Intervista a Giorgio Linguaglossa

Pubblicato il 24 luglio 2010 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

La nuova poesia modernista italiana. Intervista a Giorgio Linguaglossa

Di Luciano Troisio –

GLI STILI DELLA STAGNAZIONE

La poesia c’è ancora: interessa un settore piuttosto ampio di scrittori, non di lettori. Per limitarci al dominio linguistico italiano (ma non credo che il resto del mondo alfabetizzato stia molto meglio), una volta sconfitto il “baco del millennio” si sperava di assistere a novità. Come sappiamo, nei libri di storia la data d’inizio del XXI secolo e del III millennio riguarda ambiti nefandi e per nulla poetici. Dov’è finita quella tutto sommato cavalleresca Poetical Licence agognata negli anni Sessanta?

L’obsoleto concetto di Palus putredinis, di Waste Land, può ancora avere nessi con l’attuale stagnazione? È logico evincere che le novità in vista siano pochine? Intendo chiedere lumi ad alcuni saggisti con libri appena usciti. Giorgio Linguaglossa, calabrese-romano, nato a Istanbul, esperto del settore, generazione di mezzo, temperamento assai schietto che non le manda a dire (quindi isolato), ha recentemente dato alle stampe il volume di saggi: La nuova poesia modernista italiana (1980 – 2010) [Roma, Edilet, 2010, pp. 262, € 13]. Gli ho rivolto alcune domande-pretesto:

Luciano Troisio: Nel tuo provocatorio articolo Gli stili della stagnazione (edito sul sito lietocolle), tu parti da Pasolini, il quale nel n° 9 di «Officina» (1957) parla di «rinuncia a una sicurezza di un mondo stilistico maturo» e più avanti accenna a una operazione culturale nella quale la lingua tende «ad essere abbassata tutta al livello della prosa» […] con conseguente «riadozione di modi stilistici prenovecenteschi». E oggi?

Giorgio Linguaglossa: Il problema che si trova ad affrontare la generazione degli anni Dieci è più vasto e profondo di quanto ci si immagini: occorrerebbe aver tratto le conseguenze e aver fatto i conti con ciò che i linguaggi epigonici del tardo Novecento hanno lasciato in eredità alla «nuova» poesia. C’è nella «nuova poesia» la consapevolezza che ogni istituto stilistico coincide sempre con un suffragio «contenutistico» e che ogni passo in avanti viene ad essere tassato con un pesante balzello stilistico?

La «nuova poesia» si trova davanti un compito talmente vasto e così periglioso da far tremare i polsi: innanzitutto, quale linguaggio impiegare? Con quali registri lessicali? Con quale struttura contenere il «quadro»? Dove posizionare l’«io» poetico? Quale politicizzazione far aderire al testo? Ovvero, quale spoliticizzazione? Insomma, la via della sproblematizzazione intrapresa dalla poesia italiana da La beltà (1968) in poi è la via giusta? – La verità è un’altra: la cultura dello sperimentalismo entra in crisi irreversibile fin dalla apparizione del libro di Zanzotto: le opere (dello sperimentalismo) che seguiranno avranno sempre più il marchio di prodotti epigonici.

La generazione degli anni Dieci è così costretta a ricominciare da un grado zero del «nuovo» linguaggio poetico, riportare i precedenti linguaggi allo stato di «radura», operare, insomma, una potatura dei cespugli linguistici con la conseguenza di rendere i linguaggi de-territorializzati allo stato «liquido», decontestualizzarli, emulsionarli, con il risultato di ritrovarsi tra le mani un ircocervo linguistico, un ibrido stilistico, un medium formale (che si nutre di una metricità/narratività diffuse), una koiné linguistica che, un tempo lontano (nel lontano Novecento), a monte e alle spalle, aveva il retroterra di un linguaggio poetico frutto di una convenzione, di un patto, di un concordato, insomma, di una contratto-tregua tra linguaggi ostili e belligeranti. Insomma, gli stili della «nuova poesia» prendono o non prendono le distanze dalla piccola borghesia della quale si fanno «testimoni»? È perfino ovvio che, a valle, i linguaggi della «nuova poesia» ricalchino, nella struttura formale-linguistica, le contraddizioni non risolte o rimaste irrisolte delle poetiche epigoniche del tardo Novecento.

