Alfredo de Palchi e le cronache

Pubblicato il 14 dicembre 2011 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Alfredo de Palchi e le cronache

Roberto Bertoldo

Ho criticato a volte Alfredo de Palchi per la sua eccessiva aggressività e non condivido del tutto il suo giudizio negativo sulla poesia italiana di oggi, anche se condivido in pieno certe sue critiche che riguardano molti comportamenti presenti nel mondo letterario. Devo però, purtroppo, dargli di nuovo ragione sul fatto che c’è nei suoi riguardi un’emarginazione assurda e controproducente per la nostra cultura.
In questi giorni ho contattato il sito “Le parole e le cose” per chiedere uno spazio nel quale presentare una lunga poesia di de Palchi in modo di permettere a tanti ottimi critici che frequentano il sito di valutare il valore storico e letterario di quella poesia (per la cronaca, “Un ricordo del 1945”. Ve la riproporrò a fine lettera). Ecco la risposta della redazione (non riporto il nome di chi ha risposto perché è stato comunque molto gentile): «Il nostro parere è il seguente: il materiale che ci manda in visione è certamente degno di nota, ma LPLC non è la sede adatta per pubblicarlo. Preferiamo infatti concentrarci su progetti di poesia contemporanea, legati al dibattito attuale; la sua proposta ci sembra avere un valore soprattutto storico, che sarebbe meglio valorizzato da riviste sensibili al recupero filologico e alla tradizione dell’avanguardia (penso a “Belfagor”, o al “Verri”)».
Sarà vero, ma Belfagor ad una medesima precedente identica proposta non ha neppure risposto.
Riguardo il punto di vista di LPLC, ecco a titolo esplicativo il mio rilancio andato a vuoto: «Capisco e naturalmente accetto la “Vostra” decisione, vorrei però ricordarle che Alfredo de Palchi è un poeta vivente che scrive e pubblica ancora poesie di innegabile valore letterario. Proprio perché vi interessate, quanto il sottoscritto, di poesia contemporanea, non potete negare, leggendo l’opera intera di de Palchi, che molti autori oggi gli siano debitori – e non sempre involontariamente. Non c’è nessun interesse distorto a proporre ai lettori di LPLC uno di coloro che hanno liberato la poesia italiana dalla maniera ermetica senza cadere nell’anaffettività delle avanguardie tout-court. Non voglio entrare qui in questioni tecniche, ne ho già parlato molto altrove, ma le assicuro che il poeta in questione è ancora oggi molto più contemporaneo dei tanti poeti che state pubblicando ».
Negare ai lettori di confrontare la scrittura di de Palchi con quella dei poeti che il sito pubblica è un atto per me incomprensibile e che nessuna giustificazione, soprattutto quella datami, ha senso.
Ora tutto ciò mi deprime non perché io ritenga vitale la questione, ma perché dimostra il disinteresse che gli scrittori hanno per la letteratura, al punto che alla fine dei puri epigoni vengono salutati come maestri. E mi deprime il classismo insito in certe operazioni. E’ evidente che la cultura italiani è sempre più in mano ad una oligarchia tale e quale a quella presente in ambito politico, finanziario, ecc.
Se così non fosse, un certo ascolto si darebbe ad un addetto ai lavori che propone disinteressatamente uno scrittore apprezzato, quando era ancora uno sconosciuto, niente meno che da Vittorio Sereni. Sodale di Raboni, Erba e Zanzotto, e a mio modo di vedere superiore a loro dal punto di vista poetico, de Palchi è ingiustamente emarginato. E’ vero, lo sono molti validi scrittori italiani, ma se questo avviene è perché gelosie e rivalità e assenza di generosità umana e di onestà intellettuale e, aggiungo, di umiltà, fa sì che noi scrittori assai raramente peroriamo la causa degli scrittori di valore, quasi per timore che offuschino la nostra opera. Ma quando uno scrittore ha una propria spiccata personalità non deve temere di essere offuscato da un altro e se anche lo fosse lo sarebbe per una giusta causa.
Mi scuso con Adam Vaccaro per lo spazio occupato, ma so che anche Adam è a favore della difesa della vera poesia.
Ecco la poesia, mi piacerebbe leggere i commenti, pro o contro, dei lettori. La faccio precedere da due righe introduttive.
Alfredo de Palchi, nato a Verona nel 1926, vive a New York. Questo testo del 1948, pubblicato da Mondadori nel 1967 in Sessioni con l’analista, su iniziativa di Vittorio Sereni e di altri importanti critici di allora (tra gli altri, Giuliano Manacorda, Silvio Ramat, Marco Forti, Glauco Cambon), testimonia l’originalità della scrittura. Naturalmente occorre storicizzarla: siamo appunto solo nel 1948, anni in cui l’epigonismo ermetico era diffuso; de Palchi anticipa, senza mai forzarle in chiave sperimentalistica, tecniche poi rivisitate dalla neoavanguardia.

