Anna Santoro, la scrittura come atto politico del femminile
Lettura dell’ultima raccolta: Echi di slittamenti (forse) irreversibili (Puntoacapo 2025)
di Nadia Cavalera
Nella scrittura di Anna Santoro – poeta, narratrice, teorica e instancabile tessitrice di reti culturali – si avverte tutta la forza di una voce che non ha mai smesso di essere dissonante rispetto ai canoni dominanti, e sempre in consonanza profonda con il pensiero femminista. Ma non un femminismo astratto o dogmatico: quello di Santoro è un lavoro lento, concreto, che da decenni incide il reale con le sue domande radicali sulla parola, sul corpo, sulla memoria delle donne e sulla necessità di riscrivere la storia culturale a partire da ciò che è stato rimosso. Un lavoro il cui percorso affonda le radici nella sua biografia intellettuale e militante: dagli anni Sessanta delle occupazioni e dei gruppi extraparlamentari fino alla fondazione de L’Araba Felice, associazione culturale nata nel 1984 a Napoli, vera fucina di sperimentazioni poetiche, di ricerca sulle scrittrici del passato, di performance vocali e progetti di lettura. Un laboratorio vivente dove la poesia si è fatta gesto, la voce si è fatta corpo, la scrittura si è fatta poiein, forma di vita e di resistenza.
Non si può leggere Santoro prescindendo da questa storia: la sua parola nasce dalla convinzione che il linguaggio – se abitato criticamente, se attraversato dalla soggettività femminile – possa ancora oggi generare spostamenti reali. Che evoca chiaramente nella forma dei suoi versi, inquieta, talora prostrata, non irregimentata, deviante, sempre razionale nelle sue stilizzazioni e contratture aperte, e irruente nei suoi neologismi di parole che si accavallano per l’urgenza del dire. Ed è proprio questo il dono più grande della sua opera: ricordarci che scrivere, per una donna, è sempre anche riscriversi, rompere il silenzio, affermare una presenza irriducibile. Ne è conferma l’ultima sua raccolta di poesie dal 2017 al 2024, Echi di slittamenti (forse) irreversibili (Puntoacapo 2025), dove Anna Santoro costruisce una parola poetica che non si accontenta di nominare il mondo, ma lo attraversa – con lo sguardo, con il corpo, con la memoria, con la lingua. La scrittura nasce da un’urgenza insieme sensoriale e storica, capace di farsi luogo di resistenza etica, politica e femminile.
Ognuna delle cinque sezioni della raccolta – scandita da titoli densi di implicazioni – segna una soglia esperienziale, una diversa declinazione di ciò che significa vivere dentro il tempo, nel corpo e nella storia, tra le fenditure di ciò che si perde e di ciò che resta. Il libro si apre con una dichiarazione di principio percettiva e ontologica: prima sono gli occhi. È da lì che parte la conoscenza, è da lì che si offre e si riceve la vita, in tutta la sua densità. Il corpo si fa centro della soggettività poetica: «Se il mio corpo è io/ se ciò che guardo/ annuso e tocco/ assaporo e ascolto/ è sempre io». Non c’è distanza tra la vista e l’essere: lo sguardo è identità, è esposizione. Gli occhi sono memoria, ma anche apertura radicale verso l’altro e il mondo. La poesia nasce come testimonianza incarnata, rifiuto di ogni neutralità: vedere è prendersi carico, è resistere al silenzio e all’indifferenza. Ma lo sguardo non basta. Nella sezione successiva – Mordo questa storia – la poesia si fa più esplicitamente militante e storica, nella ricerca diluce: «Mordo questa storia e aggiungo o strappo pezzi/ a comporre il puzzle per un disegno di eventuale verità».
Non è solo osservazione, è intervento, masticazione della realtà, atto fisico e simbolico insieme. La Storia diventa corpo da affrontare, da interrogare, da ferire con la parola: «Ci trovammo in una Storia che / non ammetteva evoluzioni e/ non lo capimmo/ adolescenti/ Solo più tardi assistemmo al sole/ in piena notte colpire montagne d / lampadine rotte». Il linguaggio franto e visionario disegna la frustrazione di una generazione, lo spaesamento di fronte al fallimento delle promesse collettive. Ma la voce non si rassegna: morde per cercare senso, per ridare corpo alle genealogie negate, alle lotte oscurate, alle presenze marginalizzate. Santoro scrive dentro la storia, e con ciò sceglie una posizione. Questa tensione tra personale e politica si concentra in modo più intimo nella sezione Vita che scortichi, dove la vita, «vita maligna», è vissuta come esperienza a pelle viva, come successione di colpi che lasciano il segno. La scrittura qui è testimonianza della fatica del vivere («I giorni scavano radici / le notti riempiono le / buche di ricordi», soprattutto nella sua declinazione femminile: la cura, la rinuncia, la sopportazione, ma anche la dignità mai abdicata. La poesia si fa carne che sente, respiro che persiste nonostante tutto, corpo che non si sottrae alla propria esposizione. Non ci sono ornamenti, solo una verità quotidiana, dolorosa e irriducibile.
Con Non è pranzo di gala, Santoro rivendica apertamente il carattere scomodo e necessario della parola poetica. Riprendendo ironicamente la celebre frase maoista (“La rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. La rivoluzione è un’insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un’altra), denuncia ogni illusione estetica: la poesia – come la rivoluzione – non può essere gentile, né elegante, né indolore. Deve sporcarsi, disobbedire, urtare. Il tono si fa qui sarcastico, rabbioso, lucido: la poeta guarda al presente con disincanto ma senza resa, restituendo la frantumazione morale di una società votata al cinismo e alla disuguaglianza. La scrittura diventa spazio critico, urlo misurato contro le storture del potere, contro l’appiattimento dell’etica, contro la spettacolarizzazione della violenza. Mentre persiste intatto l’amore per il creato: «ancora m’innamoro della vita», «incantata mi perdo nel-/ l’acqua e nel pensare». Più rarefatta, e elegiaca la sezione Puntuale ti presenti. Dove il dolore non cede mai al lirismo facile. Il “tu” che arriva, puntuale, è la morte, il lutto, ma anche il tempo che porta via, che sottrae.
La parola poetica si piega a questa assenza, la abita, ne fa spazio della memoria e della fedeltà. Non si cerca consolazione: si accetta la mancanza e la si trascrive. Si tratta di scrivere nel vuoto, ma senza mai abbandonare la dignità del gesto. Anche quando tutto si svuota, resta il rito della parola, come atto minimo di permanenza. Anche futura: «E chissà dove andrà questa testa/ così piena/ dove riprenderanno vita le/ visioni/ che lì sono catturate/ come si manifesterà la mia allegria».
A suggellare la raccolta con una estrema concentrazione l’appendice con i Landays e gli Haiku. I Landays, distici brevi e mordenti nati nella tradizione pashtun femminile, si trasformano in epigrammi di resistenza, laceranti e orgogliosi: «rossa una mano sul fianco/ bianca stupivi di tanta ferocia». Due soli versi per dire corpo, stupore, sangue, violenza. Due versi per dire il mondo. Gli Haiku, invece, rovesciano l’energia in una sospensione contemplativa: «Sul mio viso vento e pioggia/ sogno calore e riposo/ scrutando la notte». La poesia diventa qui soffio, paesaggio interiore riflesso nella natura, ma non smette di interrogare la realtà. È uno sguardo silenzioso e vigile, che raccoglie la fugacità delle cose per offrirle, senza commento, al pensiero. Di chi ancora conosce l’incanto della vita.
Nadia Cavalera
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