A. Vaccaro e L. Cantelmo a Porto di Mare-Paganardi

Pubblicato il 20 novembre 2022 su Eventi Suggeriti da Maurizio Baldini
Una presentazione congiunta nel nuovo Spazio di Poesia creato da Alessandra Paganardi. Della quale allego la sua acuta presentazione del mio Google a Bookcity-Quintocortile il 18 ottobre scorso, base anche di ulteriori approfondimenti. A. Vaccaro

                                                               

Porto di Mare

Saletta Paganardi

Via Livinalongo 6 – Milano

***

30OVEMBRE – ORE 18,30

Laura Cantelmo, Cuore di nebbia

Adam Vaccaro, Google – Il nome di Dio

Puntoacapo CollezioneLetteraria

Dialoga con gli Autori
Alessandra Paganardi

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Info: Associazione Culturale Milanocosa – www.milanocosa.it info@milanocosa.it – T. 3477104584

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Helene Paraskeva – Storie, Sogni e Segreti

Pubblicato il 7 novembre 2022 su Saggi Poesia da Adam Vaccaro

STORIE, SOGNI E SEGRETI
di Helene Paraskeva, poesie, Fuis, 2018

Lettura critica di Francesca Farina

Il volumetto, pubblicato a cura della Federazione Unitaria Italiana Scrittori, agile ma tutt’altro che semplice o di facile lettura, se non apparentemente, comprende tre diverse sezioni, che tuttavia si intersecano tra loro come in arcane corrispondenze, quasi a richiamare la nota poesia di Baudelaire dal titolo omonimo. Nella prima sezione intitolata Storie, sin dalla poesia incipitaria Profughi, l’angoscia della Storia, del tempo presente che siamo vivendo, del tempo declinato in ogni suo modo, spinge la poeta a immedesimarsi nella condizione di colui che vaga perennemente lungo le strade dell’esistenza e della terra, portando pesi intollerabili, realtà che la stessa autrice, di origine greca ma residente in Italia da molti anni, probabilmente ha sperimentato e che non può non destare amare riflessioni sul destino dell’uomo. Un grido promana dai versi, una disperata ricerca di evidenza contro lo sguardo cieco del mondo, che nega la realtà tanto tangibile della violenza subita dai diseredati, dell’abbrutimento degli ultimi. Il delitto dell’indifferenza permea le menti, più che gli occhi, di chi non si cura del simile, lo ignora, lo cancella dalla vista e dal cuore.
Ancora grida di selvaggio orrore che invocano amore, corrispondenza, attenzione, laddove non esiste compassione, accettazione, compassione: muri, lacrime, valigie in Profughi e barriere, una fuga priva di speranza, e tuttavia la sofferenza umana senza senso potrebbe far “crollare i muri”, mentre nell’abisso dei gorghi marini si gioca la sorte tra chi sarà salvato e chi sarà sommerso: come se scalassero una montagna d’acqua, i naufraghi risalgono la china delle onde per non esserne travolti. L’angoscia della eliotiana “morte per acqua”, dopo aver attraversato senza cibo né bevande il deserto di un mare più crudele di quello di sabbia, è lontana dalla retorica delle parole degli indifferenti. Ma neppure all’Isola di Lesbo, il beato luogo dell’anima a cui allude la poeta, che vide Saffo aggirarsi tra le fanciulle del suo tiaso, si ritrova un po’ di pace, se ora è diventata rifugio precario e spaventoso dei miseri profughi di guerra, i cui “panni scoloriti” “violano l’atarassia delle agavi immortali”: perfino le sacre, eterne piante paiono assorbire il dolore di questa tragedia.
Nessuno, neanche la potente Medusa anguicrinita, leggiamo in un’altra poesia, benché supplicata dai suoi stessi serpenti, può salvare le vittime che sprofondano nel nero abisso dell’indifferenza, oltre che delle paurose onde del Mediterraneo. La grandezza degli dei atavici, che intervenivano a soccorrere gli antichi eroi, nulla può di fronte al nuovo sfacelo dei corpi e delle anime. Mostruosi, terribili pesci emergono dai flutti, tra le reti dei pescatori: un “Bambino vestito a festa”, ma forse ne abbiamo già dimenticato il nome, non la postura, simile a quella di un bambolotto di pezza abbandonato sulla spiaggia: nessuna salvezza per lui, nessuna pietà.
Un’improvvisa, tenera nostalgia investe i versi, dopo tanto orrore: il passato fuggito, le estati volate via come aquile, tutto ritorna nella poesia che fa risorgere ogni sentimento, ogni memoria, ogni parola, le persone amate e scomparse ma non dalle strofe, il desiderio del ballo, del canto, delle risate, della vita stessa: la poesia ricostruisce sulla pagina e ridesta a nuova esistenza tutto ciò che si credeva perduto per sempre. Anche l’amore colma di sé i testi, l’amore che arriva inaspettato e che tutto travolge, destato da “un uomo impavido” che sfidò gli eventi tragici della Storia, un bene assoluto, bramato, che trascina in un precipizio, un infinito tutto, indimenticabile e inesauribile. Immagini potenti vengono poi suscitate in Fantasmi, i cui versi sono ritmati come al suono del tamburo della voga, in un’imbarcazione: ed ecco che grazie alle parole della poeta si innalza di fronte a noi Desdemona, condannata a morte con violenza barbarica dal suo Otello, ecco Famagosta, ecco le galee e le onde, ecco il delitto e la passione, il Tempo che tutto annulla.