UN RICORDO DEL 1945
(Procida 1948)

1

I vecchi mietono allori smistando
carte, vino allegro di collina
il dio dei padri assassini
dio assassino
e seguono a orecchio chi rincorre
in sé creatura riversa sulla chitarra
la parola: fumo della mente;
la lingua lecca la parola
suono crudo, lingue
crude come fette di carne;
corde danzano e dita sul buco empio,
io gorgheggio vino
sudore della terra, ruggine
che rinsalda la vigna priva di rimorsi.

Poi, berretti oscurano i volti,
tre Tipi al tavolo:
– il tuo nome? – a voce unita, senza febbre;
l’occhio mi si placa sulle facce
coni di nasi d’osso forti
– come
come ti chiami? –
– Meche – (il mio nome);
ecco l’intesa occhiata
– esci con noi –
io mi alzo finendo il bicchiere.

2

Abbassate serrande di botteghe
alcuno rincasa a topo
altri in fretta sbuca dal nero corridoio
sgomento si ferma
sul lastrico riprende fiato, lingua cruda,
con più certo passo prosegue senza
mai voltarsi indietro
e scompare d’improvviso dietro l’angolo
dietro la porta mille porte finestre cortine;
si spia ci spiano mi spiano.

Vie storte, schiarite
da lampade ora rade, ai sobborghi
pietrificata allegria d’alberi
inghiottita dal ragno di cemento
e notte vescica impura.

3

non parlano, io non oso
a . . .
‘dove ma dove’

ecco il luogo la casa,
uno apre il cancello
il secondo mi spinge mi spinge
‘ma la porta la porta’
dentro la casa
il terzo mi indica la sedia
si tolgono le giacche, sudano;

e il Capo – lo conosci? –
– non lo conosco, mai visto –
mai vista la faccia veritiera
della foto, non so chi sia
– non lo conosci, mai visto? –
mi colpisce con mano potente
– spogliati –

occhi insistenti sulle ombre
schiacciate con enormità sui muri
bianchi muri,
eccomi nuda, saccheggiata la pelle
mia vescica impura

la tavola sbarra l’uscio
spostata la sedia
nuda quanto me la stanza.

4

A cenno del Capo
dai fianchi si tolgono cinghie grosse
cuoio del dio assassino
cuoio che cade, mani
accarezzano il cuoio grosso largo, odore
di animale seviziato di uomo odore
di assassino;
a labbra tirate di livore mi vengono
alle spalle il mondo alle spalle
il mondo cade,

tremo paura o freddo
febbre di mota, pallore tratto al volto
e arsura in gola
roccia da cui l’acqua dei millenni non sgretola
il sale del mondo
il mondo sale;

parole suoni indistinti
nell’orecchio, lontano brusìo, vicinanza
di insetti e vermi
insetti
e vermi si domandano l’accaduto
domandano la provenienza il nome

– sono Meche, mi avete portato qui –

ridono mascelle d’osso bianco,
chiedo acqua acqua
il Capo ride e porge la tazza
– bevi –
è acqua sapone e peli di barba.

5

Scendiamo al fiume, non una finestra
accesa delle case oltre l’opposta riva
– qui sei sotto il ponte
e qui Meche incontrerai il fratello
Meche da te ucciso –
– incontrerò il fratello Meche
da me ucciso –
da qui si porta via, sradica il segreto
il fiume che si dibatte a gorghi.

