La Cana – romanzo di Fausta Squatriti

Pubblicato il 29 settembre 2015 su Saggi Prosa da Adam Vaccaro

L’irrisolto e il nome

di

Annamaria De Pietro

Leggendo La Cana di Fausta Squatriti, puntoacapo Editrice, Pasturana 2015, pp 181, € 18.

Esiste un luogo in viaggio e in pausa che si chiama spaziotempo.

Questo luogo può essere attraversato, e inventato, da cursori testardi: ad esempio, una bergère di pelle nera, molto sciupata, e un maglione ispido di lana caprina, molto sciupato.

In una scena da film del dopoguerra la bergère, estratta dalle macerie di una casa bombardata e poi issata al salvataggio su una carriola, insieme con una scatola di posate d’argento e i detriti spezzati di frutti dipinti di cemento tratti da un vaso di cemento (saranno poi sotterrati in un parco), può alla fine, dopo una tappa in una Germania affranta dal ricominciare, come in modestissimo Grand Tour passare in Italia, Umbria presumibilmente, e qui diventare la cuccia di un cane pronunciato male: Cana, così chiama la cagna che lo ha scelto come padrone il protagonista di questo romanzo, un tedesco che parla male l’italiano.

Questo tedesco, intellettuale quasi anziano, si chiama Siegfried, ma l’autrice per lo più lo denomina con definizioni di professione e situazione: il bibliotecario (questo fu in Germania), il tedesco (questo fu in Germania ed è qui), il nibelungo, il giovane soldato, il disertore (questo fu in Italia, agli sgoccioli della guerra persa, ragazzino di quelli mandati al fronte quando non c’erano più uomini, dopo il feroce addestramento alla scuola della Hitler Jugend), il fuggitivo, perché disertore.

E la stessa cagna ha un nome di stato, Cana, e anche un altro nome, Lili, che tuttavia è nome-icona, è Lili Marleen. Del resto anche Siegfried non è un nome qualunque, è un nome-ruolo, un nome-storia, un nome-destino: un nome nibelungico che genitori proni al sistema prevedibilmente imposero al figlio. Ma era figlio loro, o frutto adottato di una di quelle stazioni di monta che dovevano produrre perfetti virgulti ariani?

Ricordiamo qui che l’autrice (Fausta Squatriti, questo è il nome) in egual modo nel precedente romanzo Crampi (Abramo Editore, 2006) denominava i suoi personaggi “l’antropologa”, “la volontaria”, “il professore”. Solo alla fine, a giochi fatti, ne conosceremo i nomi.

La denominazione inchioda quello che è, che è visibile come cosa.

Il maglione fu, al tempo del ragazzo disertore fuggitivo, parte della muta che la contadina di una solitaria cascina gli diede per fuggire e salvarsi la vita. E lei nel suo ricordo di ragazzo male amato dalla sua vera (o putativa?) madre rimarrà per sempre la sua vera madre, in secondo parto, muta di serpente; forse, lui pensa, quei vestiti donati erano di un suo figlio. Figlio. “Torna a casa con un bottino sapienziale simbolicamente raffigurato dal maglione”, postilla l’autrice.

E per cercarla, quella madre, Siegfried compra una villetta fra i boschi che guarda in alto a quella cascina, quella in cui lei viveva e lo salvò. Ma che la cascina di oggi non è altro che quella di ieri non lo capiamo subito: l’identità emerge per gradi, attraverso una discrasia di balzi fra il presente e il passato, scalato nel suo laborioso spaziotempo, ma una discrasia morbida, armonica, ove il testimone fra i luoghi e i tempi viene passato quasi insensibilmente, a balzi e scarti ovattati, senza indicatori di passaggio; e questa è la cifra sorprendente di tutto questo romanzo mirabile, ove l’unica forma verbale che racconta è il presente.

Lui compra la villetta a basso costo, perché, con la complicità di uno strano adiuvante, un manovale tedesco avanzo di galera, le dà fuoco, e il risultato dell’incendio è una casa semibruciata ma non distrutta, ancora abitabile grazie a ritocchi sommari. Siegfried ha ucciso l’adiuvante fattosi pericoloso ricattatore, e lo ha seppellito nel bosco, che è lo stesso bosco in cui fuggendo il ragazzo disertore si nascondeva.

