APPUNTI SULLA «GENERAZIONE PERDUTA»

Pubblicato il 19 febbraio 2011 su Resoconti da Adam Vaccaro

APPUNTI SULLA «GENERAZIONE PERDUTA» DEGLI ANNI DIECI

Raffaele Piazza Del sognato Milano, La Vita Felice, 2009

Letizia Leone Carte sanitarie Roma, Perrone, 2008

Lidia Are Caverni Colori d’alba Cosenza, Orizzonti Meridionali, 2010

Giorgio Linguaglossa

Noi sappiamo che nell’epoca del declino delle «Grandi narrazioni» è avvenuta la moltiplicazione delle piccole narrazioni in una miriade di racconti miniaturizzati. La «Grande narrazione» si è risolta in una «Piccola narrazione», nella narrazione di piccoli mondi: il mondo dell’affettività privata, la rammemorazione del vissuto e la rivivibilità del «privato» nel presente «attualizzato». La modalità, il modus che nella poesia del pre-moderno aveva a che fare con il «soggetto trascendentale» è stata sostituita dalla pluralità dei soggetti empirici e dall’egoità dell’attualità. Se ancora in Hölderlin e in Leopardi soggetto trascendentale e soggetto empirico coincidevano, noi oggi possiamo prendere atto che abbiamo accertato con evidenza assoluta che il «soggetto puro», in altri termini, il «soggetto trascendentale» che aveva ancora «coscienza di sé», ha compiuto oggimai la sua traiettoria concettuale ed ha esaurito le sue potenzialità «narrative», lasciando il pensiero estetico alle prese con i problemi derivanti dall’eclisse del «soggetto».

Ormai non vi sono più che soggetti empirici: sul piano dell’etica questo significa il conflitto delle volontà (Nietzsche) e l’ideologizzazione della morale; sul piano dell’estetico ciò comporta che non vi è nient’altro che uomini empirici, l’uomo come soggetto scompare per diventare soggetto di scienza, soggetto del politico, soggetto della sfera artistica, soggetto del religioso, soggetto della divisione dei poteri e del lavoro all’interno dello Stato democratico. In una parola: soggetto della democrazia. Presto però si è scoperto che il soggetto democratico che scriveva poesie o che colorava le tele o che scriveva i romanzi del nostro tempo altri non era che un complemento ideologizzato del «globale», insomma, che il «locale» altri non era che il riflesso (feticizzato) del «globale» Così, nell’agone democratico, al conflitto degli impulsi mimetici della sfera artistica corrisponderebbe l’ideologizzazione inconsapevole dell’estetico. In una parola, il trionfo del soggetto empirico ha il suo portato e il suo sostrato nel fenomeno della de-fondamentalizzazione del soggetto (e la sua morte trascendentale) e nella disartizzazione dell’arte; cioè, l’esistenza non ha più il suo luogo «trascendentale» ma in compenso ha i suoi soggetti empirici con i loro luoghi empirici e perimetrabili moltiplicabili all’infinito. Di qui una certa patina di esistenzialismo che si avverte nella narrativa e nella poesia contemporanee. E la poesia obbedisce supinamente a tale quadro di sproblematizzazione del «reale».

C’è da chiedersi come la poesia contemporanea possa replicare a tale contesto di sproblematizzazione del «reale»; c’è da chiedersi con che specie di «reale» l’arte moderna pensa di avere a che fare. A me pare che il libro di poesia di Raffaele Piazza abbia messo in campo un demoltiplicatore del «poetico», o meglio, un «riduttore» del poetico e che ciò sia il riflesso di quelle enormi forze motrici che hanno messo in campo un demoltiplicatore dell’estetico in tutti i campi e in tutti gli aspetti del «reale» tramite la diffusione dell’estetico dall’architettura e dal design alle pareti dell’anima (se così possiamo dire), nel privato e nella privacy demoltiplicata e manifesta alla piena luce dei neon alogeni.

Direi che con la demoltiplicazione del «soggetto» siamo giunti a ridosso del «nuovo» soggetto empirico, della ottimizzazione delle risorse umane nelle moderne economie a capitalizzazione del lavoro salariato.

Nella stragrande maggioranza dei romanzi e delle poesie contemporanee (anche di autori ritenuti del massimo rilievo!) appare evidente che i risultati di una tale demoltiplicazione non potevano essere diversi: il trionfo del minimalismo e della micrologia. L’ultimo libro di Milo De Angelis Quell’andarsene per il buio dei cortili (Milano, Mondadori 2010) ne è un esempio invulnerabile. Ma se il minimalismo (venato di un candido aproblematico e aproteico autologismo) è il portato di una potente vento di sproblematizzazione, ciò non toglie che vi sia anche chi opera, all’incontrario, per la via di una problematizzazione di ciò che la cultura della giustificazione aveva derubricato come irrilevante e minoritaria.

Nel mondo della democrazia del globale mediatizzato corrisponderebbe così la democrazia del minimalismo e dei soggetti empirici. L’autologia è dunque l’involucro del soggetto empirico, il genere oggi prevalente nella narrativa e nella poesia, dove l’io si autocelebra sull’altare del «privato» opportunamente scisso e deturpato negli esiti più intelligenti in una galleria di situazioni e di maschere, in una liturgia con un linguaggio liturgico.

Nel libro di Raffaele Piazza Del sognato (Milano, La Vita Felice, 2009) c’è il personaggio della ragazza Alessia fotografato e visto come in radiografia, in un acquario, tra il sogno e la veglia, tutta una gamma di rifrangenze del ricordo e del sogno: c’è il «rossetto di Alessia», Alessia «è nuda nell’estate nella macchina», «non vuole avere un bambino», «le mutandine di Alessia 1998» etc., tutto un repertorio e una fantasmagoria di temi e di spunti che Piazza sa trattare con grande esperienza. Uno stile emulsionato e gentile, frutto di tatto, di sapienza e di accortezza e di fugacità.

L’autologia di Raffaele Piazza (l’autore è nato nel 1963) è un libro «esemplare» ed emblematico della generazione che non ha mai saputo di essere una generazione, che ha avuto sì pessimi maestri, sì, e pessimi istrioni anche, una generazione alla quale nessuno mai ha consegnato il testimone della poesia critica di un Fortini e di un Angelo Maria Ripellino, della disperazione esistenziale di una Helle Busacca. In una parola, la generazione che è passata improvvisamente e nel breve volgere di tempo dalla società del benessere a quella della stagnazione è quella che è rimasta priva della generazione di riferimento. Così, è capitato che dopo la «generazione invisibile» (alla quale appartengo anch’io, Giuseppe Pedota, Giorgia Stecher, Maria Marchesi, Maria Rosaria Madonna, Roberto Bertoldo, Laura Canciani etc.), quella nata negli anni Sessanta e Settanta sia stata la «generazione inconsapevole», che si è perduta senza neanche sapere di esserlo…

A questa «generazione perduta», e a Raffaele Piazza in particolare, che è tra i più dotati della sua generazione, io mi sento di rivolgere un accorato monito: ritornare indietro alla problematizzazione di tutto ciò che la cultura egemone aveva sproblematizzato, fare marcia indietro, innestare una potente retromarcia, se si vuole in qualche modo incidere e lasciare una potente traccia ma all’incontrario. «Contropelo rispetto al mondo» come scriveva Mandel’stam nei lontani anni Dieci del Novecento. Ricominciare daccapo, ma dalla tradizione critica della poesia del tardo Novecento. Abbandonare la lezione del minimalismo e del micrologismo.