In realtà, è tutta la generazione degli anni Dieci che sembra segnare il passo (a volte anche arretrando vistosamente) dinanzi alle enormi difficoltà che si profilano dalla de-territorializzazione del linguaggio poetico lasciato in eredità dal secondo Novecento. La «nuova poesia» tenta di problematizzare ciò che era stato sproblematizzato (stilisticamente) dalla cultura poetica epigonica e acritica del post-sperimentalismo e del minimalismo. Ma è una problematizzazione che non tiene conto della devastante ricaduta, sul linguaggio poetico, a causa della invasione dei linguaggi narrativi e dichiarativi della comunicazione global-mediatica.

In fondo, ciò che resta al fondo della questione stilistica della «nuova poesia» è un precipitato indifferenziato e amorfo, il basso continuo, la narratività riflessa dall’«io» poetico, il calco mimetico che ha preso il modello narrativo ad icona della propria procedura.

Luciano Troisio: La «poesia degli oggetti» (Anceschi, 1952) è ora divenuta «poesia dell’accumulo, o della rarefazione, degli oggetti». Ma tu invece sei convinto che gli oggetti, privi di un correlativo oggettivo, restino muti?

Giorgio Linguaglossa: Sì.

Luciano Troisio: Franco Fortini, uno sconfitto? Perché rileggere oggi i suoi saggi Dei confini della poesia?

Giorgio Linguaglossa: Per quando concerne la lezione di Franco Fortini, è vero. L’ho detto e lo ripeto ancora una volta: lo scacco della poesia tardo novecentesca lo si comprende soltanto rispolverando il testimone di uno sconfitto. La lezione di Franco Fortini è stata rimossa dalla coscienza della poesia italiana. Se è vero che Fortini non ha mai puntato a una mera «riforma culturale della poesia italiana» o ad una mera «riforma del linguaggio poetico», bisogna pur ricordare che Fortini «detto sottovoce oggi (se no, i poeti giovani e meno giovani si scandalizzano e s’insospettiscono)», come scrive Ennio Abate, è stato un intellettuale marxista impegnato in qualcosa di più di una mera riforma del linguaggio poetico. Rileggere oggi i saggi di Fortini Dei confini della poesia («Nuovi saggi italiani») è altamente istruttivo, dove è chiaro il concetto che non ci può essere una riforma del linguaggio poetico senza una riforma complessiva dell’assetto economico e politico della società italiana: «Eppure mi è sempre stato chiaro che la poesia, proprio in quanto forma che si oppone al mutamento, ha anche una sua dimensione conservatrice e conciliatrice»; oppure Metrica e biografia (in «Quaderni piacentini 2», nuova serie, 1981); ad es.: «Una poesia che si disgiunga dalla coscienza costante di tutto quello che poesia non è, si degrada ad “aroma spirituale”, a ipocrita “cuore di un mondo senza cuore” o, come una volta m’occorse di dire, a “vino di servi”». Il nodo centrale della crisi della poesia del tardo Novecento va cercato, a ritroso, proprio in quella mancata riforma del linguaggio poetico. E qui la lezione di Fortini va ripresa e rilanciata, tanto più oggi, in tempi di maltusianismo e di conformismo retrogrado. Soltanto portando la «poesia» oltre la «poesia», oltre e al di là degli steccati