Si ritorna a volte a casa, nella memoria, al luogo del lutto, della tragedia annunciata, mentre imperversa un’estate furente, e ci si sente quasi invasori nella propria terra, assai bene connotata da pochi versi, certo la Grecia, patria della nostra autrice. Una leggenda millenaria si accampa sulla pagina, la splendida Sirena dalla sensuale postura, mentre l’amore aleggia tra le rocce e il cielo, fino al compimento del suo destino, al recupero doloroso della propria mortalità. La Storia è importante, questo ammonisce l’autrice da altre strofe, a conclusione di questa prima sezione del volume: dobbiamo “rimembrare tutto” e per primo il secolo appena trascorso, l’oscenità dello sterminio, parola d’orrore, odore di morte alle narici, i forni crematori ancora caldi di corpi…e oggi nella nuova, atroce guerra, sappiamo che dimenticare può costare la vita.
In apertura della seconda sezione, intitolata come detto Sogni, l’amore entra di soppiatto con la grazia di un “sogno estivo” e si fa largo tramite la dolcezza delle sensazioni e dei sentimenti, così baci e visioni si mescolano tra loro fino a creare illusioni meravigliose, fatte di fuoco come il sole d’agosto, altrettanto necessarie della stessa luce del sole. La classicità arriva quasi inevitabilmente nella poesia dedicata a Icaro, con la grecità di cui è intrisa l’esistenza, l’anima stessa della nostra autrice che si fa largo tra le frasi poetiche e squarcia l’ineluttabile, facendo trionfare ancora il mito antico quanto l’uomo nella necessità del volo, l’impossibile anelito che sempre attira al cielo e fa precipitare le ambizioni umane in un eterno baratro.
Perfino nello sport, esaltato dal testo successivo che si intitola Sci nautico, si colgono echi sovrani di classicità, la mitologia degli antichi emerge ancora, siamo di nuovo a Olimpia, nello stadio o nello specchio di mare di fronte ad Atene, ad eccitarci nello slancio che fa ebbro l’uomo che aspira al volo e alla libertà. Talvolta le poesie di Helene Paraskeva si fanno criptiche, ma bastano pochi nomi, quelli immortali di Kavafis o Seferis, a suggerire un intero universo, una stagione ardente, sensualità di colori accesi, di corpi esposti, e ancora desiderio di libertà, oltre la finitezza dell’umano, parola-chiave della sua narrazione. Ma quale sarà l’isola non trovata, la “terra perduta” della poesia Senza nome di cui parla la poeta alla pagina 43 del suo volumetto? Forse quella dei sogni mai avverati, delle occasioni mancate, dei traguardi mai raggiunti? Una nostalgia d’eterno mai sanata si rivela tra i brevi, lancinanti versi che ci fanno andare oltre l’apparente semplicità, in realtà succo distillato di senso, parola che squarcia, pensiero che dilata la vita fino all’impossibile immaginazione, vero regno del poeta. Una fiaba, una leggenda, un mito riassunti forse in questa Occhi d’oro in cui Helene Paraskeva traccia delicatamente il ritratto della dea dell’amore, la “Maestra dagli occhi d’oro”, Afrodite appunto, colei che sorse dalle acque dell’isola di Cipro, colei che insegna ad Eros la sensualità e non permette a nessuno di sfuggire al suo sguardo, di non sottoporsi al suo dominio, quasi nuova Medusa abbagliante e inesorabile.
Nella successiva, sempre dedicata ad Afrodite, sembra di assistere alla nascita della dea suprema e avvertiamo le tenerissime sensazioni che dovette provare la Dea e chi per primo la vide emergere dai flutti del mare Egeo o Greco, posata poi la mano “sulla tiepida sabbia” del litorale, l’ombelico divino esposto alle acque, alla luce, eppure l’amore è stato calpestato, quasi cancellato, perché sappiamo bene quante volte questo delitto è stato commesso col massacro pressoché incessante delle donne.
Nella terza e ultima sezione intitolata Segreti, ancora il mito classico greco pervade come un’ombra sotterranea, ma vivissima, esuberante, la pagina, e qui è Edipo a dominare i versi, ed Ercole, e Tebe, e Giove, ma anche la Bibbia con Isacco il capostipite, nomi che permeano le nostre esistenze con le loro antiche rimembranze. Il desiderio del ritorno, o meglio la nostalgia, ossia il dolore del ritorno, compongono un’unica quartina dal titolo Ancora e ancora e… colma di struggente malinconia: si vorrebbe sempre tornare, ma occorre rendersi umili e accettare di ritornare anche al se stesso di un tempo e al rischio di sentire “amara” perfino la propria terra. Nel testo successivo, la poeta ci propone quasi una rilettura dell’Amleto di Shakespeare: qui la Regina col suo mistero, forse la complicità nel delitto del suo stesso sposo, è come se si stesse risvegliando dopo l’incubo del suo assassinio e vorrebbe allontanarne l’orrendo ricordo, avviandosi lungo una strada infernale. Eppure non vuole ammettere neanche con se stessa quanto è accaduto, mentre Amleto, suo figlio, si strazia per lei più di quanto quella non sia straziata da se medesima.