Solo con la colpa, mia notte,
bagnata terra:
mi ci stendo, è refrigerio
nelle bocche urlanti delle piaghe
nella piaga della colpa;
tra gli archi di acciaio
l’alba della indifferenza e lume
in me avrò da quel baluginare incosciente.

Alba apatìa
biancore che non mi schiara;
il passato resta aggrappato
e tra le sue maglie il sogno si arresta:
presente paleolitico,

ch’io sia e che vogliono,
non ho amici da sempre
se ho colpa, come posso
disbrogliare l’incubo della notte
quella casa
la mia nudezza
la casa.

6

Più alto il sole più grande il suolo
e dentro l’acqua reti di luce;
sulla riva opposta verdi persiane aperte,
case sveglie, uomini scamiciati
caricano ghiaia sulle barche
fumano la sigaretta arrotolata,
corre il parlare sulla pelle d’acqua
contenente vita, pesce doloroso
mortale emblema.

Vuoto stomaco, doloroso,
bocca storta per frenare
rigurgiti di vomito
pesce della mia esistenza;
tre Tipi
mi hanno dimenticato, no no,
gusto acido in bocca, mi hanno
chiesto il nome
li ho seguiti e qui
dove son nato già abbandonato
il sentimento della colpa
mi trascino dalla nascita che affievolisce,
dio
abbandonato
assassinato
assassino.

7

Il sipario alto cremisi
scena in cui sono personaggio
coltello arma cinghia
cuoio odore di uomo
animale la sua innocenza in fuga uccisa
dio personaggio
senza volontà, colpa
che rimorde e si dibatte alla cinghia.

Non posso non posso
andare, aspetto
oscura imposizione, scena che deve
seguitare;
e la pubblica sorpresa il padrone dio
il soldo il suo sudore di miniera di sudore
se me ne vado; i tre Tipi
non mi hanno detto ‘resta’
ma attendo il mio rifugio
e non ho casa
non amici
aspetto e sono

al mondo che cade
nell’erba che cade
al freddo che cade
che mi rincorre il cane
alba che cade
pane pane che cade.

8

Cade l’ubbidienza
su l’uomo, sul groppo della sostanza
e non protetto
solo in epoche malandrine
leggi malandrine leggi
di città cantieri navi soldi
e case
case
muratori e mattoni
soldi duri
libertà dura uomo duro mattoni duri
cantieri muratori mattoni
tutti duri;
ogni giorno affamato
anni non sfamati
ignoranza
dio non sfamato

a sedici anni lavoro
notte ragazze
‘come sai di buono sei caro’
ma odiato dai compagni ‘attento
sono per noi, tu sei Meche’, nome
già maturo sepolto nella polpa battuta
‘non vengo più’
e mani bianche
in mezzo la strada ch’io fuggo.

9

Campane di mezzogiorno
erba matura piega
un parlottare piega:
i tre Tipi
siedono, ecco pane e mela a forma
di mondo a me
che piego
mangio silenzio il suo verme
alla riva bevo silenzio,
eco di sasso cade e cerchi si allargano
si espandono nell’universo d’acqua
il suo verme divora.

In piedi attendono – andiamo –
– son nato qui, mi ci avete portato
consegnato, era
notte della mia nascita che affievolisce –

laggiù case strade uomini
la delinquenza onorata, volumi di leggi
la città informe, verme che si divora.

10

Li seguo, dicono e non capisco
guardo case le vie, a dito m’indica
la gente – hai ucciso –

ma la verità è milioni di uomini

ma sento questa colpa
vedo la colpa alle finestre nelle strade
nell’occhio insano dell’uomo,
i loro passi felpati;
in me cresce il rumore il volume della colpa
l’irreale vittima
e il senso diventa carne
e cammina con me, dentro di me il peso della vittima
si dibatte
accanto a me si dibatte la vittima,
fratello, bocca strappata, eguali;
trascinano il colpevole,
son io quello, e solo Meche riassume l’innocenza
che non sopporta il peso; piccioni
disertano la piazza
noi svoltiamo ed ecco la campagna la notte
la casa ci viene incontro.