degli istituti stilistici si potrà giungere alla riforma strutturale del linguaggio poetico che non è mai avvenuta nelle patrie lettere. Ma, mi sia concesso di ricordare anche un altro sconfitto: Angelo Maria Ripellino, il quale con la sua trilogia degli anni Settanta, introduce nella poesia italiana una novità assoluta: la poesia modernista, grazie alla sua frequentazione della poesia europea dell’est di cui fu estimatore e impareggiabile traduttore. Due generali sconfitti. Sono pochi? E siamo sicuri che la poesia italiana del Novecento (quella egemone intendo) possa fare a meno di due giganti quali Fortini e Ripellino (pur così diversi)? O non si tratta, in verità, di una vittoria di Pirro. Cioè che la poesia che uscirà dalla riforma sereniana del linguaggio poetico sarà una poesia epigonica e di scarso spessore intellettuale. «credo, giunto il momento di ripensare le fondamenta della poesia del secondo Novecento, ma per farlo dovremo sottoporre a critica l’ascesa della piccola borghesia a elemento stabilizzatore del quadro politico italiano (DC e PCI) dagli anni Sessanta in poi, con il corollario dei suoi intellettuali di riferimento che ne decantano le lodi e le qualità e le sorti progressive… Nella poesia degli odierni «quotidianisti» (gli equivalenti in poesia della piccola borghesia), gli «oggetti» (privi di una riforma del linguaggio poetico ove collocarli) restano muti, e non basta un accumulo (o una rarefazione) di «oggetti» per comunicare quello che il soggetto che li pronunzia vorrebbe. Chissà perché, nella poesia del «quotidiano» si verifica una moltiplicazione di «oggetti» che dall’esterno precipitano nel foglio bianco della pagina scritta, (per contro, nella pagina degli «astrattisti» si verifica il fenomeno contrario: una rarefazione degli «oggetti»). E questo è sufficiente a dare dignità di discorso poetico alla pagina scritta? Io mi sentirei perlomeno autorizzato a nutrire seri dubbi in proposito. Tradurre sulla pagina bianca l’accumulo di oggetti che insiste nel mondo esterno è una famigerata ed errata utopia, una pia illusione dei «quotidianisti». Ciò che i «quotidianisti» comunicano è unicamente una ideologia del «quotidiano», ovviamente, un «quotidiano» diretto e deciso dall’esterno (dall’io, dall’io degli altri, dai media, dalla tradizione stilistica), un «quotidiano» parallelo e ancillare alla ideologia della fluidificazione universale propria delle moderne società mediatiche. Quello che ingenuamente molti autori credono, cioè che sia sufficiente creare un «controquotidiano» per criticare ideologicamente il «quotidiano» della comunicazione mediatica, resta una pia illusione. Per quanto riguarda l’ultimo appunto di Abate, invito a rileggere il pezzo e non sfuggirà il tono derisorio e sarcastico che uso quando mi rivolgo alla poesia «denaturata» del minimalismo di Magrelli, Lamarque e Marcoaldi (oltre l’infinita servile schiera degli imitatori); ormai l’invasione della «ontologia piccolo-borghese» è tale che, per paradosso, sembra ai miei contemporanei «che al di là del minimalismo non ci sia altro che il minimalismo» (!!!).

