Anticipazioni – Alfredo Panetta

Pubblicato il 20 febbraio 2022 su Anticipazioni da Adam Vaccaro

Anticipazioni
Vedi a: https://www.milanocosa.it/recensioni-e-segnalazioni/anticipazioni
Progetto a cura di Adam Vaccaro, Luigi Cannillo e Laura Cantelmo – Redazione di Milanocosa
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Alfredo Panetta
Inediti
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Nota di lettura di Adam Vaccaro
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Nota di poetica

I 3 testi proposti fanno parte di un progetto di “indagine” poetica sul tema: delitti di ndrangheta. Si tratta, per la precisione, di alcuni dei delitti eccellenti degli ultimi decenni in terra di Calabria. Ritengo che la poesia possa (e forse debba) volgere il suo obbiettivo sui temi sociali, non solo d’attualità. Per la semplice ragione che il poeta ha l’occhio interiore educato a vedere oltre. Oltre il visibile e oltre l’intellegibile. Il poeta non fa cronaca, né storicizza gli eventi (a ciascuno la propria competenza) ma prova a scavare sotto la superficie ed ad estrarre elementi di bagliore altrimenti rimasti celati. Si pensi alle lacune delle vicende degli ultimi decenni in Italia: il terrorismo in primis, le mafie del Sud a seguire. Io provo a raccontare in versi dal mio periferico punto di vista vicende che in parte conosco. Conosco i luoghi, le dinamiche degli eventi, la cultura mafiosa della terra dove sono nato e ho vissuto i primi 20 anni della mia vita. Argomenti che studio con attenzione anche oggi a distanza. Ecco allora la tragica vicenda del Professore Panzera (mio amato docente negli anni del Liceo a Locri), il dramma dell’integerrimo Rocco Gatto, mugnaio da cui mia mamma portava il grano o il granturco da macinare, e Nicodemo Panetta, un imprenditore del mio paese che denunciò più volte quelli che sarebbero diventati i suoi carnefici. Tre storie emblematiche di una Calabria tanto bella quanto fragile. Una terra che, come tutto il nostro Sud, avrebbe bisogno di semina a 360 gradi, e non di veleno che infetti le sue falde.

Milano, 27/11/2021

Alfredo Panetta

SERPI E GELSUMINI (A F. Panzera*)

Esti com’un pruppu pistatu
sup’è scogghjia stu rèfulu
njelatu chi schjiaffija l’ossa.

Nesci ‘i sutta d’a terra‘u hjiumi
‘i bbandugnu c’arma ‘u pugnu è pathri
e porta ‘i figghji int’è caverni!

Non cchjiù ‘i zàgari l’arria
fici hjiarvu stu sammartinu
ma du sangu feroci nte costati.

Nu spruzzu di purvari affuca
‘u rispiru ‘i ‘na terra chi sgrava
serpi e gersumini du stessu sputu.

Nuju u si permetti u jetta
falacchi a mindi futtu o u mu si ccitti.
Sta storria ‘i curpa d’orbitudini
ndi mosthra ‘a virgogna, armenu
e u jetta na zavorra nta ll’orrori.

(Traduzione)
SERPI E GELSOMINI

È come un polpo sbattuto
sugli scogli questa brezza
gelida che schiaffeggia le ossa.

Sorge in profondità il fiume
d’abbandono che arma il pugno ai padri
e trascina i figli alle caverne!

Non più di zagare l’aria
ha profumato quest’autunno
ma del sangue feroce sul costato.

Una raffica di polvere soffoca
il respiro di una terra che figlia
serpi e gelsomini dallo stesso sputo.

Nessuno si permetta di scagliare
fango a caso o di tacere.
Questa storia di colpevole
cecità ci indichi il pudore, almeno
e getti una zavorra nell’orrore.

