillio di “stelle” da lasciare “a bocca aperta”, dopo essere scampati a una palude che, più che sanguinetiana (la “palus putredinis” di Laborintus) e manganelliana (penso alla Palude definitiva del ’92), somiglia a quella del poemetto Mundus Niger di Emilio Villa dallo spessore molto metafisico: come dire nell’attesa di un’essenziale “salvezza” di là da venire, che nel testo 35, il definitivo, è paradossalmente identificata nello “spreco” (“È nel più piccolo dei microcosmi / che puoi trovare la salvezza. / Non sai vivere se non sai sprecare”).
È un termine ambiguo, “spreco”: significa insieme dissipazione e inutilità ma anche investimento di energie, tanto più se coniugato al termine “epica”, che mette in scena un gioco di rapporti, generoso e fertile ma al tempo stesso fallimentare, una sorta di “hypnerotomachia”, di teatro ideologico e visionario nutrito di fantasmi e memorie, di speranze e illusioni, e che rapportato all’ambito della scrittura chiama in causa un’idea di espropriazioni e assimilazioni di modelli e stili diversi ben centrifugati (come non sentirci esplicitamente in questi testi Milo De Angelis, coniugato a certe soluzioni anche espressive dell’ultimo Majorino?).
Un’”epica” che è poi un’etica, un modo di essere, a considerare quel che si dice in un testo molto interessante, il 30, dove vengono evocate due figure letterarie e umane di particolare spessore, ossia Tasso e Ariosto. “Di unicità abbiamo bisogno, di Tasso e non di Ariosto”, dice, dopo aver precisato con enfasi ottativa “oh come gli atomi già formano una specie di strada / che sbrana i molti sentieri, accorpa le inutilità”: questo per dire che, nella coscienza dei limiti (“il confine fra chi sono e chi non sono”, testo 2), si privilegia un’attitudine seria e compresa della drammaticità delle cose, piuttosto che la leggerezza della fiaba.

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Per Francesco Belluomini

Pubblicato il 6 febbraio 2019 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

PER FRANCESCO BELLUOMINI

“Un percorso da stato d’emergenza /da vero giramondo dei mestieri”, descrive così la sua “avventura” umana e intellettuale, Francesco Belluomini, giusto all’inizio del libro, Ultima vela, autobiografia “in forma poetica”, che raccoglie e condensa il suo lascito di esperienze in forma di parole, la sua storia (“tutto me stesso”), sotto un titolo metaforicamente comprensivo e allusivo di molte cose, della passione del mare non meno che del fatto che questa fatica si colloca in maniera riassuntiva al punto estremo dell’intera sua vita e costituisce in un certo modo il suo testamento morale nel consegnare ai posteri, senza falsa modestia, i montaliani “fatti” e “nonfatti” di un’esistenza quanto mai singolare, ricca di emozioni e “invenzioni”.
“Un percorso da stato d’emergenza”, attraverso “differenti mondi”, ma con una stella polare, un punto di riferimento inderogabile dal principio fino alla fine, che è la poesia: coltivata e praticata direttamente o stimolata e promossa, con indefessa pazienza e fedeltà, a costo di fatiche e innumerevoli battaglie, nell’infido mare dell’esistenza, la poesia, intesa non solo nel senso più proprio di scrittura ma anche come continua messa in gioco e “invenzione” di sé sulla scena della vita, ha costituito per l’autore il fecondo lievito di