Per una poetessa della medesima generazione di Piazza, Letizia Leone (Carte sanitarie – 2008), l’interrogazione allestita dall’autore sul «sanitario», che si sviluppa mediante una struttura proposizionale asseverativa (un tono assertorio-ruminante), non conduce ad alcuna relazione privilegiata con l’Essere, come avveniva nella poesia lirica a soggetto monologante, ma ad una modalità di indagine-accerchiamento della tematica base della «malattia» quale condizione durevole del «contro-reale» allestito a palcoscenico del «visibile»:

È una storia di lettere scritte al buio

con inchiostro pregiato

stillato dalle blatte.

Non sono bestie luminose gli scarafaggi

ma nero che scintilla

per chi si è aperto un luogo

nella bellezza delle tenebre.

Vorrei segnalare in questa sede una poetessa della generazione precedente, che fa una poesia apparentemente avulsa dall’attualità e dal «privato», che non pesca nella «cronaca» e nel «quotidiano», insomma, che fa una poesia diversa, Lidia Are Caverni Colori d’alba (Cosenza, Orizzonti Meridionali, 2010). Poesia placentale, immersa in uno stato amniotico, larvale, resurrezionale tenuta insieme all’imperfetto, un tempo che indica una sospensione memoriale e una sospensione spazio-temporale di motilità più che di moti, di inazioni più che di azioni configurate e scandite. Severo nella sua versione antimoderna il discorso poetico della Are Caverni è tutto inscritto nell’ombra della caverna platonica dove vigono e vivono presenze larvali ed essenze iperuraniche immerse in una zona di albedini umbratili refrattarie alla struttura della coscienza e della Storia, tese alla felicità compossibile e impossibile, ad uno stato di verginità impossibile come un’utopia. Poesia dell’utopia e del sogno, dunque, refrattaria all’ordinamento della punteggiatura e al discorso logico articolato secondo una sequenza di proposizioni collegate e subordinate; poesia orizzontale di dulcedini smaltate che reca in sé, nel risvolto ctonio e sorgivo, una estraneità totale al «mondo» e alle contaminazioni della Storia. In tal senso poesia catafratta come dentro ad una testuggine stilistica che si chiude nel proprio alveo, con un sentore di ferinità e di albedini.

16 comments

  1. alessandra paganardi ha detto:

    Appartengo alla “generazione inconsapevole” come meglio non si potrebbe, essendo coetanea di Piazza.Ho cercato di raccontare in poesia il mancato passaggio, per la mia generazione,del testimone critico e anche di quello politico: l’ho fatto nel poemetto 1978, che appartiene al libro “Tempo reale”, Joker 2008, ma che si trova da qualche parte anche in rete, per chi non abbia il libro e non abbia voglia di comperarlo.Credo di aver parlato di questo abbastanza spesso a Linguaglossa: non so se il mio racconto poetico, nonostante le intenzioni, risulta micrologico o infettato di minimalismo. Certamente è il modo migliore in cui mi riesce di dirlo, molto più che con argomentazioni in prosa. Mi piacerebbe riparlarne con Linguaglossa per primo, poi con altri. Posso soltanto dire per ora che, pur nella mia generazionale inconsapevolezza, condivido.

  2. Giorgio Linguaglossa ha detto:

    Alla cara Alessandra Paganardi rispondo che «la generazione perduta» alla quale appartengono lei stessa, Piazza, Faraòn Meteòses… e i nati negli anni Sessanta-Settanta, non si è mai accorta che è stata subalterna a quella pratica del «de-moltipicatore», quella pratica dei linguaggi da «superficie», quella pratica del «micrologismo» che ha condotto la poesia italiana sull’orlo del collasso. Se Berardinelli può dire che è più difficile scrivere un articolo di giornale che una poesia, noi dobbiamo ammettere che ha ragione, se il pubblico ha abbandonato la cosa chiamata poesia, noi dobbiamo ammettere che ha ragione: la crisi della poesia ormai è sotto i nostri occhi e la «generazione perduta» deve ad ogni costo «ritrovarsi», ritrovare il bandolo della matassa che è stato smarrito… diversamente, quella generazione che sta per affacciarsi sulla scena di quella cosa chiamata poesia continuerà a girare a vuoto nel vuoto pneumatico… e già se ne vedono i risultati…
    Un saluto, dal mio Ufficio in Trastevere, Giorgio Linguaglossa

  3. Lorenzo Pezzato ha detto:

    “La moltiplicazione delle piccole narrazioni in una miriade di racconti miniaturizzati” è esattamente il segnale della ripresa di consapevolezza di quella che definite “generazione perduta”.
    Anzi, direi di più.
    Direi che la miniaturizzazione è stata anticipatrice del mondo sociale che ritroviamo oggi, in pieno XXI° secolo.
    Basta guardarsi attorno e riconoscere i fenomeni del citizen-journalism (Io-reporter), delle tv di quartiere, della nascita di miriadi di comitati paesani per il raggiungimento di determinati scopi (impedire l’installazione di antenne per la telefonia, contrattare i percorsi di opere pubbliche impattanti, salvaguardare gli alberi che abbelliscono una via), riflettere approfonditamente sulla genesi del termine glocal, tanto per fare solo alcuni esempi.
    La miniaturizzazione è andata di pari passo con l’aumentare della coscienza del soggetto singolo, del suo ruolo come nodo di una rete di relazioni, di sentimenti, di interessi e interazioni in cui la centralità della visione personale è acclarata, è imprescindibile. Condividere contenuti sul web –dove spessissimo il numero di caratteri a disposizione è limitato- certamente favorisce l’estremizzazione miniaturizzante e l’aumento esponenziale della produzione, anche quando l’attenzione si focalizza sulla produzione poetica (o letteraria in genere). Le nuove tecnologie per la comunicazione stanno regalando a chicchessia una porzione di palcoscenico, un po’ quello che è successo con Youtube che ha “inventato” la possibilità di capire il mondo attraverso palinsesti non preconfezionati dove i percorsi sono personalissimi e non guidati, non tracciati, tutti da inventare secondo discrezione, dove temi e argomenti si allacciano l’un l’altro in un continuum pressoché infinito.
    De Chirico non ha inventato la metafisica, l’ha assorbita e tradotta in linguaggio pittorico prima che ne fosse visibile ad altri l’esistenza, con questo dimostrando una volta di più che l’arte è capace di stare un passo avanti alla comprensione media del mondo nel tempo in cui nasce e si sviluppa. Così la miniaturizzazione (che non è minimalismo) è stata –ed è- un passo avanti ai fenomeni di cui si diceva.
    Chiaro, questo non ha nulla a che vedere con la qualità delle narrazioni miniaturizzate su cui ci si può confrontare e su cui si può discutere –come per De Chirico, ci si preoccuperà di andare a capire chi e in che modo rappresenta anche la qualità- ma i contorni del sistema sono chiari e sono contorni dinamici, non confini statici. Non vedo, comunque, sproblematizzazione del reale, vedo moltiplicazione della problematizzazione del reale, impossibilità di ricondurre ad unum con una semplicità riassuntiva verticale, verticistica, impossibilità di delegare la rappresentazione poetica ad una ristretta cerchia.
    L’esistenza non ha più il suo luogo trascendentale, è vero, in compenso ha guadagnato un numero illimitato di nuovi punti di vista. E non è proprio un male, dal momento che il passato ci insegna che quasi sempre quel luogo trascendentale si è poi velocemente tramutato in luogo ideologico, in ideologia imperante che commissiona e castra le difformità.
    Per un link con i recentissimi fatti socio-politici, basti pensare quanto il racconto miniaturizzato su Twitter stia contribuendo a dare energia all’onda di cambiamento in medio oriente. Se oggi concretamente vediamo questi fenomeni è anche grazie alla visione astratta che del presente ha dato la “generazione perduta”, che forse si è perduta un attimo nel drastico cambio di passo della contemporaneità dopo le esplosioni degli anni ’70, ma che oggi è perfettamente padrona dei mezzi, degli argomenti e degli strumenti.
    Sono nato un decennio dopo Alessandra, quindi mi ritengo appartenente alla generazione successiva, e pur notando l’immanenza di una certa diffusa inconsapevolezza generazionale non posso non vedere la macroscopica capacità di essere contemporanei, di vivere cioè in questo tempo e in questo posto, non in uno trascendentale. In questo senso concordo con il fatto che sia più semplice scrivere una poesia che un articolo per un quotidiano, e forse l’allontanamento del pubblico dalla poesia riflette proprio il distacco che si è creato tra la poesia (che vive ancora l’aulico luogo trascendentale) e l’accadere, che viaggia ormai a folle velocità.
    Dagli albori usiamo l’arte per rappresentare e capire il mondo, quando l’arte non riesce più ad avere questo ruolo, quando non riesce più a comunicare, ad anticipare, a generare domande e dubbi, allora è morta. E in questo caso –allora sì- la miniaturizzazione diventerebbe dispersione delle ceneri prodotte dalla combustione della pira funeraria.