Nella villetta, con la Cana amatissima, Siegfried fa progetti, una serie di progetti che non verranno mai portati a termine, in un’economia dell’irrisolto che è marchio e stigma di quest’uomo fallito. Sarebbe stato un uomo buono l’uomo che fu un bambino sensibile se non gli avessero strappato l’infanzia, genitori che poco o niente lo amavano, sorellina scimmietta delatrice di birichinate, (la quale, al suo ritorno in Germania, quel maglione brutto e spinoso ridusse a straccio, e poi buttò nella spazzatura donde lo ripescò il fuggitivo, e custode), e poi l’orribile addestramento disumanizzante nella scuola della Hitler Jugend. È invece un uomo incapace di amare, se non la Cana che lo ha scelto e la contadina che gli ha scelto una nuova vita.

Scegliere / essere scelti. Forse qui si colloca, qui taglia la dura barra della vita.

È un uomo che cerca invano di placare il caos indistruttibile, il panico, con una maniacale pratica di ordinamento, numerazione (conta i colori e la loro scala nel mantello della Cana, conta i rami del bosco, conta i passaggi cromatici di una littorina erede del tempo, conta le briciole di pane sulla tavola dei sardi abitanti la cascina, conta tutto secondo un rituale feroce di sequenze e trabocchetti nel quale non bisogna mai passare due volte dallo stesso punto; anche da bambino lo faceva, e lui sa che questa è regressione all’infanzia; conta tutto fino all’ultimo orrore, lustrale, cosmico, feriale). Una smania di domare e dominare per virtù di ragione il lussureggiare della natura, la sua naturalità. (“Da bambino s’inventa il compito di verificatore dei germogli su incarico del Fϋhrer in persona”). Ma quale ragione? “L’intelligenza gli pare luogo oggettivo dal quale uscire e ritornare, come dalla villetta, spazio e tempo concepiti a proprio uso, nella ristretta cerchia elettiva”, commenta l’autrice.

Fra i progetti irrisolvibili la creazione di un giardino davanti alla villetta, ma un giardino di rose geneticamente migliorate fatte arrivare dalla Germania; lo sfoltimento del bosco inquadrato dalle finestre, per poter vedere attraverso gli alberi un fondale dipinto di orizzonte, (e non è escluso che abbia ammazzato l’adiuvante boscaiolo anche perché aveva tagliato indiscriminatamente alberi nel bosco, fuori del suo criterio e progetto); la sistemazione in scaffali dei suoi amati classici tedeschi à jamais giacenti nelle scatole, per poi rileggerli (mai); l’allestimento di un laboratorio per il restauro dei suoi libri rari, la sistemazione di quadri e cornici per sempre a terra, appoggiati a un muro, auliche vittime di un collezionista irrisolto. E intanto vive in una sordida sporcizia, soprattutto fermentante negli avanzi del cibo, come quelle salsicce di dubbia età e quasi certo disgusto da annegare anesteticamente nella senape; stoviglie sporche a catasta nell’acquaio, sciacquatura di piatti, appositamente lavati senza sapone, usata per la zuppa della Cana; e poi vestiti buttati a mucchio a terra, sporchi, sciupati, vecchi, e i peli dell’amata Cana colonizzano lucenti la casa intera. E in una vasca di cemento in fondo al vialetto dietro la casa, così come in un vaso di cemento fermentarono morti i frutti di cemento per poco salvati, fermenta e rigermina la massa dei rifiuti organici, già in uso ai vecchi proprietari, un luogo orrendo, metafora di morte e vita, sinossi e sintesi del tempo fermo e in corsa, ma per disperazione, non per speranza. Qui con occhi di analista puntiglioso lui osserva e forza la sommersione e il dissolvimento di un guscio d’uovo che insiste a galleggiare (passo indimenticabile); e qui, su queste rive, alla fine si consumerà l’orrore, subito risarcito da una dimenticanza.