progetti, propositi e realizzazioni nell’arco di almeno mezzo secolo, attraverso stagioni e libri e soprattutto attraverso la sua “creatura” più significativa e duratura, quel Premio di Poesia, autentico “monumento”, per sua stessa definizione, che, intitolato alla sua città, ossia Camaiore, continua a costituire, a partire dagli inizi degli anni Ottanta e a tutt’oggi, la testimonianza più viva e concreta di un amore sconfinato, capace di esporlo alle “raffiche di poppa” e ai “perigliosi fortunali” di malevoli e invidiosi inchiodandolo, “disarmato” ma tetragono, come un novello Ulisse, all’”albero del velame” della sua passione.
“Giramondo dei mestieri”, come dire uno che ha fatto sempre molte cose insieme, versutum, insomma, per dirla con l’antico poeta latino: è una bella e appropriata definizione di sé, non c’è che dire, che fa pensare a quella, celebre, di Salvatore Quasimodo che si fissava icasticamente nell’etichetta di “operaio di sogni”, e da cui bisogna partire per comprendere il senso di una ricerca inesausta e inesauribile, fatta di “mestiere” costruito con certosina applicazione fino a dar corpo a un’originale e complessa struttura strofica e metrica, a una historia sui, in “forma prigionata” di stanze prevalentemente endecasillabiche, fortemente scandite e scalpellate in una lingua dal forte sapore idiomatico, che, a dispetto di ogni assunto “discorsivo”, s’inseguono e incalzano, in uno “scrivere con foga compulsiva”, per quasi 2500 versi con irruenza tempestosa e a tratti perfino visionaria, obbedendo alla “voce” profonda e irrefrenabile dell’”inconscio” memoriale dell’autore, coerentemente col suo carattere ben noto e riconoscibile.
“Operaio di sogni”, non meno di Quasimodo, e “versatile” non meno dell’eroe di omerica memoria, Francesco Belluomini, “battitore libero” in politica così come in letteratura, si è interamente investito nell’impresa davvero titanica di dar voce, da “veloce tessitore di versi”, esclusivamente alle vicissitudini della sua vita, ma senza concessioni al patetico e senza indulgenza per un elegiaco lirismo da “carta straccia” (oltre che verso certa correttezza lessicale e sintattica troppo letteraria), al punto da preferire (per farsi un’idea della sua formazione) uno “scurrile” Domenico Tempio a Dante, con l’unica intenzione esplicitamente perseguita di ricostruire scenari, situazioni e figure (tra tutte, fondamentali e memorabili, quella del padre, di Rosanna e di Raffaella), che hanno contrappuntato il suo itinerario verso una “linea del traguardo” da sempre intravista e prefissata, grazie anche a una formidabile memoria che gli ha consentito ad ogni passo di non lasciar “nulla del raccolto”.
Il risultato è il poema di una vita, di continui andirivieni tra porti e mestieri i più diversi, una vita costellata da viaggi, avventure, disavventure, amori e perfino da naufragi, oltre che da libri: quelli suoi, in versi e in prosa, usciti presso Editori differenti, grandi o piccoli che siano, e gratificati anche da riconoscimenti sempre più prestigiosi in Italia e all’estero; e quelli altrui, letti insaziabilmente dapprima solo nelle pause di un lavoro faticoso da mozzo sulle navi, poi “nottetempo” e nei silenzi, da inventore e Presidente di un Premio Letterario, che è diventato nel tempo uno specchio della società non soltanto letteraria italiana.