Luciano Troisio: [Non condivido affatto l’affermazione: la poesia si oppone al mutamento]. Come giudichi i Quotidianisti? E la vecchia dismetria? E la distassia?Vuoi spiegarmi il rapporto che lega la stagnazione economica agli «stili da stagnazione» e alla menzogna del «kitsch della bella interiorità»?

Giorgio Linguaglossa: I «quotidianisti» sono coloro che eleggono il «quotidiano» a monumento sepolcrale della poesia. E poi, che cos’è il «quotidiano»? Qualcuno ha mai codificato quale «quotidiano» ammettere in poesia? A me sembra una gran corbelleria questa questione del «quotidiano».

Veniamo alla dismetria (fenomeno che designa la distruzione della struttura metrica) e alla distassia (fenomeno che indica la distruzione della linearità sintattica). Direi che ciò che resta dei linguaggi poetici contemporanei è qualcosa di simile alla Immagine Benjaminiana: i linguaggi poetici contemporanei del Dopo il Moderno sono simili ad un labirinto: giungi ad un incrocio da una via diversa da quella solita e non lo riconosci, non ti raccapezzi, non riesci a distinguere quell’incrocio da altri similari. Ecco, i linguaggi poetici del Dopo il Moderno partono da un’esperienza virtuale, onirica, metaempirica del tutto sganciata da quella cosa che un tempo si indicava come una «esperienza significativa»; c’è un attante astratto, poroso, evanescente, trasparente, e di lì si procede per divagazione e/o diramazione dell’argomentazione (del commento imbonitorio), in un moto, direi, inerziale, ellittico, eccentrico, zigzagante, de-concentrico, borderline, ma sempre, rigorosamente, meta empirico. Di fatto, si tratta di una poesia spettacolo (o da avanspettacolo): variano gli attori (e gli attanti) ma non varia l’enunciato-spettacolo di quella che un tempo lontano era la versificazione. Intanto, la versificazione si è sfrangiata, spezzettata, l’a capo del verso libero non è più problematico: si va a capo quando si vuole. I prodromi di un tale fenomeno di disarticolazione della versificazione si possono riconoscere nel tipo di poemizzazione del reale che incontriamo in un poeta come Valentino Zeichen fin dalla sua opera di esordio, Museo interiore del 1976. Il fenomeno dell’incremento macrobiotico, abnorme, smisurato della poesia ilare-giocosa o cinico-scettica e ludico-urbana (che assicura la permanenza del verso-spettacolo e della versificazione sgangherata) è garanzia della impermanenza della società mediatica dello spettacolo, della galleria figurale delle immagini serializzate e riproducibili all’infinito. Di fatto, la poesia-apparenza è divenuta la poesia-spettacolo, la poesia da cabaret. Possiamo dire, senza remora, che come l’enunciato-spettacolo abita il palcoscenico del villaggio mediatico, così la parola poetica abita il foglio bianco di una presenza acefala e de-corticata dove il monstrum (non più visibile) che si appalesa non è né pubblico né privato, non è più il male di vivere né mai sarà un esistenziarsi più o meno destinale di chi non ha più da tempo immemorabile un destino tout court. Figurativismi parolieri o presentificazioni parolate oserei definire la versificazione dei linguaggi poetici del Dopo il Moderno, un continuum di presenzialismi che rivelano, per contrasto, la presenza di un «io» de-nucleato, de-realizzato, de-psicologizzato, un quotidiano de-quotidianizzato. In una parola: infrollito di imbecillità, che oscilla tra iperrealismo, ipernichilismo e cromatismi e transita in una zona grigia e bigia dove tutti parlano dei medesimi banalismi opportunamente verniciati che recalcitrano, scalpitano e inciampano tra sintagmi asseverativi e didascalici, impulsivi e riflessivi, tra discariche urbane e discariche letterarie dove il logos è diventato un «logo» di «trasloco» di linguaggi poetici equipollenti perché ormai definitivamente decorticati e sproblematizzati.


In questo transito dal crudo al cotto, dal caldo «embrione» del linguaggio poetico di un tempo lontanissimo all’algido della società mediatica dello spettacolo, in questo iter di de-costruzione (linguistica e stilistica) la similpoesia del Dopo il Moderno si incarna in uno stile non-stile da reportage e da referto psichiatrico, abbondantemente attingendo (come colonna insonora) alla lezione del fumetto e alle didascalie-inserto delle riviste massmediatiche più patinate, ai sintagmi del cabaret, al frammento interruptus, al memento delle idiosincrasie del soggetto colto nel flash della sua immobilità posturale. Abbiamo allora una inflazione derisoria della «bella interiorità» (della bella interiorità) quale involontario e inconsapevole capovolgimento e iconico-desultorio del poemetto da viaggio turistico: il poemetto anti-poematico, tessera inservibile, memento di un universo reificato, servile e asservito alla autorità dell’immagine dell’immaginario mediatico.

È appunto quel fenomeno dilagante delle scritture piccolo-borghesi con le risibili esposizione del cuore e i patemi d’animo pretermessi, fenomeno che richiama, come in ipnosi, l’eredità (mancata) dell’antico linguaggio letterario del Novecento, ormai derubricato e disossato dalla psicosi-psoriasi del Dopo il Moderno. Ciò che corrobora la nostra impressione secondo la quale gran parte della migliore poesia contemporanea non è altro che una proiezione linguistica di un «io» sproblematizzato che osserva e biasima, ora contro la civiltà corrotta e funesta, ora contro la natura infida e improvvida dispensatrice di nefandità. Ecco spiegata la inflazione di metaforismi e la tessitura di proposizionalismi acritici.

Luciano Troisio: Il tuo volume, La nuova poesia modernista italiana, fresco di stampa, si dimostra una ricca miniera. Leggerlo risulta interessante non fosse altro che per la volontà di classificare un congruo numero di poeti e poetesse, scelti tra i più esemplari di uno sterminato esercito; competenza che ti deriva da lunga militanza, come autorevole saggista e come direttore della rivista «Poiesis»: un grande sforzo che usa anche criteri geografici, cominciando dal Nord («la via diretta e la via indiretta all’oggetto») analizzando Zanzotto e Raboni.