    Un caro saluto

    Lorenzo Pezzato

  4. paolo borzi ha detto:

    Tralasciando l’essere nato nel novembre 59 e il sentirmi più perduto dei perduti, che almeno sono ottimi e ben schierati… ma la cosa interessa poco e sto pure scherzando…

    … credo che l’osservazione sulle piccole narrazioni come fonti di soggettività dotate di maggiori strumenti tecnici e minori fardelli ideologici, sia sostanzialmente valida.

    Il discorso vorrei metterlo così: lo sarebbe forse ancor di più se la poesia avesse contratto per “distillazione” anziché escluso per supposta “purificazione” i grandiosi lasciti tardo moderni in materia di narrativa, critica sociale, cinematografia, etno-antrolopologia… mi pare che per lo più ci si è dedicati a distillare la sola semiologia e-o “purificare” ignorando il resto.

    Per i lasciti di cui sopra posso citare quelli di Pasolini, Sciacia, Ernesto de Martino, Italo Calvino, di Fortini è già stato detto ed il fatto che ce ne siano molti altri rafforza ulteriormente il punto di vista.

    Se tale concentrazione per “ditillazione” (di altri e mirati “saperi altri”), anziché “esclusione purificativa” avesse forse preso più piede, gli strumenti “micrologici ultrasoggettivistici” della c.d. “postmodernità”, che nessuno rifiuta in sè, avrebbero forse immunizzato una pulsione alla frammentazione sterile (per non dire violenta e nevrotica) delle coscienze, a cui pure una dittatoria “unificazione dall’esterno” si accosta volentieri (o tale minaccia è solo abbaglio?)… Tale possibilità, paventata almeno come rischio,dovrebbe allertare anche i più volenterosi ottimisti, e portarli a guardarsi un po’ indietro come suggerisce Giorgio, per provare almeno ad “integrare” certo PRIMA a questo DOPO.

    Sono lieto che ai più giovani non compaia la visuale più sconsolata dei più vecchi, facili a sentirsi feriti da un vuoto atomizzante aggressivo impaziente e volgare: che evidentemente è solo nella loro avvizzita e rimbabina sensibilità (me lo auguro sinceramente).
    cari saluti
    paolo

  5. Franco Romanò ha detto:

    L’osservazione di Lorenzo Pezzato sulle piccole narrazioni la condivido anch’io se parliamo di racconti che hanno cercato di sfuggire alla deriva delle narrazioni di intrattenimento più o meno intelligenti. Tuttavia quello che mi sembra più gratuito è sostenere che non sono più possibiili le grandi narrazioni, sia in poesia sia in prosa. Sono impossibili solo se si sposa l’ideologia, promossa da Rimbaud e fatta propria dalle avanguardie, che essere moderni ed essere poeti sono due cose incompatibili e ancora di più lo sono se a moderno sostituiamo postmoderno. Se poi si aggiunge Niestche a tutto questo il gioco è dì fatto. Se si pensa però agli autori indicati da paolo Borzi (seppure su Calvino io abbia le mie riserve), e se ne aggiungono altri come Pavese, D’arrigo e Fenoglio ci si può rendere conto che costoro scrivevano e porducevano grandi narrazioni quando da molti anni si diceva che non sarebbe stato più possibile. Negli anni’60 una seconda ondata di chierici ha preteso di piegarci che questo non era più possibile (narrare), quell’altro neppure ecc. ecc. No, non è così, a parte il fatto che nei paesi dove la modernità ha assunto prima che da noi gli aspetti abnormi che conosciamo, le grandi narrazioni sono pane quotidiano: si pensi a Cormac McCarthy oppure al compianto david Forster Wallace. e’ che per scrivere grandi narrazioni bisogna fare la fatica di conoscere la storia, di allontanarsi dal proprio ombelico e tante altre cose ancora, per esempio capire un po’ meglio in che mondo si vive, sapere intrecciare informazioni e suggestioni diverse come diceva Pasolini, sapere stabilire le relazioni fra le cose e gli eventi, avendo come scopo la ricerca della verià. Per lui questo era il solo modo di fare onestamente l’intellettuale. Penso che se si ha la volontà e la forza di fare questo di cose da narrare lungamente ce n’è a camionate.

  6. paolo borzi ha detto:

    L’intervento di Romanò, insieme a quello che ha aperto il confronto, denota come senza la generazione dei sessantenni siamo fottuti.

    Fortunatamente, adesso, con le nuove tecnologie le posizioni sovra esposte, che non sono state per niente assimilate, possono avere pari dignità tra milioni di altre, alla pari… cosa che prima era più difficile, essendosi praticamente interrotto in un baratro quell’ “abbozzo di rinascimento” del più maturo dopoguerra, prima che desse frutti ulteriori, nuovissimi e progressivi, che con il buon aiuto della tecnologia ri-possiamo, formichin formichina, immagazzinare e ricoltivare.

    Non appena però un ottica perennamente neofuturista accenna al fatto che tali tesi siano meno attuali di altre, che ostacolino il progresso, che solo una certa maniera di smanettare le tastiere e “comunicare” sia più tirante e “adeguata ai tempi”, mi confermo nell’dea che un sobcosncio autoritarismo muova persino gli animi più sensibili e accorti di chi vuole collocorsi “il più in avanti possibile”; già col fatto di mostrare di tenere ferree topografie a riguardo.