In Re Barbone, sempre citando Shakespeare, troviamo un testo mosso come un mare in tempesta, agitato dal plurilinguismo che sconvolge la trama dei versi, inseguendo un senso, ma niente pare avere significato, poiché il nulla assoluto domina fino alla follia i personaggi in scena, ancora sullo sfondo delle tragedie shakespeariane. Perfino la pittura entra nella pagina, in Picasso sa, con le immagini tipiche dei suoi dipinti, le donne fatte a pezzi, ciuffi, nasi, fronti e menti, occhi e nomi, una sola guancia per non girare l’altra, accenno alla nota parabola del Vangelo cristiano: scatta quindi l’ironia che suscita un sorriso amaro e una riflessione su quell’artista irraggiungibile e irredimibile.
Anche nella successiva poesia rinveniamo il sarcasmo scatenato dall’esaltazione della falsa modernità che provoca soltanto sofferenza, dato che deriva dal possesso di oggetti per fabbricare i quali serve il Coltan, un materiale speciale e quasi demoniaco, dato che per ricavarlo dalla terra si impiegano anche dei bambini. In realtà, la tragedia della morte in fabbrica entra nella pagina a sconvolgere la memoria degli smemorati: ancora una volta lo scherno scardina il verso, quasi a voler mitigare l’orrore di un dramma inaccettabile che passa ormai sotto silenzio e si fa routine sui mass-media come fosse uno scherzo degno di Halloween. Helene Paraskeva si volge di continuo verso il mito eterno degli dei che sovrastano la sua mente, che permeano la sua stessa essenza, quando cita Selene, che poi è la Diana dei Romani, dea della luna e della caccia, colei che turba i sogni degli uomini illudendoli che siano ancora forti e potenti almeno nel sonno, ma al risveglio la realtà mostrerà di nuovo le loro ferite, precipitandoli nell’orrore e nel dolore del quotidiano.
Ancora, andando avanti nella lettura, ecco un amore che dilania, che faccia piangere e soffrire il fedifrago: questo si augura la donna innamorata e delusa, come per guarire dalla passione lacerante, devastata dall’assenza dell’amato, il quale diventa poi un cinghiale nei versi: ma si tratta di un cinghiale o di un uomo colui che viene sottoposto ai tranelli del linguaggio? Lo squartamento, l’eviscerazione avviene nelle carni dell’animale o della persona? Talvolta nei testi dell’autrice troviamo sensi assai ardui da decifrare, che forse soltanto lei potrebbe aiutarci a comprendere, a sviscerare… La parola gabbiano, abusata in poesia e spesso banalizzata, se utilizzata romanticamente come simbolo di libertà, di assoluto, di anelito supremo, assurge qui ad un nuovo significato, assai originale, dell’uccello filosofo, in contemplazione presso una pira, sul sacro Gange, ma anche di colui che è fedele al Dogma dell’Attesa. Del resto la Grecia non è forse patria della filosofia? Però qui è sufficiente una sola parola, Gange appunto, a spostare repentinamente tutta l’azione in un altrove straniante.
La triste condizione del povero Orso Manolo, costretto a umanizzarsi di fronte alla bestia-uomo e al Mostro Domatore, è più umano degli umani e ci ricorda, casomai ce ne fosse bisogno, dello sfacelo della Natura, delle indicibili sofferenze degli animali che non possono non ricadere sulle persone, sull’intera specie umana, toccando un altro tema molto caro all’autrice anche quando rende protagonista, venerandola nei suoi versi, una semplice ma mitica Civetta, Athena noctua, nella celebrazione perfetta di questa creatura notturna, una piccola dea dei boschi profondi, la quale, secondo la tradizione greca, se ne stava appollaiata sulla spalla/ di Atena, simbolo della sapienza ancestrale che irradia ancora da lei attraverso i secoli. La rievocazione dei grandi lirici greci, con l’immagine della giovinezza e della freschezza di graziose fanciulle, Lolite, solubili all’istante, contrapposta alla malinconia e ai rimpianti del vecchio Omero: immagine eterna di due diversi destini, ci riporta inequivocabilmente alla classicità, ma spesso i versi di Helene sono criptici, ermetici, quasi misterici come le profezie della Pizia, nella poesia Corridoio, in cui creature, simboli arcani, parole simili a coltelli, insomma ogni elemento del testo sembra nascondere un enigma, che forse solamente l’autrice potrebbe sciogliere, se lo volesse.
Improvvisa si fa largo una gioia amara, la fine della stagione più attraente, l’estate dei giorni raggianti, la quale non porta altro che spaesamento, dispersione, panico, quasi che si piombasse in una voragine senza luce perché tutta la felicità del tempo scintillante della calda stagione è scomparsa, probabilmente per sempre, se è emblema della maturità dell’esistenza umana che declina. Miti, leggende, fiabe e racconti, penetrati tutti nei gangli del mondo, vengono rievocati in Trasformazioni, dove la Regina di Saba si muta in Esmeralda, la protagonista di Notre-Dame de Paris di Victor Hugo, accanto al suo pio campanaro Quasimodo, e rinasce zingara, ovvero gitana, come i suoi più lontani antenati. Ricordiamo infatti che la parola “gitani” deriva da Aegyptus, Egitto in latino, perché si dicevano originari della terra delle Piramidi, mentre Saba è identificabile col Sud dell’Egitto, appunto. Esmeralda si tramuta ancora nella Carmen plebea, la sigaraia dell’omonima opera di Bizet, e tutto si fonde e si compenetra, in una danza esaltante di versi, a chiudere questo vertiginoso cerchio di connessioni culturali.