La pignoleria maniacale l’ha ereditata dal padre, uomo freddo, severo, avarissimo, e lui la replica per liberarsene, per vendicarsene. Magistrale la descrizione dell’incombenza infantile, in villeggiatura, di dipingere di verde le sedie da giardino, seguendo un’ansiogena procedura minacciata dalla catastrofe, con la conseguente e associata attenzione alla conservazione della vernice rimasta; e altrettanto quella della cura nel gestire i tacchetti metallici da inchiodare alle suole di famiglia, fino a raccogliere quelli che trova per strada e conserva, in caso di penuria. Ma quella del padre era una pignoleria ordinata, ordinante, la sua non è che caos, che lui combatte con armi che colpiscono a ritroso la sua medesima debole mano. E l’addestramento distorsivo della natura replica l’addestramento distorsivo, distruttivo subìto da ragazzo nel girone della Sippe. Il termine era stato preso a prestito dal linguaggio protogermanico, nel quale significava famiglia. Anche i giovani appartenenti alla Hitler Jugend erano spinti a considerarsi parte di una famiglia, ma di lupi, notoriamente organizzati in branco, capeggiato da un maschio dominante. Forse era attraente per i ragazzi sentirsi definire come lupacchiotti, e li avrà in qualche modo aiutati ad affrontare l’addestramento condotto con veri cani lupo dai quali difendersi.

Unici portatori di sollievo il bere, ma, si badi bene, vini di ottima qualità, e la musica, e l’arte. In biblioteca, in Germania, curava libri antichi e stampe, e tanto li curava che rubò una stampa, e a un delatore (il secondo dopo la sorellina) dovette un vergognoso licenziamento. Ora, qui, mora lucente nel disordine, il suo sguardo che guarda è uno sguardo estetico, estetica vissuta come medicamentosa, calmante chiamata all’ordine dentro la chiara autorità della storia, oltre lo sfacelo della storia che lui si porta addosso come un vestito vecchio e immarcescibile. E così un mazzetto di fiori che appresta per donarlo a una visitatrice in arrivo è una composizione pensata, quasi un blasone: fiori di campo, un’erba che in virtù della sua sagoma bizzarra “gli conferisce l’aspetto di una raccolta di erbe da studiare, preservare, catalogare”, e tre rose gialle rubate a un rosaio inselvatichito e senza legge lussureggiante da un muro. E un rosaio inselvatichito e senza legge lussureggiante da un muro è quel poco che rimane della sua casa bombardata, con la bergère di pelle nera, le posate d’argento nella scatola e i frutti di cemento. E così osserva attentamente la forma dei pilastri di ghisa Jugendstil della stazione; la pettinatura della padrona del ristorante è quella delle donne di Lautrec, “ma senza la fiammata rossa dell’henné”; l’amatissimo Caspar David Friedrich torna più volte, pronto ad assomigliare a quello che lui vede; la scatola delle sigarette trafugate al padre è un perfetto manifesto immaginario d’oriente addomesticato in sale smaglianti d’Europa. E così prende nota della ringhiera “già tendente allo Jugendstil, ma italiano” della biblioteca del paese, dei suoi modesti affreschi. Gli esempi si potrebbero moltiplicare.

Così, in questa necessità di semplificare complicando, di riposare, forse, ma non accadrà, in rassicuranti somiglianze, i momenti e gli scenari delle fasi della sua vita si assomigliano, si sovrappongono per passaggi spaziotemporali diretti, sono gli stessi, in una circolarità camuffata da linea dritta (potrebbe essere un modo per definire la disperazione). Le mele di una ricca coppa di frutta accuratamente osservata insensibilmente digradano nelle mele dell’albero davanti allo chalet delle vacanze d’infanzia. E così la villetta dove vive e lo chalet collassano l’una nell’altro; la buca nel bosco in cui gli spersi soldati arrostiscono un maialino si riversa nella buca in cui è stato sepolto l’adiuvante; la villetta semidistrutta dall’incendio e dall’incuria assomiglia a (è) la casa di famiglia bombardata; le zuppe pappe della Cana, la cui preparazione viene, come tutto, minuziosamente descritta, sono la zuppa fatta con gli avanzi degli avanzi che il ragazzo non ancora disertore porta al cane della cascina dove coi camerati bivacca, e sono le misere zuppe che sua madre ammanniva dopo la guerra; la benzina rimasta in cantina dall’incendio, e che ora gli si versa addosso, è quella che si versò nel camion capovolto, addosso al piccolo soldato; le nocciole mangiate nel bosco dal fuggitivo cercano quel nocciolo che ora, oltre il fitto del bosco, che è quel medesimo bosco, non riesce a vedere-ritrovare, non riuscirà. E non manca un’allucinazione, in cui Siegfried, che si è rotto una gamba sulle scale della cantina, immagina a ritroso che un cacciatore con il suo cane, smarrito nel temporale e con una gamba rotta sia morto di stenti, e il suo cane accanto, nel rudere antico (i muri sono molto spessi, osserva) su cui presumibilmente fu poi costruita la villetta. E anche qui gli esempi si potrebbero moltiplicare.