11

Stessa stanza
tavola
sedia
si tolgono le giacche, sudano

– spògliati –
mi spoglio
– a terra –
nudo a terra, piaghe aperte grumi di sangue,
– girati –
mi giro, petto senza peli bianco,
– hai ucciso –
giornale in fiamme alle ascelle
– ho ucciso –
cinghie cuoio pelle afrore di uomo
segnano il petto
e piccioni fuggono dalla bocca che offende,
il dio assassino insiste
– sì

ho ucciso, basta! –

mi nettano lo spirito delle piaghe
non bevo acqua
sul pavimento chiazzato dalle mie bocche
ho vino e pane.

12

Città estranea
senza nome di un fiore inodore
priva di nome stabilito:
case a un solo piano, eguali;
su questa città
non fumi, soffitti bianchi di calce
mani devastate dal ghiaccio della indifferenza,
finestre spente uomini in ozio, miserie
collera, alte muraglie intorno agli edifici
e crepuscoli di zolfo
sulla città senza tempo e misura,
uomini senza nome vestiti eguali di pelle
impura, giorni di liti fame
pane all’immondizia, sprezzante gesto
della indifferenza.

13

Senza volto la città
antichità senza storia;
vicoli ciechi dove antico senza tempo
l’uomo passa sulla pietra
sulla propria escrescenza, a se stesso
occulto come Meche
come me maschera innocente
colpevole conoscenza.
La colpa innocente, il dio assassino bianco
che fugge la colomba umile
libera abitante di questa città di tutte
le città dove vive
chi uccide il fratello Meche sotto la sferza
che cade
come il mondo
con le mie spalle a terra
cade.

8 comments

  1. francesca tuscano ha detto:

    Non è facile scrivere su qualcosa che ci fa male, che ci prende allo stomaco. La violenza è come la morte – conoscerla è una grazia. Una grazia di cui si farebbe volentieri a meno, ma pur sempre una grazia. Perché permette di guardare alla vita, alla storia – propria e altrui – con uno sguardo capovolto, che ‘frustra l’attesa’ (rubando le parole a Jakobson). De Palchi l’ha conosciuta la violenza – si capisce bene. Quella del ‘verme’ (diceva Alvaro che esiste la violenza che ti fa sentire eroe e quella che ti fa sentire verme – e la seconda, è ovvio, è la più infame). Ma i vermi, gli insetti sono innanzitutto i “Tipi” che ‘amministrano’ la violenza, e sono la “città informe”, la massa indifferente al dolore che è sempre, irrimediabilmente, ‘singolare’. Anche questo De Palchi l’ha capito e detto perfettamente. Ha fatto molto bene Roberto Bertoldo a riproporre “Un ricordo del 1945”, e ha fatto molto male LPLC a non volerla pubblicare sul suo blog. Questa poesia è più che mai contemporanea e non, ‘semplicemente’, perché il suo autore è vivente (e a De Palchi auguriamo non 120 ma 240 anni di vita, da vivere con gioia, fregandosene della attuale o/scena intellettuale italiana!). E’ assolutamente contemporanea perché è assolutamente contemporaneo ciò che dice, e il modo in cui lo dice. Solo la verità emotiva, ed intellettuale, che si denuda per esperienza ‘di carne’, può permettere – certo, se si è poeti… – il giusto tono corrispondente. Per questo De Palchi ha potuto scrivere in modo così ‘inaudito’ (nel senso letterale del termine) nel 1948. E per questo la sua poesia non ha niente dell’artificiosità di chi l’avanguardia l’ha cercata, e non urlata. Mi spiace che De Palchi usi la figura dei bemolli ‘in fila’ per parlare della piattezza di certa poesia. Chopin ci ha insegnato che i bemolli possono essere altamente drammatici, ed eroici (non c’è retorica in questo aggettivo, voglio dirlo, a scanso di equivoci), non meno dei diesis. Il suo “ricordo del 1945” è pieno di drammatici ed eroici bemolli che, però, non obbligano al sistema tonale. Ed in questo torna la contemporaneità della sua poesia – lo scarto figurale, tonale, lessicale che permette di dire la violenza come si dovrebbe: senza retorica, e con il giusto strazio che impedisce di distogliere lo sguardo. Come si può dire che questo non sia attuale? E’ attuale il blabla sulla violenza che, alla fine, la rende banale e quotidiana come un tavolo o una sedia? E’ attuale la falsa indignazione – e relativo linguaggio falsamente ‘crudo’ – di chi, a furia di esercitare accademicamente il cervello, ha dimenticato che è il corpo (quello vero) il primo luogo su cui la violenza si esercita, e che il corpo ha la sua lingua, perché ‘è’ una lingua? Credo che al “dibattito attuale” della poesia italiana questa poesia di De Palchi farebbe un gran bene. Ma poi penso anche che uno come De Palchi non poteva che andare a vivere in America (anche se l’avrei visto bene anche nella Russia del samizdat). Purtroppo, temo che l’accademia (che potenzia la mafia di cui parla De Palchi) non abbandonerà mai il nostro paese, continuando a spingerlo sempre più in fondo al buco nero del provincialismo.