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Lucetta Frisa – Nell’intimo del mondo

Pubblicato il 22 gennaio 2019 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

Lucetta Frisa
Nell’intimo del mondo
Pasturana, Puntoacapo 2016

Viene da lontano, Lucetta Frisa: da un lungo percorso di scrittura che da sempre interroga la vita, a partire da un punto essenziale che è la consapevolezza di un ancoraggio alla parola come chiave di lettura del mondo, all’idea, già enunciata ne I miti, le leggende (1970) e ribadita ne La costruzione del freddo (1990), di un “punto solare”, di un “cuore”, da cui si irraggiano infinite possibilità verso la conquista dell’io, oltre La notte alta del senso (un titolo mirabile del ’97), oltre l’”arida neve che nasconde il cuore”, verso la ricomposizione cioè di quello che in Modellandosi voce (1991) è definito “l’irrimediabile squarcio” della vita, la ferita originaria dell’esistere.
È a partire da ciò, da questo omphalos, luminoso e insieme oscuro, esaltante ma anche doloroso, che prende il via un’avventura esperita col viatico consolatorio della scrittura (si scrive “respirando”), costruendo ogni volta vere e proprie partiture liriche e drammatiche, storie di un’inquieta ricerca di luce, in cui si coniugano e trovano corpo pensiero e memoria in strutture di controllata densità, in una lingua mutevole e lunare, a tratti drammaticamente franta, cavalcantiana (“una scrittura / di nervi e sinapsi”, come è definita nella raccolta L’altra, 2001), la cui esplicita ambizione è quella di far lievitare e sopravvivere “in punta di penna” quell’idea di sé enigmatica e femminile, cangiante, che ognuno si porta dentro, nei propri intimi “inferni”, come una risorsa o una condanna.
Tra i tanti, c’è un testo in particolare che più di tutti colpisce e intriga. Un testo che assume per me un valore paradigmatico e mi fa dire, e non per ragioni esterne ad esso, che, sì, davvero con Lucetta l’incontro è con un’anima gemella: con una che a rileggerla continuamente la si scopre nuova e diversa, “altra”, giusto il titolo in copertina del libro del 2001. Si intitola, il poemetto, Porta Rosa ed è contenuto nella sezione Ritorno alla spiaggia (2009).
A parlare è in esso una donna: un’ombra che riemerge dall’”oltre” delle tenebre e della notte, nell’atto di “riprendersi la luce”, col solo ausilio di un canto che la richiama e riscatta dal suo Erebo, prestandole voce e consistenza, Euridice di un impossibile Orfeo. Non diversamente da quanto già avveniva anche in altre raccolte, nella raccolta La follia dei morti (1993) o in Siamo appena figure (2003), attraversate da simulacra luce carentum, notturne, virgiliane umbrae (Emily, sopra tutte, nella prima), protese all’apparire e perciò già vive, che diventano lingua, fissandosi nella luce del canto, componendo così un disegno in cui esistono come attesa e vigilia, in un alone fosforico di luce, in bilico tra inquietudine e consolazione, tra grigiore e luminosità, grate del loro dono e del loro attimo eterno di vissuto. Specchiandosi in un caleidoscopio di proiezioni, in “autoritratti”, disegnati nei versi per “non morire mai”, come si dice nel Secondo autoritratto notturno di Se fossimo immortali (2006)
“Cerco la mia casa”, spiega ansiosamente, quasi a volersi giustificare per il suo ardimento. “La mia casa era ai piedi di una strada in salita / e in cima una porta grande di pietra”. Sa dov’era e quanto arduo fosse abitarvi: al cospetto di un emblema di luce e di armonia, la Porta (quella che ad Elea “divide giorno e notte”, secondo il “venerando e terribile” Parmenide), la stessa, forse, ora serrata (cfr. ”Meditare davanti a oggetti chiusi / l’apertura del mondo”, in Maddalena, nell’incipit di Siamo appena figure), ora spalancata, alla cui guardia stazionavano “parole / che l’attendevano scalpitando” sempre in attesa di guidarla “verso un’altra lingua” (in L’altra, un libro attraversato tutto da lame di luce atterrita come “in una specie di fitto delirio eliotiano”, come in prefazione sottolineava Attilio Lolini).
Ma troppo tempo è passato, troppe stagioni umane hanno deluso e per sempre ridotto tutto a un infimo, “infinito inferno” di “cose distrutte” e impossibile le è ritrovarla e riconoscerla.
Per questo, in un siffatto paesaggio di rovine, ci si chiede che senso abbia la sua ricerca. E quale bisogno la spinga, lei che è una “morta”, a cercare ancora una dimora, diventata “fango / tra il fango”.
“Cerco la mia casa”, nel segno di un riacquisto di “luce”, lei insiste: quasi che casa e luce siano, come sono, la stessa cosa, nell’ordine snervante del tempo (“Ad ogni tremito passano i secoli”, Siamo appena figure, in Teatro della luce), schiacciato sotto “il peso doloroso del paesaggio”.
Forse lei che “non attende / segni dall’alto e dal basso”, cerca affetti, cerca tracce del suo passato e le scova dall’”intimo del mondo”, per appropriarci del titolo dell’intera silloge: dal mistero di una solitudine essenziale in cui fioriscono parole necessarie.
O forse è di essere riconosciuta o di riconoscere, sentire un luogo, quel luogo, come il suo proprio, che lei ha bisogno: di riconoscersi in esso e di mirarlo come lo spazio familiare della sua esperienza, al di là del tempo. Una cosa impossibile. Agli umani non è dato guardare il cielo se non soltanto per illudersi, per “indovinare / figure nelle nuvole alte”, senza aspirare ad altro, non concependo altra prospettiva se non quella di riconsegnarsi alla “polvere”, a quel simbolo cioè di morte da esorcizzare vanamente nel canto, come si diceva in un testo di Gioia piccola (1999).
È in questo silenzio, dinanzi a questa “polvere” e dinanzi a una “porta” che separa e unisce, si spalanca una prospettiva astrale, infinita: “parlerò solo alle stelle”, proclama all’inizio dell’ultimo poemetto, Perseidi, ed è la promessa di un canto che non chiede ascolto umano, di un canto che ambisce a ricostituire la scena primaria dell’invenzione stessa della vita, della propria vita (“Io ipnotizzo le stelle / loro ipnotizzano me / allargando allo spasimo / le mie pupille umane”), come in un idillio del siracusano Teocrito o in un’ecloga virgiliana, con la coscienza che carmina vel caelo possunt deducere lunam, che cioè il canto può operare l’impossibile, perfino tirar giù dal cielo la luna.

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