Personalmente vedo un abisso tra questi due autori, e come veneto tendo a rivendicare tuttora una linea maggiormente distinta delle Venezie. Non dimentichiamo che fino a un paio di generazioni fa eravamo i «terroni del Nord» in rapporto al ricco triangolo industriale e tecnologico cui bisognava umilmente riferirsi come vassalli. Ora non è più così, molto è cambiato, anche peggiorato e incomprensibile; ma una certa identità (diciamo) ancora neopetrarchesca (per quanto con abbondante napalm dietro il paesaggio) credo tuttora persista, sebbene i santoni siano ormai verso i novanta, molti abbiano passato i sessanta, i giovani siano allo sbando, i gruppi, le tendenze risultino inconsistenti e, in quanto a visibilità, siano legate ai limitatissimi fondi su base provinciale, come del resto succede in tutto il Paese.

Giorgio Linguaglossa: Dal punto di vista dello sviluppo della poesia del Novecento, sia Raboni che Zanzotto sono poeti di secondaria importanza. Nel senso che non portano novità di rilievo.

Luciano Troisio: Tu individui linee laterali del secondo Novecento…

Giorgio Linguaglossa: Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo. Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1947)? Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale (una sorta di terra di nessuno?); ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La bufera (1951) – (in verità, con Satura – 1971 – Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo intellettuale alto-borghese), vivrà una seconda vita ma come fantasma, allo stato larvale, misconosciuta e disconosciuta. Ma se consideriamo un grande poeta di stampo modernista come il Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti. Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista? La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, intitolata Paura di Dio con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo capolavoro: La Terra Santa. Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista.

Se consideriamo che la contro rivoluzione alla poesia sperimentale è operata negli anni Settanta dall’esordio di un Dante Maffìa con Il leone non mangia l’erba (1974): a una poesia di stampo prettamente lirico, farà seguito, dopo la chiusura del Novecento, un discorso poetico di matrice modernistica con Lo specchio della mente, Crocetti, (2000), La biblioteca d’Alessandria, (2003), Il corpo della parola e Al macero dell’invisibile (2006). Il piemontese Roberto Bertoldo si muoverà, invece, in direzione di una poesia che si situi fuori dal post-simbolismo con opere come Il calvario delle gru (2000) e L’archivio delle bestemmie (2006). Nell’ambito del genere della poesia-confessione già dalla metà degli anni Ottanta emergono Sigillo (1985) di Giovanna Sicari, Stige (1992) di Maria Rosaria Madonna e, negli anni Dieci, Maria Marchesi con L’occhio dell’ala (2003), Evitare il contatto con la luce (2005) e Laura Canciani con Il contagio dell’acqua (2009). Così come la riproposizione di un discorso lirico da parte del lucano romano Giuseppe Pedota (Acronico – 2005, che raccoglie scritti di trenta anni prima) sfrigola e stride con l’impossibilità di operare per una poesia lirica dopo l’ingresso nell’età post-lirica, propriamente, nella post-poesia.

È noto che nei micrologisti epigonici che verranno, la riforma ottica inaugurata dalla poesia di Magrelli, diventerà adeguamento linguistico ai movimenti micro-tellurici del reale: la composizione assumerà la veste di frammento incompiuto, dove il silenzio tra le parole assume un valore semantico preponderante. Il questo quadro concettuale è agibile intuire come tra il minimalismo romano e quello milanese si istituisca una alleanza di fatto, una coincidenza di interessi e di orientamenti «filosofici»; il risultato è che la micrologia convive e collima qui con il solipsismo più asettico e aproblematico; la poesia come fotomontaggio dei fotogrammi del quotidiano, buca l’utopia del quotidiano rendendo palese l’antinomia di base di una impostazione culturalmente acritica


Lo sperimentalismo ha sempre considerato i linguaggi come neutrali, fungibili e manipolabili; incorrendo così in un macroscopico errore filosofico. Inciampando in questo zoccolo filosofico, cade tutta la costruzione estetica della scuola sperimentale, dai suoi maestri: Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto, fino agli ultimi epigoni: Giancarlo Majorino e Luigi Ballerini. Per contro, le poetiche «magiche», ovvero, «orfiche», o comunque tutte quelle posizioni che tradiscono una attesa estatica dell’accadimento del linguaggio, inciampano nello pseudoconcetto di una numinosità quasi magica cui il linguaggio poetico supinamente si offrirebbe. Anche questa posizione teologica rivoltata inciampa nella medesima aporia, solo che mentre lo sperimentalismo presuppone un iperattivismo del soggetto, la scuola «magica» ne presuppone invece una «latenza».