  2. Alfredo de Palchi ha detto:

    Voi, uomini mediocri, che rubate
    i miei versi cantati a calce. . .

    Caro Roberto,

    perché offri perle preziose a critici che quanto i loro poeti preferiscono sbavare “sulle parole” morte, mentre “va a gettoni il loro cuore”? Considera dalla tua raccolta “Pergamena dei ribelli” (Joker 2011), il messaggio dei due versi che mi approprio per incollarlo addosso ai critici e ai loro ritardatari trecentisti imitatori di “dolci chiare fresche acque”. Critici onesti e poeti davvero sanno di avere la mia stima––non ruffianeria non gelosia non invidia non taccagneria non viltà, bassi sentimenti di uomini mediocri.

    Comunque, da quando mi conosci ti meriti la situazione stupenda di lanciare grida nel deserto, simili alle mie sin da allora. . . quando “Un ricordo del 1945” apparve sul primo numero della rivista di Vittorio Sereni, “Questo e altro” (1962) , che i poetini di quel tempo finsero di non notare; strano, invece, che poeti come Leonardo Sinisgalli l’abbiano
    letto e apprezzato, e un Franco Fortini fosse politicamente contrario alla pubblicazione. Almeno aveva una motivazione, totalmente sbagliatata nei miei confronti. Dicevo, situazione stupenda perché tu, difendendomi e promuovendomi, sei considerato come me un senza gola.

    Pensa però che c’è il meglio dalla nostra parte: che onestà e giustizia sono valutate da chi ha onestà e giustizia. Per chi ha faccia da sberle non hanno valore. Malgrado io unga gli untori e tu critichi le mie violente accuse mentre proponi di ammirare o di denigrare un tesoro di perle, nessuno ci fa caso. E noi, considerati “fessi” dai truffatori, ci illudiamo che abbiano perlomeno buon gusto poetico. Per quanto mi abbiano in odio e indifferenza, non hanno stomaco di affrontare “Un ricordo del 1945”, e me personalmente; non possono dirne male altrimenti si presenterebbero persino stupidi, e non possono sparlare di me in quanto io non commetto delitti di mafia. Tanto per rimanere in silenzio, non darebbero un pensierino anche se il poemetto fosse davvero brutto. Nell’internet si è diffuso il chiasso del silenzio nei miei riguardi. E` l’antico sistema dei vili (perché si tratta di viltà) usato per allontanare soprattutto timorose nullità infette della complessiva infezione plebea: gelosia invidia taccagneria e viltà. Non mi scoraggia, ma nemmeno fingo d’indietreggioare in quanto di natura sono un solitario che non ha bisogno di tutti.

    Eccomi al punto di dover presentare un esemplare trafficone per il quale ho commesso un grave errore . Lo confesso per principio e perché si noti che ha un nome di “poeta”. A suo tempo menzionai il grave errore a una sola persona, pensando di trovarmi la scusa di aver fatto un’opera di carità. Ma l’errore mi è rimastogola, Dopo anni di trangugi ho deciso di confessarlo ai critici se mi leggono e ai poetini che leggono ancora meno.