(*) Francesco Panzera, docente di matematica del Liceo Scientifico di Locri, venne assassinato il 10 dicembre 1982 da sicari della ndrangheta rimasti impuniti. Il Professore Panzera, giovanissimo vicepreside, più volte si oppose e minacciò di denunciare gli spacciatori delle ndrine locali che volevano introdurre l’eroina all’interno dell’istituto scolastico.

*
U MULINARU D’A GEJUSA

I mani nta buggia,mprascati ‘i farina
po’ jiri a testa arta p’a chjiazza
du Mercatu, armen’ora chi nzoccu si chjiudì.

Oji, o’ forisi ‘i spezzi chi veni d’a Chjiana
nci pisa nto petthu comun u macignu
‘u tò mancatu salutu mpastatu ‘i dialettu.

Ma ‘i ncocchji manera, ‘i morti rithrasinu
a’ casa, a so’ hjiamma duna senzu e’ nosthri fagghji
a vicinanza thra diricati e rrami
i civa comu cani chi teninu a lupa.

A to’ facci staci serena stampata nto muru,
tatuaggiu e lampu ‘i nu basu a facci lapruta
no basu vigliaccu d’a ndrangheta-troja.

A mmia, cacarocciulu ‘i sthrata, m’abbasta
a tò zala ‘i jurta, a to’ fedi ‘n cu perdi
pecchì d’ogni perditina nèscinu
stringiuti ‘i mani comu chiji ‘i na vota
comu d’i caji d’i viddhani
i camphi undi undi di ranu.

(Traduzione)
IL MUGNAIO DI GIOIOSA

Le mani in tasca, imbrattate di farina
puoi avanzare a testa alta per la piazza
del Mercato, almeno ora, ch’é terminato tutto.

Oggi, al venditore di spezie venuto
dalla Piana, peserà come un macigno sul petto
l’assenza del tuo saluto, impastato di dialetto.

Ma in qualche modo i morti rientrano
a casa, la loro fiamma da’ senso ai nostri
errori, la vicinanza tra radici e rami
li nutre come cani ingordi.

Il tuo viso è sereno, stampato sul muro,
tatuaggio e lampo d’un bacio a viso aperto
non il bacio vile della ndrangheta-scrofa.

A me, merdina di strada, basta
il tuo grido di lotta, la tua fede in chi perde
perché dalla sconfitta nascono
le strette autentiche di mani
come dai calli dei braccianti
le distese ondose di grano.

(*) Rocco Gatto, mugnaio di Gioiosa Jonica, fu ucciso nel 1976 dalla ndrangheta locale. In seguito al suo assassinio, per la prima volta in Italia un Comune si costituì parte lesa in un processo. Il delitto suscitò forte indignazione tanto che fu indetto per la prima volta uno sciopero per delitti di mafia. Sandro Pertini assegnò alla famiglia di Rocco Gatto la medaglia d’oro al valor civile.

*
CORI ‘I CIMENTHU (a Nicodemo Panetta)

Moticau sempi i passi mè
thra ncusciienza e coraggiu;
d’a pirata du hjiumi
mi fici portari aundi
i mmagarii di l’arburi
sunnu mmata sanizzi. Eu
vaju mmata di notti, ogni notti
sup’a terra zaappata a dassari
a mè simenza ò velenu.

Pecchì ndaju a zalari: eu sugnu
non sulu cu sugnu, e dinunziu!
Eu vogghjiu restari fedeli
e dinunziu! Fazzu nomi
cognomi e u spiritu santu.
U staci ‘n catini cu usa i zanni
u staci nta gaggia cu si pigghjia l’arria
com’è mosthri nte sonna ‘i cothraru.

Fazzu nomi e cognomi
c’a colonna diritta dorsali
chi se n’è fazzu stannu mali
i mè nervi ed a luna.
Ora vaju mu dassu nta ll’erba
tagghjiata a mè mmerda
‘i moscerinu. Non aju a vidiri
u matinu ‘n forma di chjiuppu
springatu di l’acquazzina.