In Inspiegabilmente un’altra stagione, l’autunno, viene celebrata in pochi, perfetti versi carichi di nostalgia per ciò che scorre, che è impossibile fermare, mentre anche la passione, per un’estate o per un uomo, si spegne, spazzata via dal vento come ha spazzato dal tavolo di latta,/ l’amore eterno/ e la magia degli avanzi, oppure in Caos una pioggia incessante diventa un diluvio universale, con le sue acque infernali quasi omeriche o dantesche, che travolge ogni cosa facendo esplodere il mondo quasi fosse l’eruzione di un vulcano: immagini suggestive nate da una potente fantasia, dall’oscurità del linguaggio e venute alla luce soltanto grazie alla parola. Altra immagine infernale, quella dell’Ade, di fronte alla cui porta stazionano Minosse, Eaco e Radamante, i pesatori dell’anima, coloro che vagliano i cuori, a cui nulla e nessuno può sfuggire, mentre la classicità intride i versi, poiché appartiene al sangue della poeta e sgorga sulla pagina tanto spesso come da una ferita aperta e mai del tutto rimarginata.
Il Vesuvio con la città di Napoli è invece sullo sfondo di certi versi, rievocata dall’espressione vernacolare, allora si cade all’improvviso in un altro universo, quello sconvolto dalla modernità che si sottomette alla tecnologia, sconfitto lo zolfo dei millenni, cancellato il tempo eterno. Subito dopo non sappiamo a quale città l’autrice rivolge due brevi strofe, quale agglomerato urbano celebri nella sua patetica bellezza quando, come una mendicante, fruga tra le rovine e la spazzatura, ed è ridicola se fa la sciantosa: forse si tratta ancora di Neapolis, la Nuova Città fondata dai Greci, miserabile e scellerata, ma sempre pronta a ritrovare la grazia millenaria, risorgendo dalle sue stesse ceneri, come l’araba fenice del mito.
Nella successiva Milano invece è dichiaratamente omaggiata la città lombarda, davvero clamorosa, dove l’eccezionalità diventa pane quotidiano, e in cui ogni atto crea stupore se si incontra Manzoni sul tram, se si ritrova il quartiere popolare accanto all’elegante belcanto, se il lavoro diventa l’assoluto dell’esistenza, quando a Roma risorgono ovunque laceranti memorie, Giordano Bruno arso vivo a Campo de’ Fiori, o gli ebrei traditi nel loro Ghetto e sterminati nei lager tedeschi: da una parte l’estrema solitudine del filosofo e dall’altra l’orrore dell’indicibile che ancora aleggia nelle vie del quartiere presso il Tevere, il ricordo innominabile ma incancellabile del rastrellamento del 16 ottobre del 1943.
Il mistero della vita e della morte ancora si insegue tra i versi criptici, quasi cifrati, con Amleto che ancora una volta ci guida ad indagare sul senso dell’esistenza e della sua fine come davanti al cranio di Yorick nell’omonima tragedia shakespeariana, ma la missione del poeta è quella di dialogare col sacro e col sublime come con l’infimo, tentando percorsi secolari e aprendo nuove strade, gli occhi accesi a scrutare l’impossibile, a profetizzare da ogni cosa, Inferno Purgatorio e Speranza: Orrore, Mediocrità e Futuro, forse sono queste le parole-chiave che si celano dentro il verso che chiude l’unica, brevissima sestina Al Poeta, di pagina 101?
Testimonianza altri versi di un tempo tragico appena trascorso, probabilmente, dell’esilio sofferto, del dissanguamento simbolico patito, ma anche della speranza che infine viene esaltata come una liberazione, sebbene sia troppo tardi per festeggiare: la vita precipita e ci avviciniamo decisamente alla conclusione delle poesie e alla chiusura della silloge, con ancora un’eco indicibile della classicità mai trascorsa, che permane nel telo incompiuto/sul telaio a rammemorare Penelope, con la celebrazione dell’ormai passata stagione dell’epica, trasposta nell’attualità quotidiana, lo stile modesto delle battaglie del cuore e delle passioni amorose, irrinunciabili. La stagione estiva, che si consuma come si consuma la vita, è di nuovo oggetto di struggente poesia, denotata da un verso che ricorda banalmente le previsioni meteorologiche, commento che abbassa subito il climax perché nei testi di Helene Paraskeva alto e basso, sublime e comune convivono e si confrontano di continuo: così, nuovamente l’eccelso e il vieto si mescolano e si compenetrano nel segno della Divina Sfinge da interrogare incessantemente.
Ma è sotto il segno della frenesia della Menade, innominata eppure presente, che la poeta si congeda nel richiamo della selvaggia danza solitaria, convulsa, simbolo del piacere di vivere come anche della stessa Poesia, canto che lei si augura di praticare finché il suo cuore batterà come un tamburo, immagine potente di vitalità e di forza che invita a cogliere la gioia dei giorni, nonostante tutto.

