Il punto su democrazia e partiti

Pubblicato il 21 gennaio 2017 su Saggi Società da Adam Vaccaro

“Da che pulpito” di Marco Travaglio sul Fatto quotidiano del 19 gennaio 2017

(e da Pagine On Line del 20 gennaio 2017)

Ora che il Tribunale di Roma ha dichiarato eleggibile Virginia Raggi, respingendo il ricorso pidino che voleva sloggiarla dal Campidoglio per il contratto firmato con i garanti Grillo e Casaleggio, i 5Stelle e i partiti dovrebbero evitare di cadere in due errori opposti e speculari: i 5Stelle quello di ritenere che il discorso sulla loro democrazia interna sia chiuso e che non occorra alcuna regolamentazione per le forze politiche; i partiti quello di far rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta, cioè di approvare una norma che metta fuorilegge il M5S se non si trasforma in partito. L’articolo 49 della Costituzione stabilisce che “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Concorrere, non gestire in esclusiva. Dunque c’è vita (politica) oltre i partiti: per esempio nei movimenti. Ora, da 68 anni l’art. 49 attende di essere attuato con una legge ordinaria sulla responsabilità giuridica delle varie formazioni politiche. Che oggi sono equiparate ai circoli privati e alle bocciofile, mentre dovrebbero riconoscersi in un pacchetto minimo di diritti e doveri.

Siccome gli eletti sono stipendiati con denaro pubblico e i gruppi consiliari e parlamentari ricevono fondi pubblici (i 5Stelle prendono solo quelli per le attività istituzionali e le spese documentate, mentre non incassano i “rimborsi elettorali” e devolvono la parte non rendicontata delle diarie in un fondo per il credito alle piccole imprese), oltre ai contributi privati, il primo dovere è la trasparenza dei bilanci, che vanno certificati da autorità indipendenti e devono contenere tutte le informazioni utili su quanti soldi entrano, chi li versa e come vengono spesi. Niente più fondazioni più o meno farlocche legate a questo o quel politico, con i finanziatori che restano occulti in nome della privacy. Niente più contributi anonimi sotto una certa soglia. E niente più scuse tipo quelle di Marino o di Cota su spese di finta rappresentanza (non sapevo, ero distratto, ha fatto tutto la segretaria). Ogni rimborso per spese non rendicontate o non dovute va restituito dall’interessato, che ne risponde penalmente, mentre il suo partito risponde sul piano civile e contabile (così controlla meglio i suoi eletti). Se uno tace nomi e importi di finanziamenti privati o spende denaro pubblico per scopi privati, il partito può subire sanzioni pecuniarie e tagli ai finanziamenti e rimborsi pubblici. Come in Germania, dove il partito filonazista fu messo fuorilegge, escluso dai fondi statali e dalle elezioni perché aveva bilanci falsi.

Poi c’è la questione della democrazia interna (scelta di dirigenti e candidati, statuti, codici etici, cause di incompatibilità, espulsione e altre sanzioni interne), che non può essere fissata per legge: ogni formazione politica deve fissare proprie regole trasparenti di fronte a iscritti ed elettori, nel rispetto delle leggi e della Costituzione, e poi applicarle sempre, non caso per caso. Alle ultime Amministrative, il M5S ha scelto i propri candidati sindaci un po’ per acclamazione, un po’ per alzata di mano, un po’ con votazioni online, un po’ per investitura dall’alto. Ma la stessa caotica discrezionalità è avvenuta nel Pd, che in alcuni centri ha adottato le primarie (il suo Statuto le prevede sempre) e in altri ha ricandidato in automatico i governatori e i sindaci uscenti (Chiamparino in Piemonte, Fassino a Torino ecc.). E due anni fa, alle Regionali, lasciò correre in Campania Vincenzo De Luca, incandidabile in base al Codice etico del partito (aveva un rinvio a giudizio per corruzione e concussione) e per giunta ineleggibile in base alla legge Severino per una condanna in primo grado per abuso d’ufficio (poi caduta in appello dopo le elezioni). Senza contare che le primarie sono spesso truccate da compravendite di voti (vedi Campania), extracomunitari cammellati (tipo i cinesi pro Paita in Liguria e pro Sala a Milano), voti di scambio addirittura con la mafia (è stato appena indagato a Palermo l’ex pd Fabrizio Ferrandelli, che nel 2012 batté Rita Borsellino).

Infine il capitolo voltagabbana: dal 2013 un parlamentare su quattro ha cambiato partito, con un furto di voti che ormai l’opinione pubblica equipara al furto di soldi. La Costituzione, art. 67, vieta giustamente il vincolo di mandato: per certi casi di coscienza è giusto che il parlamentare possa votare in dissenso dal partito (specie quando il partito cambia programma in corso di legislatura, adottando addirittura quello degli avversari, come Renzi con quello di B.). Ma chi passa dall’opposizione alla maggioranza o (più raramente) viceversa obbedisce alle sue tasche, non alla sua coscienza. Ecco una riforma costituzionale sacrosanta e urgente, come quella suggerita nell’intervista al Fatto dall’ex presidente della Consulta Gustavo Zagrebelsky: chi cambia schieramento decàde da parlamentare. Il M5S sbaglia quando desume dalla sentenza dell’altroieri che ora vale tutto, anche il vincolo di mandato. Ma sbagliano anche i partiti quando difendono un sistema ormai insostenibile: per vent’anni sia B. sia il centrosinistra hanno proposto improbabili norme “anti-ribaltone” (quando il ribaltone lo facevano gli altri); gli ex comunisti, nel Pci, dovevano firmare le dimissioni in bianco e, se poi votavano in dissenso dal partito, venivano cacciati su due piedi; e in questa legislatura il Pd ha usato metodi banditeschi per spegnere il dissenso interno: dalle fiducie sull’Italicum alla sostituzione in commissione dei senatori non allineati sulla “riforma” Boschi. Quindi benvenuto il dibattito (e, si spera, la legge) sulla democrazia interna delle forze politiche. Purché nessuno pretenda di dare lezioni agli altri.

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