Ma eu sacciu comu stannu i cosi
e sapiri esti u gradu
cchjiù nobbili d’a fedeltà.

(Traduzione)
CUORE DI CALCESTRUZZO

Ho sempre mosso i miei passi
tra incoscienza e coraggio;
dalla brezza del fiume
mi son fatto portare là dove
le magherie degli alberi
non sono ancora violate. Io
vado di notte, ogni notte
sulla terra zappata a depositare
i miei semi al veleno.

Perché devo gridare: io sono
non solo chi sono, e denuncio!
Io voglio restare fedele
e denuncio! Faccio nomi
cognomi e lo spirito santo.
Stia in catene chi usa le zanne
resti nel gabbio chi occupa l’aria
come i mostri nei sogni d’infanzia.

Faccio nomi e cognomi
con la spina diritta dorsale
che a non farli, stanno male
i miei nervi e la luna.

Ora vado a lasciare sull’erba
tagliata i miei escrementi
di moscerino. Non vedrò
più il mattino in forma di pioppo
sfregiato dalla rugiada.

Ma io so come vanno le cose
e sapere è il rango
più nobile della fedeltà.

(*)Rocco Gatto, mugnaio di Gioiosa Jonica, venne assassinato nel 1990 perché aveva osato denunciare i mafiosi che gli avevano ripetutamente chiesto il pizzo. Viaggiava su un’auto blindata che lui stesso aveva denominato: la mia bara da vivo.

Nota di Lettura

Non posso che richiamare, con questa mia nota, quanto scrissi recensendo l’ultimo libro di Alfredo Panetta, Ponti sdarrupatu – Il crollo del ponte (Passigli Poesia, Firenze, 2021), vedi a https://www.milanocosa.it/temi-e-riflessioni/alfredo-panetta-ponti-sdarrupatu-il-crollo-del-ponte.
Titolai quella recensione, “La poesia e l’imperativo categorico”, la forza etica della forma, ben altro e oltre una qualificazione di poesia civile: energia e spina dorsale di un testo creativo (in qualunque linguaggio), in cui si fa linfa di sguardo totalizzante, a partire da ogni ambito dell’esperienza del Soggetto Scrivente, interiore o esteriore. Il fare del poièin più ricco di sensi, che non si riduce a scenari autoreferenziali e imperscrutabili, è quello che dà forma e si fa carico della responsabilità di coniugare complessità e transitività, e che sfocia nel bisogno di esserci, il che vuol dire condivisione e comunicazione, alias mettere in comune. Senza questa catena antropologica, il soggetto rimane diafano, angelico, non più fatto di terra, sangue e nervi.
La totalità del soggetto, cioè il Sé e non solo l’Io, senza uno scambio entro una comunità, rimane nuvola egolalica, annullata e beata in una supponenza malata di superiorità ridicola. Troppa eredità delle furiose stagioni creative del novecento navigano ancora in tali pretese illusorie, perse in un cielo autocelebrato, staccato dal mondo e ignobilmente abbandonato ai suoi dolori e tragedie, rimestate solo nel bicchiere della psiche del singolo. È un ramo che la storia della letteratura si incaricherà di analizzare più a fondo di quanto si possa fare in una nota di lettura come questa. Ma tale richiamo ci serve per inquadrare la ricerca e la poetica di Alfredo Panetta su un altro versante. Che è poi quello di una coscienza dantesca, del bisogno di essere presenti, qui e ora, testimoni dell’inferno noto e ignoto, voce fraterna che vuole farsi alimento di rinascita di una vita più umana, di lampi di un paradiso possibile, che è, solo se condiviso.
Questi splendidi testi inediti, sono dedicati a tre vittime di mafia, non per piangere pietose e retoriche lacrime, ma per ridare loro vita in uno scenario laico, perché “in qualche modo i morti rientrano/ a casa, la loro fiamma da’ senso ai nostri/ errori, la vicinanza tra radici e rami/ li nutre come cani ingordi./…d’un bacio a viso aperto/ non il bacio vile della ‘ndrangheta-scrofa./…/ perché dalla sconfitta nascono/ le strette autentiche di mani/ come dai calli dei braccianti/ le distese ondose di grano.”. L’onda della vita si fa musica dolorosa che ci buca il cuore e il ventre tra immagini di flora e fauna: “È come un polpo sbattuto/ sugli scogli questa brezza/ gelida che schiaffeggia le ossa./…/ Nessuno si permetta di scagliare/ fango a caso o di tacere./ Questa storia di colpevole/ cecità ci indichi il pudore, almeno/ e getti una zavorra nell’orrore.”.
Inutile, solo orrore tra gli orrori, celebrare la sintesi dantesca di virtute e canoscenza, se poi il proprio fare è un incielarsi, voltare gli occhi altrove, o autonobilitarsi nella caverna platonica in cui il potere ci invita a crogiolarci. I testi di Panetta vanno fuori con occhi di lupo che abbaia alla luna, raspando la terra e i nostri nervi dormienti: “Io/ vado di notte, ogni notte/ sulla terra zappata a depositare/ i miei semi al veleno.// Perché devo gridare: io sono…e denuncio!/ Io voglio restare fedele/ e denuncio!/…/ Faccio nomi e cognomi/ con la spina diritta dorsale/ che a non farli, stanno male/ i miei nervi e la luna.//…/ e sapere è il rango/ più nobile della fedeltà.”