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G. Galzio: L’Oro della Quercia a BookCity – Sala del Grechetto

Pubblicato il 4 novembre 2022 su Eventi Suggeriti da Maurizio Baldini

                    

19 NOVEMBRE –ORE 14,00

Biblioteca Sormani – Sala del Grechetto

Via Francesco Sforza 7 – Milano

NELL’ORO DELLA QUERCIA

INCONTRI TRA AUTORI

A CURA DI GABRIELLA GALZIO

(puntoacapo Editrice)

Una raccolta antologica con 27 autori di Poesia, Narrativa, Teatro e Saggistica

relativa a serie di incontri svolti nel “Salotto” Galzio nell’arco di un triennio

Intervengono

Mauro Ferrari (puntoacapo Editrice), Gabriella Galzio (Curatrice)

Adam Vaccaro (Presidente Milanocosa)

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Vaccaro-Ravizza: BookCity 2022 – Quintocortile

Pubblicato il 1 novembre 2022 su Eventi Suggeriti da Maurizio Baldini
Una presentazione congiunta a BookCity 2022, in un luogo di memorie di Milanocosa. Due libri di poesia, alla ricerca di canto e pensiero critico, nella complessa realtà storica in cui viviamo. 

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Google – il nome di Dio, alla Calusca – Milano

Pubblicato il 30 ottobre 2022 su Eventi Suggeriti da Maurizio Baldini

                                                     

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Google – Il nome di Dio – Presentazione a Trezzano S/N

Pubblicato il 18 ottobre 2022 su Eventi Milanocosa da Adam Vaccaro

Comune di Trezzano S/N
Biblioteca Comunale Ostilio Bego

Rassegna TREZZANO SCRIVE

28 OTTOBRE – ORE 18,30

 Google – il nome di Dio

di Adam Vaccaro,

(puntoacapo Editrice)

Viaggio con la poesia di Adam Vaccaro

alla ricerca di senso sotto il sole del pensiero unico

Centro Socio Culturale C.A. Dalla Chiesa – Via Manzoni 12

  Roberto Caracci dialoga con L’Autore

 Letture di Mariella Parravicini

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a seguire rinfresco

       L’Assessore alla Cultura  Beatrice Ventacoli                                                              Il Sindaco  Fabio Bottero

Area servizi sociali, culturali, sportivi – Biblioteca Comunale O.Bego 

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Google – il nome di Dio. Presentazione a Pescara

Pubblicato il 10 ottobre 2022 su Eventi Milanocosa da Maurizio Baldini

LIBRERIA PRIMO MORONI

PESCARA – VIA DEI PELIGNI 93

22 OTTOBRE ORE 17,30

 Adam Vaccaro, Google – il nome di Dio

(puntoacapo Editrice)

Viaggio con la poesia di Adam Vaccaro

In quattro quarti di cuore

alla ricerca di senso sotto il sole del pensiero unico

  

A colloquio con L’Autore

 Daniela D’Alimonte e Giancarlo Giuliani

Coordina

Massimo Pamio

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 Info:

Associazione Culturale Milanocosa – www.milanocosa.it – info@milanocosa.it – T. 3477104584

Angela Passarello – Poema Rupe

Pubblicato il 6 ottobre 2022 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Rupe daimon di Girgenti