    Circa Calvino, Franco, l’esempio era mirato a una “contiguità” stretta con le problematiche poetiche, per niente assimilate e finalmente, rilanciabili, benedette le nuove tecnologie, in materia di “volk kultur”… non mi addentro nella faccenda che normalmente si dia per scontato che la poesia non debba essere “popolare”, senza accettare l’ovvia conseguenza che sia impopolare… cosa c’entri Calvino, e cosa i nuovi media che vanno avanti mentre i meno nuovi sono determinanti in chi decide che ci governa… non posso “intasare” con troppi offtopic, o meglio, cenni non inadeguati al dibattito ma che sconsigliano di fare dei saggi in questi riquadrini.

    Dico che per la Musica, anche grazie alle Nuove Tecnologie, stanno fiorendo molti autori ed edichette indipendenti, ed Oliviero Beha, non Bondi, sta parlando a riguardo di nuova (ipotesi di) cultura popolare.

    Bene, farò in modo che i lasciti dei ragazzi degli anni 40 (per limitarmi ad alcuni miei amici) entrino sempre di più e meglio in questa faccenda… Mai come chi sta più avanti ancora, ci mancherebbe… non chiedetemi troppo, per fottuti due mesi sono nato anch’io in un decennio disgaziatissimo.
    un abbraccio a tutti e grazie per queste magnifiche pagine
    paolo

  7. Franco Romanò ha detto:

    Mi sono riletto tutto prima di intervenire di nuovo a seguito di questo intervento di Paolo, assai denso, anche perchè mi era venuto il dubbio che alle due di notte non sempre si è lucidi. No, ribadisco quanto detto prima, ma solo aggiungo due cose che questo intervento suscitano in me. Sì ben vengano le nuove teconologie quando servono a rimettere in circolo su un piano di parità almeno in partenza quanto è stato dimenticato dalla grossa editoria e altro. I lettori possono possono giudicare; in questo senso la rete è un modo di sparigliare i giochi, di rompere lo schema di gruppi e gruppetti. Siti di dibattito come questo e altri pemettono proprio questo. Sono invece scettico, come mi sembra lo sei anche tu Paolo, sulla velocità, tormentone del secolo scorso. Preferisco Woody Allen che dice fatemi scendere. Essere contemporanei non vuole dire andare dietro a ogni nuova invenzione. Credo fosse la Cvetaieva che distingueva fra l’essere contemporanei e l’essere attuali, anzi forse diceva proprio che bisogna essere contemporanei e inattuali; ma qui forse può soccorrermi meglio Alessandra. Sarei molto cauto a pensare che in medio oriente i telefonini e internet abbiano avuto tutto questo ruolo; forse ne hanno avuto di più le televisioni come Al-jazira e Al-Arabia, che sono pur sempre mezzi tradizionali rispetto alle diavolerie come Twitter (non so cosa sia e ne sono ben felice) e altro. Quando si saprà qualcosa di più del ruolo preparatorio che altri e ben più antichi strumenti hanno avito nella preparazione di queste insurrezioni, almeno per quanto riguarda la Libia, forse ci si renderà conto che le cose non sono così semplici.

  8. Giorgio Linguaglossa ha detto:

    Cari amici,
    vi pregherei di ricominciare a pensare il centro del problema e non dalla periferia: ho usato la terminologia “generazione perduta” nel senso in cui la usava Mandel’stam quando parlava del pericolo incombente per la poesia russa dopo l’avvento del leninismo e dello stalinismo che aveva, di fatto, tagliato i ponti a una generazione di poeti: gli acmeisti, Clébnikov, etc… per cui quella successiva si sarebbe trovata senza il riferimento (positivo o negativo) della precedente generazione. La cultura, diceva Mandel’stam, è come una massa monetaria, è viva ed efficace quando passa di mano in mano; soltanto così diventa una forza viva ed efficace. Ma quando una intera generazione viene tacitata, quando si stende un lenzuolo di silenzio sul passato… allora non c’è più futuro, e chi viene dopo è una persona che non ha più nulla e nessuno dietro di sé… Io appartengo alla cosiddetta “generazione invisibile”, cioè quella generazione che non ha trovato sbocchi nella grande editoria, la generazione che è stata silenziosamente imbavagliata. Ora, di fatto, internet mi dà la possibilità di parlare alla “generazione perduta” per avvertirla che ha avuto pessimi paestri, per incitarla a scuotersi, a riconoscere i pessimi maestri e a gettarli dalla finestra, di ricominciare daccapo a partire da Ripellino, Lorenzo Calogero (ma chi l’ha letto?) da Fortini, da Helle Busacca (ma chi è?)… da Maria rosaria Madonna (ma chi è?) da Maria Marchesi (ma chi è?), ricominciare a scrivere la nostra storia…

  9. adam ha detto:

    Mentre ringrazio tutti gli intervenuti in questo spazio di scambi e approfondimenti, ritengo focale l’ultimo invito fatto da Giorgio. Anch’io appartengo alla “generazione invisibile”, che ha ripercorso sì quanto e chi l’ha preceduta, ma non è riuscita a sanare il salto di un distacco consumato già dalla generazione precedente, sia con noi sopravvenuti, sia soprattutto col pubblico potenziale. La neoavanguardia e no (tranne appunto casi da riprendere criticamente) hanno predicato (più o meno bene) ma spesso, su tutte le sponde, razzolato male, cioè secondo logiche di potere. Logiche accentuate anche dal fatto suddetto di una crescente riduzione di pubblico. Esaltare il significante, riducendo il valore della transitività e della significazione, ha spinto il fare letterario ad arrotolarsi in sé e quindi all’arroccamento autoreferenziale e separato. Il salto e il taglio ha coinvolto anche chi è venuto dopo, rimasto su un ciglio poco o nulla coinvolto e schiaffegiato da una vitale circolazione. Chi come me ha cercato di porre la questione di una rinnovata ricerca di senso sociale e civile (con scambi e un pubblico pur ridotto) veniva facilmente visto come un rozzo nostalgico di impegno d’antan…meglio continuare ad agitarsi in un specchio appartato quanto affollato e ininfluente, d’acqua stagnante… siamo in effetti a una sorta di anno zero, che richiede coraggio ed energie immani…
    Auguri a tutti
    Adam

  10. Francesca Tuscano ha detto:

    In “una generazione che ha dissipato i suoi poeti”, Roman Jakobson scrive della sua generazione, quella che negli anni Venti aveva ‘liquidato’ Chlebnikov, Majakovskij, Mandel’shtam, Pasternak, Cvetaeva, Achmatova e molti altri – poeti ‘abbandonati’, suicidi, uccisi, o uccisi ‘nelle loro funzioni’. Poteva accadere, durante e subito dopo una rivoluzione di dimensioni enormi. Era il prezzo che si doveva pagare, forse, per aver troppo creduto, troppo voluto, troppo lottato, politicamente, esistenzialmente, artisticamente, non distinguendo mai (ma è possibile farlo?) la vita dall’arte, dall’impegno, dalla necessità di giustizia e cambiamento, dal ‘mandato’. Molto tempo dopo, in Italia, finita la stagione del Neorealismo, di fronte ad una società che prendeva irrimediabilmente i tratti che adesso si attribuiscono con troppa superficialità al ‘berlusconismo’, Pasolini e Fortini si interrogavano sul ‘mandato’ del poeta, sulla sua fine. O meglio, sulla necessità di reinterpretarlo. In fondo era normale anche in quel caso che, dopo una stagione ‘eroica’, si dovessero fare i conti con i vincitori e i vinti. Ma oggi, la fine del ‘mandato’, la sparizione di fatto di una generazione di intellettuali, è la conseguenza di una realtà di orrenda sottomissione al Potere (che mi ostino, pasolinianamente, a scrivere con la maiuscola), innanzitutto economico (ma anche questa non è certo una novità), che poco ha a che fare con l’eroismo e la tragedia ‘nobile’, e molto a che fare con la mediocrità e la rinuncia, che colpisce tutti, con la stessa trasversalità del Potere (il mercato detta legge a chiunque, a partire da chi si illude di combatterlo, o, peggio ancora da chi fa finta di combatterlo).