    Anni fa ho aiutato Gradiva Publications a far tradurre e pubblicare un libro di poesie di FB. Poi, nel 2008, ne ho pubblicato uno con Chelsea Editions. Subito dopo la stampa mi è venuta una crisi di dubbi; cioè, di aver commesso un grave errore. Una svista madornale che ho persino vergogna di ammettere. L’opera di FB non meritava e non merita la mia attenzione. La svalutai privatamente, dal momento che il libro uscì. L’autore non sospettava della mia umiliazione, la conosce adesso se si sgonfia di aria per leggere la notizia.

    Chiunque si chiederà il motivo di questa mia controversia. Mentre FB traffica da mercante, pretende di essere offeso per le mie accuse ai mafiosi della letteratura di cui lui è un addetto capacissimo, e sta zitto come i vili stanno zitti per fotterti meglio; io gli dico che è un simil-bidone vuoto di carne e fuoco, cade nell’abisso. FB, prototipo trafficone ambizioso, ha saputo usare ruffianamente chi si è fatto usare. Occorre che io faccia notare la maniera, da testimone oculare e orale.

    Alle prime armi già sapeva corteggiare il mio amico fraterno LE, poeta noto e ben visto per serietà. Lo incontrai proprio in casa del mio amico, e FB rivolgendosi al Maestro qui Maestro là lo ruffianava, faceva quanto poteva per accalappiarlo nei complimenti. Tuttavia non dubitavo della sua ammirazione per l’amico, era la maniera untuosa che invadeva l’amico il quale intuiva i sotterfugi del ruffiano cercatore di favori e di conoscenze, e come farsi premiare ai premi di cui l’amico era un giudice o alla testa della giuria. Avrà imparato il trucco dai numerosi che lo praticano, di inviare all’indirizzo di casa di ciascuno della giuria (con seguito di telefonate) copia delle poesie inviate direttamente alla direzione del premio. Io che conoscevo molto bene l’amico, come l’amico conosceva molto bene me, aspettavo il giorno in cui lo avrebbe umiliato. Infatti così successe qualche anno dopo. Ma FB sapeva ormai come pescare nelle acque melmose chi fosse un esperto trafficone. FB non può negare nulla, può soltanto aggiungere la sua versione. E si professa offeso o imbarazzato nei miei confronti? Non è credibile. Che si sforzi pure a fare il “poeta”, ma che dimostri le sue qualità di arrampicatore della cuccagna. È probabile che non gli occorra più ungere e farsi ungere. Ormai si sentirà sicuro di promuoversi senza intoppi. Pubblicherà, collezionerà premi disonesti, ma della sua opera rimarrà soltanto la mia previsione: nulla.

    Sappiamo benissimo che nessuno si scandalizza dell’operato di FB, qui assunto a simbolo normale nei clubs più o meno letterari, e altrettanto
    sappiamo che tanti e tanti postini vorrebbero impostare notizie contrarie, ma anche costoro hanno debole stomaco.
    Ciao, buona annata 2012.