Fra i progetti irrisolvibili c’è anche quello di costruirsi una vita stabile in questa villetta a metà strada fra il passato e un possibile orizzonte, questa casa conservatorio sciatto di distruzioni, e di costruirsela in compagnia di una donna. Dal nutrito catalogo delle antiche amanti ne convoca in sequenza due, prima Ursula, già collega in biblioteca, e poi Frida, che fu un amore importante, adulterino, vissuto con ansia fra una presenza e un’altra del marito. Con entrambe fallisce; entrambe se ne vanno ben presto, disgustate dalla sua sporcizia, dalla sua violenza, dalla sua amara sessualità screziata da sprazzi di cortesia da vero gentiluomo, di quasi tenerezza. Entrambe non amano la Cana, la rivale, il suo unico amore.

Amara sessualità: il nostro ha una fuggevole avventura con la donna delle pulizie della biblioteca del paese vicino. Sublime ironia: il luogo della sua passione, la biblioteca, è svilito e istituzionalizzato allo stesso tempo, istituzione ormai fatta polvere (da spolverare). E la biblioteca è pulita, la casa del bibliotecario no.

Brandelli di turbata sessualità adolescenziale glieli porta l’altro visitatore, Hans, camerata al campo di addestramento della Hitler Jugend, lui sì certamente frutto di una stazione di monta, fragile e sensibile omosessuale che per un attimo, allora, fu qualcosa di gentile. Ora, invecchiato, col suo volto sfatto minuziosamente descritto, è un non antipatico fantasma in maglione rosa salmone, e, fra imbarazzo e complicità, nella risacca di quel tempo oscuro, i vecchi amici discorrono di storia e di politica.

Su questo argomento, sullo spaziotempo nazista , e sulla storia in generale, il bibliotecario tende a dare lezioni: con le amanti redivive, perfino col pastore sardo della cascina, che gratifica di una storia della fame dal Medioevo alla Russia comunista. Cerca di considerare gli anni del nazismo con analisi e ragione, ne sottolinea l’origine remota in pensatori dell’Ottocento, ma troppo la storia marcia lo ha intaccato, e troppo deve in qualche maniera risarcirsi per mezzo della purificazione operata dall’arte: e così, in armonico digradare, dal rogo della sua grammatica italiana, che vuole che più a niente gli serva, il suo pensiero passa al rogo dei libri a Berlino, e da qui ai suoi classici ancora chiusi nelle scatole, e quindi al vecchio procedimento affascinante della stampa a caratteri mobili, a lui ben noto, descritto con amorosa acribia, e infine alla pratica infantile di foderare accuratamente i libri di scuola con fogli di giornali vecchi. È come un prisma che gira, e tu che leggi sei incantato.

Dunque un’amorosa acribia, che al suo fondo focale ha nient’altro che distruzione, coltivata, accudita come un cane sul quale si ha potere, e che ricambia con indefettibile fedeltà, salvo un breve tempo contingente, quando la cagna diventa madre, ma a tutto c’è rimedio: “una volta cominciato si deve finire”. Controllare tutto, per “dimenticare l’autocontrollo cui è addestrato senza riuscire a liberarsene”. Il rimedio è identico al male, il cerchio si mangia la coda, e non la agita festosamente come un cane, una Cana. Bruciata la grammatica italiana, il nome storpiato è salvo.

Quest’uomo dai molti nomi, nomi-stato, nomi-ruolo, nomi-trappola, nomi-destino, è sintomo ed emblema di una frazione del tempo, una frazione dello spazio in sciagurata congiunzione. Nel taglio della congiunzione sta l’inestricabile discrasia fra il potere (altrui, e quest’uomo lo imita per vendicarsi del male subìto) e il possibile, il progetto, un lontano e avanti che non sia condannato a tornare ancora e ancora indietro nelle repliche, nelle identità, nelle maschere in maschera che di tempi e luoghi oggettivamente diversi fanno un unico spaziotempo percorso come un corridoio fitto di porte tutte uguali. Molte vite lui ebbe, una sola vita lo condanna e chiama a testimone.

Ma questo è un romanzo signori, e dunque quest’uomo è altresì, e prioritariamente, e primamente, sintomo della sua autrice. Quest’uomo è scrittura.