    Carissimo Giorgio, dopo aver letto il tuo articolo/recensione su tre poeti della mia generazione (sono nata nel 1964), mi è venuta voglia di uno sfogo di carattere più umano che ‘teorico’ (per questo ti ho scritto innanzitutto privatamente). Sono perfettamente d’accordo sul fatto che la mia generazione sia stata ‘sprecata’, ma in un senso ben preciso, politico. Non a caso, alcuni degli anni Sessanta si sono ben ‘piazzati’ all’interno del Potere, e, in generale, erano i meno dotati. A loro sono andati i riconoscimenti (anche quelli minori), a loro è stata data la parola che agli altri è stata tolta con predeterminazione. Molti di noi, credimi, sono lontani migliaia e migliaia di verste (per rimanere sul suolo natìo di Mandel’shtam) dal minimalismo; hanno sempre vissuto, addirittura con rabbia, il “mandato” (majakovskiano, oltre che fortiniano e pasoliniano), e non solo del poeta, dell’artista, ma anche dell’operaio, dell’insegnante, dell’impiegato… Il punto è che, costretta ad una vita precaria – in tutti i sensi del termine – in lotta davvero con la sopravvivenza, personale ed economica, quella parte di noi si è arresa, rispetto ad una lotta che non riusciva ad uscire allo scoperto e ad incidere in alcun modo nella nostra sventurata società. Noi abbiamo combattuto – e combattiamo ancora – più di quanto si veda. Insomma, la nostra non è solo la generazione dei Fazio/Litizzetto (entrambi miei coetanei), che, fingendo l’alterità, si sono ben piazzati nella norma (davvero minimale) dell’Italia contemporanea. E neanche quella degli epigoni del minimalismo, che hanno sostituito all’Amore (in senso majakovskiano, cioè ancora come impegno) per la poesia e l’arte, il narcisismo e l’arrivismo, uccidendo, con la loro stessa presenza, ogni spazio sensato per una scrittura altra.
    Fortini e Ripellino il loro testimone lo hanno passato (e non solo loro), e potrei farti dei nomi, di fatto sconosciuti, di studiosi, ad esempio, che proprio per la lettura di questi poeti e critici hanno cambiato non solo il loro modo di scrivere e studiare (ma sì, usiamo anche questa inutile e desueta parola!), ma di vivere. Peccato che siano ancora più invisibili della generazione a noi precedente, e che il potere che hanno di incidere sia limitato – nel migliore dei casi – alla classe nella quale insegnano (ovviamente, non all’università…). Non prendere queste mie parole per un piangersi addosso – non l’ho mai fatto e non lo farò mai (altrimenti, Ripellino e Pasolini, otre che Fortini, non mi avrebbero insegnato niente, e meno che mai i russi…), ma credo sia arrivato il momento di dire cose che fino ad ora non si ha avuto neanche voglia di dire.

    E, tornando alla letteratura e al ‘minimalismo’ – non è certo l’ ‘oggetto’ presente nella poesia, o la quotidianità, ciò che rende un’opera minimale (sto dicendo una banalità, ovviamente). Il punto è il rapporto che il poeta, l’artista crea tra significato e significante nella rappresentazione di oggetti e quotidianità. Il punto è il renderli ‘segni’. Come ha scritto Majakovskij, parlando di pittura: “Il libero gioco delle facoltà conoscitive è l’unica funzione eterna dell’arte”. Il minimalismo è nella visione politica ed esistenziale (e, dunque, politica) della realtà, dell’umanità. Di questo dobbiamo liberarci, anche per riappropriarci della quotidianità nella poesia, attraverso una lingua ‘che non si accontenti’, e che esprima la libertà (e, dunque, la profondità) del punto di vista, sotto ogni aspetto. Questo, però, significa innanzitutto che i poeti, gli artisti devono essere liberi, felici e fieri della propria unicità, il che non significa chiusura e narcisismo, ma rifiuto a priori di imitazione – ‘per convenienza’, per moda, per piaggeria. E che significa ricerca – continua, esistenziale e artistica. E che significa soprattutto sputare sul mercato, sul denaro, sulla fama (mediocre in un mondo di mediocri). Che significa, infine, cercarsi tra simili per capire se esista ancora un modo che permetta alla barche di non schiantarsi contro la meschinità del banale ripetersi di un quotidiano ormai morto (citazione da Majakovskij, e, non a caso, dal suo biglietto d’addio).

  11. Giorgio Linguaglossa ha detto:

    Caro Raffaele Piazza,

    ho letto la tua antologia (Parole in circuito Roma, Fermenti 2010) e le tue note critiche della prefazione, in particolare là dove si accenna alla moda di oggi che tutti scrivono cosiddette poesie… ma, direi, quanti degli aspiranti poeti inseriti nell’antologia ha il coraggio di impegnarsi seriamente a scrivere un semplice commento in prosa (??)… in tutta sincerità, letti i testi, le mie impressioni non sono affato positive, e le ragioni sono tutte contenute nei miei vari scritti critici. Al di là dei dislivelli stilistici e di consapevolezza che si rinvengono tra i vari autori, il segno generale è quello di un “disarmo” intellettuale tipico dei giorni nostri, e lo stile è un generico stile da stagnazione. Caro Raffaele, la vostra è una generazione che ha perduto i suoi poeti. E le ragioni che hanno condotto a questo risultato stanno sotto i vostri occhi, bisogna soltanto avere il coraggio di esaminarle e trarne le dovute conseguenze. Non ho altro da dire. Una generazione di timidi e di pavidi. E questo lo dico come preambolo e prologo al vero discorso che, per signorilità, ometto di pronunciare.
    In verità, non sono io che dovrei scrivere su di loro ma sono loro che dovrebbero scrivere (e meditare) sugli articoli che (implicitamente) li riguardano e che si possono trovare sul sito di http://www.poliscritture.it (“Appunti sulla generazione perduta”) e, sempre nel medesimo sito, l’altro articolo “Spostare il centro di gravità del discorso poetico”. Lì ho messo per iscritto alcuni assunti di fondo che rivestono un valore generale e paradigmatico… se gli autori proposti nella tua antologia sono davvero intellettualmente e politicamente vivi, sono loro che dovrebbero intervenire, in veste di critici, e non io (che ho già detto quello che avevo da dire). Devono essere loro a prendere la Parola del critico (di aspiranti poeti ce ne sono anche troppi!).