Adam Vaccaro

Angela Passarello, Poema Rupe, New Press Ed., 2022

In questo libro è come scalpellato sulla pietra, con caratteri lapidari e icastici, un affamato e inesausto, vorace daimon che incarna quel chiodo su cui poi la nostra vita ruoterà e che Claudio Magris chiama primogiardino. È il luogo reale e immaginario, l’orizzonte geografico e umano in cui la nostra identità comincia a interagire col mondo, disegnandone primi tratti, con paralleli e meridiani del visibile, ma anche sprofondi nell’oltre invisibile, dentro e fuori di noi.
Memoria e presente, orrori e gioia di vita, infimo e immenso diventano fuoco vivo che inventa una lingua viva e rinnovata da un intreccio inestricabile, erotico e doloroso con l’Altro. Ne nascono corpi e accrocchi di segni, sensi e suoni, tesi a una immagine animale della totalità, simbolizzata dalla Rupe – utero di rinascita e creatività di questo poièin, che oscilla tra noto e ignoto custodito nelle mani di quel daimon che ci tiene, ci appartiene e ci sfugge, tra umano e divino, quale era inteso dai Greci, radice culturale cui il testo è profondamente innervato. Opportunamente Angelo Lumelli ne ricorda nella Prefazione i dibattiti sulla costruzione di una forma, poetica e no, tra accenti contrapposti, analogici e rivendicazioni della anomalia di ogni diversità, di cui la lingua si fa testo a fronte, contro ogni noto e consueto.
La espressività di Angela Passarello, non solo in questo Poema, ruota intorno a tale chiodo, cui lei dà nome di Rupe, icona del suo primogiardino, sempre presente e sempre passato nel suo venire e stare nel mondo. Tale immagine dà nome al testo e diverta nucleo atomico esplodente di detto e non detto, di dicibile e indicibile, crinale epifanico di poesia, con invenzioni verbali che accorpano termini e ci proiettano sia nel cuore della Rupe, sia sul nostro universo, denso di domande e ben poche risposte.
La Rupe assume perciò qui quasi il nome di un’astronave umana o un ufo, che affascina e spaventa, concreta e al tempo stesso onirica, piena di buchi in cui a tratti rimane in gola la nostra fame di significati e di senso. E tuttavia, la prima Sezione del libro, con lo stesso titolo del libro, in una sequenza di anelli vocativi- invocativi, con molecole apparentemente slegate, man mano costruiscono tessere di un mosaico e una catena di sensi, ricchi di magnetismo comunicante.

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Anticipazioni – Franz Krauspenhaar

Pubblicato il 30 settembre 2022 su Anticipazioni da Adam Vaccaro

Anticipazioni
Vedi a: https://www.milanocosa.it/recensioni-e-segnalazioni/anticipazioni
Progetto a cura di Adam Vaccaro, Luigi Cannillo e Laura Cantelmo – Redazione di Milanocosa

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Franz Krauspenhaar
Inediti 2022
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Nota di lettura di Luigi Cannillo

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Nota di poetica
Questi sono versi del patire e del riderne, dentro e fuori. Alcuni formano minerali, piante; altri, pensieri che sono grattacieli, e addirittura nuvole alte nel cielo. Senso di se’ e materia, mai pianto ma accettazione che non si spezza nella rassegnazione. Dove c’è lotta, le parole seguono.

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L’estranea canzone di Mariapia Quintavalla

Pubblicato il 14 settembre 2022 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Il sogno e l’utopia al vaglio del tempo
Laura Cantelmo