    Alfredo

  3. Roberto Bertoldo ha detto:

    «Bisogna dire che gli uomini della sua stessa professione, anche quelli intelligenti e di talento, non gli risparmiavano le ironie e le punzecchiature, facendogli vedere così come lo apprezzassero poco (…). Indignata contro la cattiveria di quelle persone, ero pronta a spiegare quei modi dei colleghi di mio marito con l’invidia professionale, sentimento che, invece, Fedor non aveva affatto» (Anna Dostoevskaja, Dostoevskij mio marito)
    Vedi, Alfredo, capitava anche al grande Dostoevskij.
    Nonostante questo i non famosi ti apprezzano pubblicamente, come si può notare dai numeri speciali su di te prodotti quest’anno dalle riviste “Gradiva” e “La Clessidra”. Dimenticare la tua poesia sarebbe fare un grave torto alla cultura italiana.
    Per quanto riguarda FB e quelli come lui, ciò che racconti non sorprende più, purtroppo. Siamo già oltre, siamo ormai giunti al punto che i disonesti professano onestà anche pubblicamente e fanno la morale. Insomma, è stata screditata anche la serietà.
    Purtroppo a nascondere il tuo valore sono stati per primi i tuoi contemporanei, dopo che tu pubblicasti da Mondadori. Loro potevano sostenerti, anche se vivevi all’estero e non chiedevi nulla. Conoscevano la qualità della tua poesia. Ma anche con loro se non ci si autopromuoveva, se non si chiedevano favori, si veniva emarginati. E così ti hanno trascurato, solo perché la loro poesia, omaggiata dai lecchini, era in verità poesiola da educande rispetto alla tua. Questi poeti, alcuni anche tuoi amici, mi dispiace dirlo ma Pasternak li chiamerebbe “codardi”.
    Purtroppo, accantonato dai tuoi contemporanei, e il fatto è abbastanza usuale per chi non è un intrallazzatore, era normale che tu faticassi a riemergere.
    Però pensa al fatto innegabile, e lo ripeto, che molti oggi ti apprezzano e scrivono o parlano di te, su riviste, siti, ecc., come forse non si è mai fatto, onestamente, per i poeti di potere. Non ti celebrano adesso i tuoi epigoni e i molti che tu hai aiutato senza chiedere nulla in cambio, come FB, che avrebbe potuto avere almeno un po’ di riconoscenza, se non possiede il talento di comprendere la ‘bellezza’ della tua scrittura poetica, e dire due parole su di te (però la riconoscenza, l’unica dote che non sfigura mai, non frequenta il desco della letteratura); ma ti apprezzano e ti apprezzeranno pubblicamente gli onesti, come dici tu, e addirittura prima o poi lo faranno anche i disonesti, quando vedranno che potranno godere un po’ della tua luce riflessa. E allora diranno: “E’ stato amore a prima vista”.
    Sai, a pensarci bene, è meglio che la tua fama resti nel sottobosco. E l’apprezzamento dei sinceri, anche se è poco, ti valga da conforto.
    E poi, come sappiamo, ci sono cose ben più importanti della reggia di carta che ci propone il mondo letterario.

  4. luigina bigon ha detto:

    Caro Alfredo, mi sono letta con passione il tuo “ricordo del 45” che mi ha completamente sprofondata nello strazio di quel vissuto, fatto toccare il sangue delle piaghe dell’umiliazione del corpo dello spirito e della mente. Ecco la forza e l’onestà della poesia vera. E chi ha avuto la gioia di conoscerti sa anche della tua intoccabile onestà intellettuale. Grazie, Alfredo!
    E buon 2012!
    Ciao
    Luigina

  5. adam ha detto:

    Sono orgoglioso di aver dato spazio a queste testimonianze ed espressioni di poesia, vissuta, scritta, letta e commentata! Gli aghi nel pagliaio ci sono, pungono e cuciono per chi ha scienza e calamite sufficienti di vita!
    Grazie perciò a chi sa donarli
    Adam

  6. Anonimo ha detto:

    Inutile chiedere udienza a “Le parole e le cose”. Si pone come spazio di libero confronto, in realtà è fortemente ideologizzato. E proprio per ragioni ideologiche, evidentemente, ha scartato un testo intensissimo come quello qui pubblicato, con l’assurdo pretesto della non contemporaneità di De Palchi.

  7. Adam Vaccaro ha detto:

    Chiederei all’autore anonimo del’ultimo commento di esplicitare il proprio nome. Ma se avesse gravi ragioni contrarie, può scrivermi personalmente.
    Grazie
    Adam Vaccaro

  8. antonio sagredo ha detto:

    Gentile Bertoldo <Roberto,
    l’emarginazione di cui parla non tocca minimamente Alfredo e tanto meno me stesso: Lui è stato fulminato sulla mia via – di Antonio Sagredo – avendo compreso all’istante che era necessario pubblicarmi, e lo farà con la sua Chelsea Editions,
    trovato già un valentissimo traduttore, e si va avanti – spero che Alfredo gravemente ammalato ce la faccia e che in qualche modo mi passerà il testimone..
    cordialmente Antomnio Sagredo

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