    Un cordiale saluto

    Giorgio Linguaglossa

  12. Gianmario Lucini ha detto:

    Caro Giorgio, il mestiere del critico è quello di interpretare cercando, a suo modo, una verità. E tu lo fai con coscienza. Ma non sono d’accordo su una tua valutazione in particolare, ossia laddove tu affermi che “la vostra è una generazione che ha perduto i suoi poeti” e ancora “Una generazione di timidi e di pavidi”.
    Il fatto per me è molto più complicato e peraltro non riguarda una sola generazione ma ormai oltre cinquant’anni di poesia.
    Io non vorrei liquidare l’argomento con una semplice battuta e un’accusa così pesante (e peraltro da provare) contro “una generazione” (quale?): le cose mi sembrano molto più complicate e vorrei qui soffermarmi soltanto su una variabile – fra le mille che in concausa producono l’effetto di un “degrado” della poesia (che, peraltro, è mia ferma convinzione che essa sia molto meno “degradata” della prosa creativa e persino della saggistica – ma questo è un altro discorso – e sicuramente molto meno degradata della pittura, della scultura, dell’architettura e di molte altre arti, fatta eccezione forse la musica).
    Vorrei significare, con questo, che la crisi non è della poesia, ma di tutte le arti. Nella poesia si manifesta con quanto ci sta sotto gli occhi, ma così è anche per tutte le altre arti. L’origine della crisi sta nella dissoluzione di una concezione estetica, un “canone” estetico bene o male condiviso da tutti, persino dalle avanguardie (che ne sottolineavano l’importanza criticandolo o addirittura negandolo e proclamando l’esigenza di fare “tabula rasa” di ogni concezione della bellezza). Ma se l’origine è quella, la fase acuta della crisi corrisponde invece alla sfiducia nella visione positivista del mondo, quella che implicitamente teneva in vita l’arte nella sua funzione di critica all’intellettualismo e al razionalismo asettico della visione del mondo positivista (e sue derivazioni e sviluppi nel tempo). Con una differenza. Mentre le arti hanno, in un certo senso, una caratteristica strumentalizzabile e riconducibile a una monetizzazione (il vero valore che ha sostituito il valore del canone estetico), per la poesia non accade. Una tela si vende a centimetri quadrati, non sulla base di un giudizio critico che, paradossalmente, si fa sull’artista e non sull’opera (e così tante puttanate e scarabocchi indecenti vengono venduti per la “firma” dell’autore, non per un valore “in sé” come opera). La musica ha comunque un aspetto monetizzabile (il concerto, ecc. ecc.) perché è considerata un’arte che sta a metà strada fra il divertinemto e il relax e qualcosa di più impegnativo (una specie di “vacanza intelligente” del pensiero). E così le altre arti, ma non la poesia. Non riesci a ricondurla a un valore riconosciuto da tutti (ossia il danaro, l’unico che conti, oggi) mentre tutti hanno ormai perduto il valore di riferimento estetico condiviso di cui si diceva.
    I poeti soffrono di questa condizione, non tanto perché sono dei narcisi imperdonabili che vogliono essere letti e applauditi, ma perché non hanno più un ruolo e, di conseguenza, un’identità sociale.
    Sappiamo che cos’era il ruolo del poeta nella nostra civiltà, a cominciare dalla poesia epica e da Omero sino a, grossomodo, Carducci, D’Annunzio e la generazione dei “vati”, spazzata via dal neorealismo e dalla generazione del dopoguerra che, per un po’ hanno retto e interessato, ma poi sono stati a loro volta spazzati via da una nuova mentalità strumentale indotta dalla cultura industriale: se qualcosa non rende danaro non serve a nulla. Non voglio ripetere l’importanza di questo ruolo nella cultura e nella società.
    La poesia dunque è irriducibile alla strumentalizzazione e, laddove accade (spesso purtroppo, e rammento qui tutte le bordate che molti di noi hanno sparato sulla grande editoria ad esempio) molto spesso e volentieri si leggono delle enormi puttanate fatte passare per cultura e poesia. Cose di fronte alle quali l’innocente antologia di Piazza sarebbe un peccatuccio veniale – e almeno ha il pregio di mettersi in gioco da posizioni inermi, senza l’apparato militaresco di una critica venduta che spara osanna a qualsiasi scemenza purché abbia una “firma”.
    La poesia non serve a niente e non serve a nessuno: questa è la sua condizione esistenziale. E io dico che finalmente la poesia ha trovato questa sua dimensione, mai conosciuta nei secoli, questo totale distacco da un pensiero dominante. Certo, questo pone degli enormi problemi, non di riadattamento della poesia alle logiche (monetarie) ora dominanti, ma per il fatto che essa, da sola, si trova fuori dal coro del consenso – e non è facile stare fuori dal coro, perché vieni considerato “deviante”. Il deviante è infatti colui che non accetta le regole del sociale e non obbedisce alle convenzioni, più che alle norme o alle leggi.
    Siamo insomma in un periodo nel quale il poeta avverte la necessità di ritrovare il suo ruolo di interprete della società e, vedendo la compromissione di questo ruolo, cerca un modo qualsiasi per ritrovare il suo uditorio, il suo pubblico. La poesia è infatti comunicazione ma se uno continua a parlare e nessuno l’ascolta, cerca delle strategie, si compromette pure, addirittura arriva a negare se stesso pur di farsi ascoltare. Non è giusto ma è comprensibile.
    Ora, dal versante critico, facciamo certo bene a dire che i poeti devono avere ”più palle” per uscire da questa (che è una crisi essenzialmente di senso, comune a tutte le arti e non solo alle arti), abbiamo ragione a sferzare, a stimolare, ma non possiamo buttare addosso ai poeti responsabilità delle quali essi non hanno colpa (nessuno ce l’ha: neppure la filosofia che ha provocato questo sovvertimento valoriale, per certi versi – ma non poteva fare diversamente – e neppure la scienza o la tecnica o l’economia, che a loro volta non rispondono a criteri razionali – come ci si aspetterebbe – ma a tutt’altre logiche).
    E dunque, chiedere oggi una poesia capace di trovare ancora uno spazio di comunicazione all’interno della società, significa chiedere una vera e propria rivoluzione, che non può essere fatta dalla sola poesia.
    Io suggerirei che il ragionamento va invertito: non è una categoria di persone che deve portarsi addosso il peso di essere i “guru” della congiuntura storica, ma è ognuno di noi che deve fare in suo mestiere, bene, nel campo di sua competenza (dall’elettrauto, all’impiegato, all’insegnante, ecc.) e che la poesia faccia il suo lavoro. Se la poesia si metterà in comunicazione con quella società che vuole fare bene il suo lavoro, essa stessa lo farà bene e troverà consenso, si emenderà da sola nella comunicazione con chi si emenda da solo e cerca, oltre al danaro, qualcosa che si chiama giustizia, bellezza, reciprocità, solidarietà, rispetto, ecologia, ecc. ecc. E sarà la poesia di questi valori di riferimento. Se invece cerca una forma ideale e dall’alto “dirsi” pretendendo di comunicare, e magari cercando di fare l’occhiolino, di fare la puttannella, allora sarà sempre la poesia invisibile di oggi.
    Ciao
    Gianmario

    Ballata avvelenata

    Vanità di libri e di parole stipate
    senza grazia sugli scaffali dei miei anni
    strette l’una all’altra senza interstizi
    vuoti di pace e di silenzio. Nodi

    che il tempo non scioglie, vi trovo
    ammasso di carta e ciarpame
    vanità dei secoli di secoli
    da bruciare o lasciare a chi rimane.

    Vanità di poeti e di poesia
    in una grazia di vocali e consonanti
    vanità di un mondo che non sente
    non vede e non è visto dalla gente

    il tempo lo consacra alla follia
    nel mondo parallelo, tollerato,
    che chiamano bellezza, che svanisce
    al rivelarsi opaco della vita.