Mariapia Quintavalla, Estranea canzone, puntoacapo Ed. , Pasturana 2022

Torna a parlarci la poesia di Mariapia Quintavalla, grazie alla nuova edizione di Estranea canzone, poemetto dato alle stampe per la prima volta nel 2000. L’apprendistato poetico di questa Autrice registrava già allora un numero considerevole di opere ricche di giovanile freschezza e di interesse innovativo, caratterizzate da “perlustrazioni e rammentazioni di un’area cubofuturista e surrealista con connesioni nell’area della poesia italiana degli anni settanta” (A. Zanzotto, “Per una poetica di Mariapia Quintavalla”, in Nuovi Argomenti, 1994, nota critica che, successivamente integrata, ritroviamo nella prima edizione e anche nella presente).
Dopo un tempo che appare remoto dalla prima edizione, tanto da poter rendere brucianti le ferite della storia fino a stravolgere il volto di un’opera di invenzione di singolare novità, alla prova dei fatti la rilettura di un testo pubblicato una ventina di anni fa e oggi rivisto, afferma il proprio valore permanente nel percorso diacronico della ricerca di una nuova lingua poetica in quanto voce e sogno di un nuovo mondo.
A conclusione del romanzo in versi Le Moradas” (1996) che precede Estranea canzone, un canto intitolato “Prologo”, in cui ritroviamo lo stesso tessuto linguistico dell’opera in cui è inserito quasi a volere introdurre Estranea canzone, comprende una significativa dedica ”agli invisibili, fratelli e sorelle/ di generazione che non presero la parola”. La parola è dunque compito etico di chi quella parola è riuscito ad avere, potendola usare in nome di fratelli e sorelle. Un abbraccio fraterno ai senza voce che è di per sé elemento illuminante – respiro umano che connota l’opera. Il Canzoniere intitolato Le Moradas, intreccio di storia personale e di riferimenti ad Autori importanti per l’Autrice, come Antonio Porta e Franco Fortini, è momento significativo nella poetica di Mariapia Quintavalla in quanto anticipa e consolida il progetto di Estranea canzone, quello di costruire una visione del mondo e di dar voce ai sogni con una strana lingua inventata, antica e inedita.
Estranea canzone costituisce un passaggio più maturo, in cui il lettore non può che abbandonarsi all’invenzione linguistica evitando di decodificare il testo, mentre poco alla volta ne individua il racconto autobiografico che ha inizio nel luogo natio, Parma, l’Emilia del suo cuore, per procedere seguendo “il filo più forte ….quello del destino della poesia.” (Marisa Bulgheroni. Dialogo con Francesca Pasini, Circolo della Rosa e Libreria Tikkun, Milano, 2000). Ancora oggi esso sfida il lettore in ogni singolo testo, in ogni verso, quasi appartenesse a un codice linguistico a noi affine, sia pure rimodellato a sua volta in totale libertà. Tornano alla mente le dicotomie saussuriane, quali langue e parole, secondo le quali la Poeta, partendo dalla lingua nativa (langue), crea la propria personalissima e intima parole. Di cui, oltre a Bulgheroni, Pasini e Andrea Zanzotto, che ne hanno discusso dettagliatamente e con passione, anche Adam Vaccaro, in Le tracce e il luogo di Alice (Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi, 2000) ci ha offerto illuminanti osservazioni.
Ci viene riconsegnato ora un poemetto in sestine avvolto in una atmosfera “agli albori del tempo”, che offre molti piani di lettura e intende proporre una lingua poetica attraversata dall’esperienza delle avanguardie del secondo Novecento senza averne subito interventi di carattere freddamente intellettualistico.
Ci si trova a navigare un fiume che sgorga dall’interno, la cui onda tiepida e contenta plasma un discorso franto e cadenzato, ispirato dall’irrefrenabile impulso creativo dell’inconscio – quello foco – che operando sul lessico, stravolge fonemi, inventa neologismi grazie all’uso di morfemi – prefissi e suffissi – fino a renderli radiante materia polisemica. Una ricerca che rifiuta l’inerzia del modello “significante/significato” della linguistica saussuriana, inventando in modo spiazzante un vocabolario del tutto personale. L’intento è di approdare alla forma canzone, composizione epico-narrativa consegnata alla storia dalla tradizione fiorita in Francia nel Medio Evo. “Chansons de gestes” che allora davano vita a un racconto in versi di gesta guerresche, in seguito acquisita dalla lirica italiana.
La canzone di Quintavalla è una autobiografia “tutto fratture e crampi” (Zanzotto) intrecciata con le vicende del proprio percorso letterario in un quadro storico che è il dato antropologico e politico di riferimento. Una dinamica elaborazione dei fatti dell’esistenza individuale che si identificano, contrastano o si fondono grazie a una passione poetica che mediante una nuova lingua intende rappresentare/prefigurare un nuovo mondo, non solo la poesia, cui offrire uno “statuto simbolico” inedito e universale: “la voce nuova non era scherzo, era cambiato/ il fulcro – nella vita e morte”. Il che avviene all’uscita di una giovinezza eternatura nella raggiunta consapevolezza della maturità, “nel mezzo del cammino”.