Come, dai ritmi, dalla falcata della scrittura di Fausta Squatriti, e dai suoi pensieri, i suoi gusti, e anche un po’ le sue manie, per identificazione distanziata, filtrata da un telo di carta fina, si sviluppa la storia del bibliotecario disertore? Come lei scrive lui, e ne fa il suo sintomo privilegiato, la definizione, la fissazione visibile di un modo di scrivere?

Si è detto della precisione maniacale con la quale Siegfried guarda ogni cosa, e la descrive a sé stesso, e come un macellaio la divide in parti, per gradazioni cromatiche, per forme che si divaricano da forme madri o sorelle, e queste parti, come il sadico entomologo inchioda con spilli farfalle, le conta, le numera, le tiene ferme (cerca di farlo) secondo un protocollo formale, una regola del gioco che è male disattendere.

Ebbene, è questo il passo di questa scrittura occhi cervieri, che di una cura attentissima dei dettagli non fa dispersione o bozzetto, ma che è il modo certo, autorevole, per squadernare nei suoi stati e numeri e strati (sviluppati su un piano), nei suoi accidenti, una realtà che in ogni parte è sé stessa, anche nelle parti minime, tutte di pari dignità definitoria, che per un attimo entrano nella lente e vanno via (forse no). E così si legga la descrizione delle smorfie che fanno le donne quando si mettono il rossetto (Siegfried bambino registrava le smorfie della madre nel mettersi il rimmel, sputo sullo spazzolino compreso) e dei loro movimenti non del tutto gradevoli nel riassettarsi gli abiti; e dell’armeggio compiaciuto della donna in treno con la sua borsetta con chiusura a scatto, e le due ghiande ogni volta fanno clic clic; e quella del lampadario di vetro della stazione di Dresda, un trionfo di foglie di agave a testa in giù (non manca all’autrice uno spinoso umorismo); e della composizione dei libri a caratteri mobili; e della dinamica del bosco; e dei rapporti sessuali, visti alla luce impietosa di una sala operatoria; e della procedura seguita da Siegfried bambino nel foderare i libri coi giornali vecchi; e del degrado della villetta, della sua sporcizia (qui l’autrice delega il disgusto alle antiche amanti precettate), ove Siegfried sospende la sua maniacale volontà di ordine e perfezione; e dei rituali quotidiani del padre dominati da piccole, minuziose avarizie; del procedimento per preparare la gelatina di mele (viene da pensare che l’autrice sappia come si fa, concretamente); degli abiti di Siegfried ammucchiati sul tappeto del quale a tratti lasciano intravedere il disegno (sguardo a occhi di mosca iperreale, surreale, quasi una visione).

Anche su questo si potrebbero moltiplicare gli esempi. Mi astengo, ma un ultimo passo voglio citare, perché è un delizioso medaglione di prima della guerra, corrispondente narrativo di quello che gli anglosassoni chiamano un ‘cameo’ (la pagina è la 77). Siamo in treno, e questo è quello che accade: “Bambini e anche adulti hanno la passione di sporgere la testa per ammirare il paesaggio con lieve anticipo rispetto a coloro che lo guardano da seduti, [e già questa agretta indiscrezione merita la citazione], si lasciano percorrere dall’aria violenta che spinge loro indietro i capelli, che permette ai minuscoli carboncini che si polverizzano, provenendo dai tocchetti di carbone più grandi, di entrare nell’occhio di bambini e signorine, e succede [succede: l’autorità dell’evento còlta e fermata come en passant ] che chi ha in tasca un fazzoletto immacolato, ben piegato fino a raggiungere la forma quadrata, si presti ad estrarre il carboncino dall’occhio al malcapitato servendosi dell’angolo del medesimo, e alcuni fidanzamenti e matrimoni hanno come punto di partenza questa soccorrevole operazione che consente a due estranei anche di sesso diverso di venirsi a trovare faccia a faccia a distanza ravvicinata, misura per ottenere la quale, in circostanze normali, occorrono mesi di corteggiamento”. Serve altro?

Sì, serve aggiungere che una precisissima analisi l’autrice riserva alla psicologia della Cana (che è il titolo, non lo dimentichiamo), amorosamente accarezzata nel suo entusiastico eterno presente, amata per procura di un amore che non impallidisce quando, per un breve tempo, Siegfried la ama un po’ meno, sentendosi tradito anche da lei, che “non ha occhi che per i suoi bastardi”.