Luciano Troisio: Ampio spazio hai doverosamente riservato alla nuova poesia modernista femminile, quella che viene di recente definita (specie politicamente dalle nostre amiche) «di genere»

Giorgio Linguaglossa: Mai prima nella storia d’Italia la poesia femminile aveva acquistato uno spazio così grande, almeno quanto quello della poesia maschile. Poetesse del livello di Amelia Rosselli, Helle Busacca, Giovanna Sicari, Maria Rosaria Madonna, Alda Merini, Patrizia Valduga, Laura Canciani e Maria Marchesi non nascono per caso.

Luciano Troisio: Infine, ma soltanto geograficamente, la linea meridionale della nuova poesia.

Giorgio Linguaglossa: Circa la «disparizione» della poesia meridionale. La faccenda è molto più antica: quando nel 1981 Giovanni Raboni pubblica un’antologia dal titolo Poesia Italiana Contemporanea. Gli inclusi sono: Saba, Rebora, Campana, Cardarelli, Ungaretti, Sbarbaro, Montale, Penna, Sereni, Luzi, Zanzotto, Pasolini; gli esclusi: Quasimodo, De Libero, Gatto, Sinisgalli, Cattafi, Ripellino, Piccolo, Bodini, Scotellaro, Calogero. Si tratta di un vero e proprio ripulisti, di una vera e propria liquidazione della poesia meridionale. È la prima operazione dichiarata e manifesta di autopromozione della poesia del Nord; e che il curatore sia un poeta della competenza e del rango di Raboni non deve trarre in inganno. È una operazione lucida che non lascia un minimo adito al dubbio su quelle che sono le intenzioni politico-letterarie a nord del Po. Ed ecco il caustico commento di un poeta del Sud, Dante Maffìa, sulla rivista “Polimnia”, numero del 1981, il quale sconterà con l’isolamento e il silenziatore le sue numerose esternazioni: «Dunque, la poesia degli anni ottanta si apre con questa indicazione ed è naturale che, essendo emanazione del potere editoriale, tutti si guardano bene dal contestare. Va da sé, e non per esigenze di gruppo, per adesione ideologica, per scelta di campo, che i poeti si aggreghino, inventino riviste, cenacoli, spettacoli in pubblico. Chi meglio sa vendersi, chi meglio sa imbonire (a patto che rappresenti una fetta del Potere), si faccia avanti con la sua merce, non importa se è merce svalutata, se è solo involucro, o se è merce avariata, di proprietà altrui. È un sintomo da non trascurare che per quasi tutti gli anni ottanta abbia trionfato la poesia di coloro i quali fanno i traduttori o i professori di letterature straniere presso le università».

Luciano Troisio: Personalmente, sono piuttosto scettico sulla «novità» della poesia odierna. È vero che nel millennio attuale si pubblicano volumi di autori noti e meno noti, frutto di decorosissima e astuta cucina; temo che dopo i favolosi anni sessanta (eravamo giovani) e quelli di piombo, il cosiddetto «Riflusso» non sia ancora esaurito. Bellezza, fascino, ma poca novità.

Giorgio Linguaglossa: Con lo scetticismo della ragione.

Luciano Troisio: Quali sono i tuoi progetti? Parlaci dei tuoi prossimi lavori.

Giorgio Linguaglossa: Ho un solo progetto: mantenere la mia libertà di pensiero. Libero da pregiudizi e da interessi di parte. Spero che il mio giudizio critico diventi con il tempo sempre più affilato e appuntito.

BREVI NOTE

Giorgio Linguaglossa (Istanbul, 1949), poeta, traduttore e critico letterario IT. Vive a Roma.

Giorgio Linguaglossa, “La Nuova Poesia Modernista Italiana”, Roma, EdiLet, 2010. pp. 262 € 13,00.

Fonte:

http://www.lankelot.eu/letteratura/linguaglossa-giorgio-la-nuova-poesia-modernista-italiana-intervista-giorgio-linguaglossa

One comment

  1. enrico dignani ha detto:

    I poeti.

    Caso mai è il mondo
    che spiattella le sue pene
    a Noi,
    che ci mancano novecento poesie
    per essere poeti.
    Il mondo :
    questa grossa palla,
    lampo giallo bianco,
    condannata in eterno ad essere
    scema e faticosa.
    Eppoi senza eppoi.

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