    Poeti della grazia e dell’amore
    prostrati da un dolore tutto vostro
    come l’erba dei fossi, senza nerbo
    vi lasciate alla corrente dei gregari

    – così cari ai concorsi letterari -,
    né il dolore del mondo vi rattrista
    e ancor meno v’indigna o vi fuorvia
    dal riscrivere poesia di poesia.

    L’amore è un sentire inesprimibile
    nel mascheramento della circostanza
    l’amore in poesia è merce e scambio
    parole per parole e inizia la danza

    del banale ridetto e del vero che si tace
    perché questo vuol sentire il lettore
    o il critico – che ha paura dell’amore
    vero che vivendo si rivela -.

    Poeti dell’amore, noi che sopravviviamo
    oltre la soglia dell’angoscia quotidiana
    bene sappiamo il senso del dolore, quello vero
    che opprime il respiro e chiude gli orizzonti,

    poeta dell’amore siamo in tanti
    e non ci importa del tuo deliquio borghese
    siamo alle prese con qualcosa di più serio
    tipo star vivi e sbarcare il lunario.

    Poeta dell’amore, tu non parli mai di guerra
    e la guerra infiamma e opprime il creato
    ma nei tuoi versi la natura è un rigoglio
    di vita, colori, perfezione e ti sfugge

    lo scempio del pianeta, i veleni, lo spreco
    di ogni bene in nome del progresso.
    Poeta dell’amore a te sfugge il nesso
    fra bellezza e verità: il tuo verso è osceno.

    E voi poeti del silenzio che parlate e parlate
    vi circondate di un’aura mistica e solenne
    jeratica assenza di senso e di non senso
    presenza del niente che invana se stesso

    non avete ancora udito cantare la sua voce
    che scroscia potente come cento cascate?
    Apritevi al silenzio di deserti e di metropoli
    dove la notte geme e il giorno non ha pace.

    Il vero silenzio è popolato di voci
    che puoi intendere soltanto se taci
    e ascolti pulsare il sangue
    del pianeta il suo respiro, i sospiri

    dei condannati e il fruscio dei passi
    dei poveri, il loro incedere lento
    dove tutto si muove orribilmente
    verso una suprema, immane catarsi

    Il vero silenzio si ribella alla parola
    brusio del tempo, la ricusa, la riusa
    e la getta, la violenta, la riplasma
    nell’orizzonte d’un dolore sconosciuto

    dove il mondo si smarrisce e reclama
    i suoi cantori, gli eroi e occhi,
    voci che narrino le ultime gesta
    dell’umano che muore fra le chiacchiere.

    E voi, poeti della forma che vestite
    di vesti nuove questa laida megera
    poesia, per adorarla, bramarla sempre
    come si brama una dea adolescente

    voi che fate all’amore con la musica
    parole sfatte, usate a troppi letti
    e ai molti servigi resi al potere
    col molto scrivere senza nulla dire;

    il foglio bianco vi trova nel disagio,
    di fronte a lui vi sentite come Adamo
    nudo innanzi a Dio – inermi, arroganti –
    non trovate parole, ma solo costrutti

    perfetti e innalzate nuove Babele
    di simboli che alludono a se stessi
    – mondo che non è mondo ma follia
    delirio calcolato della fantasia -.

    E voi avanguardisti e rivoluzionari
    che tutto distruggete per ricostruire
    nulla dal nulla e rompicapi borghesi
    voi che cercate il senso del verso

    nel suo contrario e consacrate effimeri
    idoli nuovi al surplus d’una cultura
    incapace di scegliere la vita,
    di ogni delirio voi siete il peggiore.

    Termino qui il mio poemetto alla deriva
    di un sentimento di collera e impotenza.
    Molto avrei da dire ma è inutile che scriva
    il resoconto della collettiva demenza

    chiamata poesia: non c’è verbo, non c’è via
    che ci conduca fuori dalla palude
    della nostra stessa ignavia, che prelude
    all’orizzonte piatto del niente d’oro

    dove canteremo fino a sfinire
    coi versi più servili la follia del potere.

  13. Giorgio Linguaglossa ha detto:

    Cari amici,
    è bene dire alcune cose con la massima chiarezza, scanso di equivoci, per i più giovani che ci ascoltano e per le persone distratte. pochi punti e brevi notazioni:

    1) c’è sì una responsabilità della scrittura, e un autore che scrive poesie (o un romanzo) dovrebbe essere il depositario di questa responsabilità;
    2)non è vero che la poesia sia «inutile» e che «non cambia il mondo»; è vero (in termini marxisti) il contrario: la poesia è un «valore» che non conosce la de-valorizzazione del mondo delle merci;
    3) la poesia è sì oggi, nelle condizioni del mercato, una merce, ma una «merce» di tipo particolare che, dinanzi alla de-valorizzazione indotta dal mercato reagisce con un processo di «auto valorizzazione»;
    4) la poesia (l’arte in generale) è il prodotto di un «rapporto sociale», è «prodotto socializzato» di «esperienze socializzate»;
    5) occorre distinguere il concetto di «comunicazione» del piano dei rapporti sociali dalla «socializzazione» che riguarda il piano artistico;
    6)e vi chiedo: occorre davvero porre la poesia entro la visione nostalgico-restauratrice delle poetiche epigoniche del minimalismo e del microligosmo?
    7)e vi chiedo: occorre prendere atto che la dissoluzione del «canone» nel tardo Novecento coincide con l’avvento della «democrazia pluralista» del villaggio mediatico e che la poesia micrologista dei giorni nostri (che si occupa dei fatti di ciascuno, del proprio dominio privato e dei rapporti familistici), è davvero la controfigura della poesia;
    8) infine, un augurio: occorre il coraggio di fare una poesia (politicamente ed esteticamente) scorretta, che sia indigesta in primo luogo alla comunità dei letterati, al conformismo delle posizioni di rendita e che sappia distinguere la propria solitudine dal solipsismo delle scritture narcisistiche.