L’amore puntiglioso di Siegfried per l’arte come puntuale punto d’arrivo del pensare, raccontare, vivere un lacerto di tempo e spazio in ogni sua forma è sintomo deviante, è la versione malata del vitalissimo, e dichiaratamente sofferto, amore dell’autrice, che è grande artista, oltre che squisita poetessa e narratrice. E lei, più volte prendendo la parola dalla distanza del suo scrittoio, e non solo prestandola al suo personaggio, conclude, suggella brani di narrazione chiosando, assimilando registri e cose in regime di pari dignità, a favore di un possibile valore dell’orrenda vita, con richiami alle figure pensate dell’arte testimoniante lungo e durante la filiera della storia: ed ecco il ritornante Caspar David Friedrich, l’inventore del sublime, e inventore del Romanticismo in pittura, laterale allo sviluppo di un pensiero “tedesco” destinato per altre vie a sfociare nel razzismo nazista; l’allusione alla crisi della Germania documentata da pittori come George Grosz e Otto Dix; e le tavole di disegni costruttivisti del Cinquecento che si sviluppano sotto gli occhi di chi legge nella loro impossibile indiscutibilità; e gli acquerellisti del Grand Tour (che Friedrich non fece), “ricca varietà dell’irrisolto geologico sconquasso”; e il fermo immagine argomentato su ringhiere e cancellate Jugendstil e modestissimi affreschi in biblioteca; e la stampa giapponese decifrata per linee compositive; e la Lattaia di Vermeer invano pensata da Siegfried “per calmarsi”, colori smaglianti accostati e luce contro il buio del bosco e della sua anima; e quel passo ammaliante gotico e sublime nel quale autrice e attore guardano i tipografi comporre a caratteri mobili stampe di libri perfetti, antichi, indistruttibili anche dal fuoco nazista – e il loro sguardo procede in sequenza ragionata ma aperta al miracoloso, al favoloso di antiche sapienze – lo sguardo di lui bibliofilo, innamorato di stampa e stampe, di lei autrice di squisiti libri d’artista.

Teste accostate, l’autrice e l’attore cercano, dalla prospettiva dell’angolo acutissimo della bellezza regolata d’inventare una salvezza all’amarissima vita attraverso un ordine graduato dal panico lui, al suono insistente del metronomo dei tic, attraverso un ordinamento insieme di ragione senso e sensibilità in lucida sintonia lei. Lei che (si vedano le sue opere, le sue installazioni potenti) del magistero di una forma declinata in linee portanti chiare, motivate, leggibili nell’ostensione d’immagini e cose che tutte ugualmente contano e restano, garantite nella trasformazione, fa armata pietas che tenti e accenda nella falcata lunga della storia, contro il suo sfacelo mostrificante, una possibile rivalsa della ragione, e dei suoi occhi sensibili che guardano.

Di ragione in ragione, di ordinamento in ordinamento, ritroviamo l’acutissima attenzione procedente su tutto quanto viene detto e appare nell’intavolatura formale del narrare. Che si sviluppa in massima parte per periodi lunghi, propagginanti al loro interno catene di subordinate ad accumulo che passo passo squadernano il descrivibile, tutto degno di essere descritto, senza sfrido, come voltando pagina su pagina un equanime regesto; e il verbo principale, l’asse portante del tempo azzerato nella trafila variegata degl’identici, si acquatta in fondo alla pausata declinazione; e lo schema, o tavola dei giochi, è così lungo e procrastinante che a volte si rischia di perdere il filo e bisogna tornare indietro. Parlerei con prudenza di falso iperbato: iperbato perché viene scelto fuori da un’immediata semplicità il luogo sintattico dell’azione fondamentale e portante, espressa dal verbo principale; falso perché la struttura del periodo è chiara, è modulo che torna a ribadire come passa e scorre via il diorama del dire e del detto: ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa, entro un ordine puntiglioso, fermamente voluto, ovvero scelto. E, si diceva, tutte le storie di questa storia sono narrate al presente, qualunque sia (sia stato) il tempo dei fatti narrati: tutti pareggiati, tutti simultanei. Il tempo si azzera, attraverso un fluire per salti morbidi, impercettibili, in coda alla freccia spuntata della storia spuntata per aver troppo ferito. Tempo tassidermista conservatore. Per cosa?