Diviso formalmente in X Canti, il poemetto procede per stazioni, come una via crucis, sottolineando in tal modo l’asperità del percorso. Allusioni letterarie attuali o lontane ne affermano con forza il sostanziale legame alla tradizione letteraria e in particolare ai poemi epici. In una delle citazioni ariostesche, che definirei creativa “le donne, i cavalier, l’armi, gli odori” il tono ironico o forsanche sarcastico svela l’intento innovativo rispetto a quella illustre tradizione. Nella parole di Quintavalla è proprio il termine canzone a dare avvio a ogni vicenda legata al destino della donna nella sua interezza e complessità intellettuale e biologica. Gli esergo stessi sono tratti da modelli di donne – Linspector, Zambrano – che hanno elaborato un discorso di liberazione di genere.
I versi iniziali, introdotti da puntini di sospensione, aprono a un’atmosfera atemporale, indefinita: “…è nello spirito…nell’onda/ tiepida e veloce ma contenta, nel/ tempo del risveglio che continua” – gioioso inno all’ispirazione che sgorga dalla raggiunta maturità. Per valutarne la densità di senso basterà, come premessa, analizzare il titolo. Il termine canzone implica una componente essenziale della poesia – il ritmo, la musicalità, il canto che saranno qui “nuovi”, mentre l’aggettivo estranea (da ex trahere, tenersi al di fuori da una tensione drammaticamente alienante e insieme liberatoria) nella poetica di Quintavalla va inteso nella sua duplice natura di aggettivo e di sostantivo. Se ne deduce che Lei, soggetto in terza persona della narrazione e del canto, si pone al di fuori dalle consuetudini letterarie e linguistiche formali e da un punto di vista esterno persino rispetto alla narrazione autobiografica. Infatti quel foco/quella incantevole scintilla la infiammano al punto da inducerla a elaborare il passato superando e rimodellando la lingua poetica nella morfologia e nella sintassi al fine di narrare, in una sintesi linguistica estrema, il passato e poter divinare il futuro (v. Marisa Bulgheroni, “Quali parole ci salveranno”, in Leggendaria 2001).
Sappiamo che la lingua si rimodula nel percorso storico ed ecco Lei, donna di un nuovo tempo, farsi voce/gola della nuova storia e affrontare con l’energia di una più sicura coscienza il compito di fornire la lingua per un nuovo futuro mondo nel quale la donna ha finalmente diritto di parola e di poesia.
E dove troviamo a un certo punto solo plurali femminili invece che maschili, è la Poeta stessa a liberare la lingua/canzone/poesia (i termini si fondono e si confondono) dai vincoli di una pesante tradizione patriarcale. Mano a mano si agglomerano i termini che rappresentano metonimie/sineddochi/ossimori, tant’è che la lingua diviene sempre più affermazione e profezia di un’era dove la donna in un tempo/zolla non più colonizzato può uscire dalla notte e cantare, arare improvvise tenere canzoni da balconate, (che altrove saranno finestre o balaustrate).
Lei
La seconda parte, più autobiografica, porta alla ribalta Lei, bambina agghindata e connotata dalle scarpette rosse nella nativa Parma e il suo successivo trasferimento a Milano l’elettrica, dove, dismesse le danzanti scarpette, la donna adulta incontra tutta una lucciolata di amiche vecchie e nuove – sorelle/canzoni (l’identificazione è chiara e ripetendosi spesso, sempre più rappresentativa della poetica) che allacciano relazioni, favoriscono un convito, mentre invece altri – fottuti – esprimono ostilità: “le ingiungevano tacere o meglio andarsene”. Sempre più estranea di fronte ai malevoli inviti della perduta gente ad abbandonare il nuovo percorso già segnato “là il moderno e qui il sicuro ridacchiavano”, con la ripetizione di termini come sola/solitudine, Lei manifesta eloquentemente il suo stato d’animo.
Le ardite invenzioni linguistiche si succedono con frequenti evocazioni dei poemi epici e con richiami ai poeti contemporanei più amati, come Sereni, Fortini, Bertolucci. Insieme all’ardore della creazione del nuovo, sofferenza e resistenza suggeriscono parole che hanno la solennità di storie sapienziali incise nella pietra, alla ricerca di un posto altura/intimo e transustanziato per abbandonare le fole e sedersi al convito quasi ignoto delle amiche dove si dicono parole astanti (da ad stare, essere vicino) per sognare un altro mondo privo di colonizzazione. Il termine astante è una delle misteriose parole chiave che attraversando il poemetto denota un’atmosfera di rispettoso ascolto e contiguità delle astanti, con una sottile venatura di deferente rispetto.
Il tema del materno, introdotto dall’esergo di Maria Zambrano sull’origine filiale della madre chiama in scena le Madri di riferimento (tra le quali la presenza non del tutto rasserenante della madre naturale). Il congedo che ne segue apre a nuove progettualità e utopie con l’irrompere improvviso della figura luminosa della figlia, agile Ippogrifo, un fascio di luce che rischiara il presente e lo rasserena, sfocando momentaneamente le inquietudini del passato. Dopo una fase di drammatica afasia e il timore di non potere più scrivere, Lei non avverte più la sua estraneità nella modalità che conosciamo.
Verso il finale una notevole rarefazione della sintassi, l’uso di agglutinazioni, di allegorie, sineddochi, metonimie, paronomasie accresce la funzione di strumenti retorici evocativi di una forte densità di senso.
L’excipit vede la Poeta, “arricchita” dalla nascita di una canzone il figlio, trovare, dopo quel foco che si accese, un seguito di intente giovani, rifacere la storia, eredi e testimoni del suo percorso umano e poetico.
Un’opera “aperta”, avrebbe detto Umberto Eco, che con raffinato sortilegio sollecita il lettore ad “atti di libertà cosciente” in prima persona. Un impegno attivo, creativo e interpretativo autonomo (Umberto Eco, L’opera aperta).

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