  14. Gianmario Lucini ha detto:

    Beh, vediamo di chiarire le rispettive concezioni (le parole, se non altro).
    1)la responsabilità (respondeo) è un fatto anche sociale quando risponde a logiche culturali condivise. La chiave è sempre la condivisione di un orizzonte, sia privatamente che socialmente. Senza questa condivisione (almeno di massima) su criteri di valore, non posso appellarmi a nessuna responsabilità, perché rispondo solo a me stesso. Ma parlo anche da solo, è ovvio (così infatti è in molta poesia). Sta a me dunque decidere a chi “rispondere” della mia scrittura, a quale logica, a quale orizzonte valoriale fra i mille disponibili. O a quali persone singole che “socializzano” in questo orizzonte. O viceversa: sta a me costruire, con altri, un orizzonte di condivisione del quale mi sento “responsabile”.
    2) La “inutilità” della poesia non è da me evocata in questo senso, ma nel senso di “non strumentabilità”. Ed è un vincolo ferreo, che salvaguarda la libertà della poesia, la sua “purezza” o la sua “verità”. La poesia non serve a niente (“pesata” con il valore oggi dominante) e non serve nessuno in particolare – casomai la società nel suo complesso, ma indirettamente, ossia se la società e capace di “servirsene”. La poesia strumentale è quella che si scrive (è utile per)per uno scopo, anche individuale, che è quello di autogratificazione e acquisizione di potere (anche in modo figurato, non solo di danaro e prestigio) in un orizzonte culturale riconducibile alla mercificazione del tutto. Il poeta è viziato nella sostanza se non lascia questa idea di poesia, che è idea di affermazione del proprio narciso. Deve staccarsi dalla sua poesia, partorirla e lasciarla vivere, non identificarsi con essa – anche se dentro questa c’è la sua vita, che però è paradigma, non storia personale (della quale proprio non ce ne può fregare di meno).
    3)la poesia sarà (in parte, spero) anche merce, ma se volessi guadagnare, proprio non ci investirei neppure un euro (lo dico anche,o proprio perché ho iniziato a fare di mestiere l’editore…).
    4) OK, la poesia è un prodotto socializzato, ma questo dipende dal poeta e dalle sue decisioni (e non solo del poeta, ma anche del critico, dell’editore, ecc. ecc.): non è una fatalità… Io non farei distinzione di categorie in questa produzione del prodotto che sta alla valutazione di tutti… Non è responsabilità soltanto del poeta, forse meno responsabile di altri soggetti, in questa vicenda… Il poeta è socializzato (o ri-socializzato, dipende dal modo di vedere le cose)se accetta questa logica e vi si adegua.
    5)Se (una certa) poesia è frutto di una socializzazione (o “risocializzazione”, a mio modo di vedere) significa che viene costretta, da una specie di pressione di conformità, ad una certa logica. Io mi fermerei, nell’intenzione poetica, all’idea di comunicazione “da persona a persona” e francamente, come poeta, me ne sbatto della critica “socializzata” ma non così di che cosa la “persona” ha da dire sul mio atto comunicativo.
    6) su questo punto: non afferro il senso della domanda (retorica. Se il riferimento è a quanto ho detto, direi che siamo fuori tema o non ci siamo capiti
    7) Anche questa domanda mi pare stretta stretta. Che il canoine si sia dissolto, è fuori da ogni dubbio. Che la poesia “micrologista” dei giorni nostri sia la sola poesia, o anche solo il paradigma dominante, proprio non lo penso. Sarà magari quella più stampata e celebrata (dai critici, appunto), ma fra 10 anni (o molto meno) sarà già dissolta nel macero e nessuno si curerà più di lei. Non è una profezia difficile.

  15. Lorenzo Pezzato ha detto:

    Nel XX° secolo la metafisica della parola è stata un prodotto della mancanza di potere della parola.
    Chi ha sentito la voce grossa delle armi e degli eserciti, dei bombardamenti e delle artiglierie non ha potuto opporvi che suoni, ha dovuto estetizzare il frastuono privo di significato, è stato costretto a cercare di nuovo nel linguaggio il senso dell’essere umano.
    Suono e linguaggio simboli dell’uomo, un primitivismo avanguardista come rifugio dalle brutture del mondo, dalla brutalità del mondo. Parole come segni, pitture rupestri sofisticate che dall’autentico inventano l’inautenticità e viceversa, per immaginare diversamente.
    Il linguaggio non sostituisce la comunicazione ma ne può fare certo a meno, pagando lo scotto della reclusione ascendente, della distanza dal contesto, dell’isolamento. L’isolamento è la difesa dall’insopportabile fino a cancellare l’uomo dal paesaggio, alla ricerca della purezza salva dagli inquinamenti antropomorfi.
    La comunicazione riporta l’uomo nel paesaggio. Con tutte le criticità e le problematicità, ma la comunicazione riapre il dialogo non tra Istituzioni ma tra cittadini, non tra il poeta e l’universo linguistico immaginativo ma tra il poeta e il poeta, tra il poeta e il lettore, tra il poeta e il cittadino. In relazione biunivoca.
    La comunicazione non crea spazi e tempi surcodificati, ne propone di nuovi risultanti dall’intersezione dei precedenti, lascia che le periferie entrino in contatto perché i nuclei possano avvicinarsi e collocarsi in un pantheon.
    Nella comunicazione la parola riprende il potere sul linguaggio che in ogni caso si può stabilire convenzionalmente (anche nella sua misura più astratta), codificare e decodificare. Non più suoni astrali ma pacchetti-dati, cubi di contenuti pressati al limite, amorfi senza essere distassici, trasferiti da un nodo ad un altro per la via più breve che oggi non è una retta, ma un invio elettronico.
    Il poeta fanciullo che genialmente gioca con la lingua lascia il posto al poeta maturo che prende in carico i significati e le responsabilità, di nuovo coinvolto in un sistema partecipativo di necessaria consciousness. E partecipa, in senso figurato, postando scatti poetici sul wall collettivo dell’immenso social network globale (e glocale), così che si possa parlare di “pic-poetry”, da diffondere (magari viralmente), da condividere. Foto poetiche che lascino il segno nello spazio di uno sguardo, che depositino istantaneamente il proprio pacchetto-dati di senso e significato, che possano essere aggiunte tra le preferite con un clic intellettuale.
    Nel XXI° secolo è con queste vesti che si propone il mondo, ed essendo la poesia (come tutte le manifestazioni culturali umane) fortemente influenzata dal momento storico-sociale in cui viene alla luce è abbastanza banale pensare e dichiarare che il Novecento ancora c’entri in qualche modo (per quanto -mi ripeto- è inevitabile che la cultura, in quanto fenomeno soggetto ad evoluzione, tenga sempre comunque conto nel dna di quanto successo in prima).
    Ci sono generazioni che non si perdono nel nulla, ma si perdono nell’abbraccio grandioso di quella precedente, di fatto divenendone l’appendice tramontante e non trovando una strada autonoma. Ma presto o tardi la rottura si compie e una nuova consapevolezza spunta, un mattino. La deflagrazione alza molta polvere, è vero, ma quasi tutto il pulviscolo poi torna a terra rivelando le pietre di grandi dimensioni, le miliari se vogliamo.
    È curioso, ad esempio, come la mia generazione adagiata sul vuoto benessere degli anni ’90 abbia saputo trasformare la totale indolenza derivata da una vita “anestetizzata” (in cui peraltro continua a trovarsi a proprio agio) in una certa forma di capacità autocritica radical-chic, forse distante dalle manifestazioni di piazza ma comunicativamente valida per l’indagine di sé e del contesto contemporaneo. Soprattutto da quando la comunicazione si svolge principalmente con il culo poggiato sul divano, assecondando la pigrizia.

    Non una grinza

    Non ho un bel rapporto
    con gli striscioni le manifestazioni
    mi mettono paura figuriamoci
    se potrei imbracciare un’arma
    una vera, e poi un omicidio
    ha bisogno di un movente
    per definizione e io non ce l’ho
    per questo non faccio la rivoluzione.
    Chi me lo farebbe fare
    alzare il culo dalla poltrona
    non leggere il giornale al bar
    ogni mattina non circondarmi
    più di tecnologia, dedicarmi
    al bene comune sarebbe faticoso
    oltre che inutile.

    Questa indagine si svolge sotto gli occhi tutti, pubblicamente ogni giorno in streaming perciò della sua esistenza non si può dubitare. Si può invece discutere all’infinito sugli effetti che avrà di qui a dieci anni, ma essere tornati consapevoli di avere un ruolo e una strada autonoma da inventare era il primo, irrinunciabile passo.

    Lorenzo Pezzato

  16. giordana ha detto:

    qualcuno per piacere sarebbe cosí gentile di spiegarmi il termine ‘disartizzazione’ dell’arte? grazie…

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