L’immagine di copertina è un dipinto, ancora, di Caspar David Friedrich, elaborato dall’autrice: fra bosco e palude, erba terra gialla come di argilla, cielo livido e bianco, e quinte di alberi e rami non sappiamo se invernali o secchi. Si noti che Siegfried  preferisce l’inverno, quando i rami spogli sono un fondale teatrale da immaginare, all’estate, quando il fogliame cancella addensando la struttura della vegetazione. Su quel fondale teatrale l’autrice pittrice immagina elaborando una scena. E le ultime pagine del libro riproducono una serie di opere, grafiche e fotografiche, di Fausta Squatriti, tutte in bianco e nero. Sono quelle istantanee del reale che migrano con pari evidenza nelle sue opere visive, il brutto e il bello, il marcio e il verde, il relitto da rigenerare conservando per via di forma e composizione, il pezzo di mondo solo e fermo nello spazio chiuso dell’incorniciatura, il finis terrae. Forme pure, formatamente forme: si vedano i solchi a spina di pesce lasciati dai copertoni di un camion in un terreno già molle e fangoso, ora secco a conservare, stampo e tristo budino ad un sol colpo, un’occorrenza che, passata, rimane; e si vedano i poligoni metafisici di legni e ferri fra pavimento e muro, legno e polvere, che alludono alla sovrapposizione di quadri e cornici in attesa di essere  restaurati e collocati, ma alludono altresì in umilissima versione campagnola ai disegni costruttivisti del Cinquecento che tanto accuratamente furono descritti; e il cestino abbandonato, che nel romanzo sarà formidabile, in tutti i sensi, attrezzo di scena; e legna tagliata, e i due squisiti disegni di rami secchi, e una casa malandata, e un carretto malandato, e un campo di granturco offeso dal tempo e dalla rapina; e i gorghi di un’acqua dove si decide il finale della storia; e la grande cupola pluriarcata e bianca, vertiginosa coazione a ripetere, ma ad ogni giro un po’ di più, un po’ di meno in un’ubriacatura moltiplicatoria, quasi dalia immensa, o crisantemo, di non calcolabili, non abitabili palchi del teatro di Hans Poelzig a Berlino, rivisto da Siegfried dopo l’orrenda trasformazione secondo i canoni estetici sovietici; e, alla fine, l’icona della carriola ammaccata allusivamente accostata per artifizio grafico in volo ad una scatola di latta che è, fotografata ora, da allora, ora, la scatola di sigarette che fu orientaleggiante e principesco tesoro immaginale del giovanissimo Siegfried. Ma, anche, la scatola potrebbe essere pensata, in virtù e allo scatto di un legame occulto in progress, come allusione-illusione di latta a quella scatola di posate d’argento, presumibilmente di legno, che la carriola salvatrice trasportò, non in volo ma in corde. Una triangolazione di materie forti, un’installazione immateriale in cresta al tempo e ai tempi che sia eco ed omaggio della lettrice all’immaginante, spaziato, spazioso incedere delle staffette dell’autrice.

Desidero chiudere la mia ricognizione attraverso questo lucente bosco del malincontro (ma quanto bello e vivente) citando per intero un lungo passo che alla terzultima pagina del libro, la 179, ventosamente riassume temi e problemi in una falcata larga, lunga, che unisce autrice e attore, per un lunghissimo momento, sulla riva di un torrente senza pace. È questo:

“… la Cana lo raggiunge per riportarlo a riva, in salvo, ma ne è impedita dall’inciampo nei sassi irregolarmente scaraventati dalla natura nell’iroso accadimento di millenni, mai più tornato all’ordine così come Siegfried immagina fosse al momento della creazione, un’immensa tavola liscia di materia lambita dall’immateriale, fisico e metafisico, stati dell’immaginazione tangenti, raramente interscambiabili. Mescolati i ruoli nel tumulto dell’universo, si crea la catastrofe, il tragico insito nel continuo movimento, anche senza che si consumi il dramma, nella ricca varietà dell’irrisolto, geologico sconquasso in grado di turbare il tedesco sia quando vi si trova fisicamente immerso sia quando ne osserva la ricostruzione operata a mezzo dell’arte ad opera dei suoi acquerellisti del Grand Tour, artisti minori, e proprio per questo capaci di narrare”.

Questa stupenda pagina quasi chiude il romanzo. Quasi: a chiudere davvero irromperà la vita, e la sua perfettissima sorella. Io di costei non voglio dire il nome.

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