Adam Vaccaro

4 comments

  1. MARIELLA DE SANTIS ha detto:

    Ammirabile la fedeltà al suo progetto di poetica della lingua originaria che Panetta porta avanti da decenni. Con sempre un passo in più. Grazie,
    Mariella De Santis

  2. Laura Cantelmo ha detto:

    Alfredo Panetta, un grido dal cuore, l’orgoglio di camminare eretto ad ogni costo, contro ogni evenienza. Che dire di questi splendidi versi, se non che onorano chi li scrive ed elevano chi li legge. La lettura di Adam ne coglie perfettamente l’altissimo valore sia etico che poetico.

  3. Adam Vaccaro ha detto:

    Copio e incollo questa risposta di Alfredo Panetta, inserita nel post in FB.

    Carissimo Adam, scusami innanzitutto il ritardo con il quale leggo il tuo commento. Grazie per le tue osservazioni e per l’acuta lettura dei miei testi dedicati a tre delle innumerevoli vittime di ndrangheta. Tu parli della necessità che dovrebbe avere il poeta di uscire dalla propria psiche per immergersi nel presente del qui ed ora. Mi sembrano parole (ahimè) profetiche, come spesso i poeti sanno sanno formulare. Vediamo quello che sta succedendo in Ucraina, l’Inferno che stiamo vivendo. Come può il poeta, e l’artista in genere, non essere almeno testimone di tutto questo? E la testimonianza forse non è sufficiente, servirebbe altro. Ma personalmente non so cosa di preciso, mi sento disarmato, Adam. Almeno in questo momento; è troppo fresco l’orrore. Dimmi qualcosa tu, Adam. Dammi qualche ramo di salvataggio cui aggrapparmi. Buona domenica.
    Alfredo

  4. Adam Vaccaro ha detto:

    Grazie della bella conferma, caro Alfredo, che attendevo, non per me – come ti ho detto a voce – ma per la moltiplicazione dei sensi della scrittura (poetica e non), arma di difesa contro la disgregazione di ogni senso di comunità che il neoliberismo sta producendo in tutto il mondo. La pandemia e la guerra in Ucraina la stanno solo accentuando, e nel mio piccolo ho diffuso un documento e un post in fb, anche questa una testimonianza contro la follia prevalente che ci vuole rendere frantumi Impotenti o tifosi passivi e acritici.

    Adam

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