Alberto Bertoni: i momenti epifanici della poesia

Pubblicato il 18 febbraio 2021 su Resoconti Esperienze da Adam Vaccaro

Alberto Bertoni

La nascita del mio bisogno di poesia

Il mio bisogno di poesia è nato nel 1967, quando avevo dodici anni, da due impulsi: il primo provocato dall’ottima antologia adottata nella mia classe delle scuole medie inferiori, che era Leggere, edita da Zanichelli, dove venivano riportate poesie di tre poeti ancora vivi, Montale, Ungaretti e Quasimodo. Mi piacque e mi colpì molto l’idea che ci fossero poeti ancora viventi di cui si potessero studiare i testi a scuola. Poiché mia madre era maestra elementare e i miei genitori mi avevano inculcato fin da piccolissimo l’idea che il mio dovere/mestiere era quello scolastico, alla scuola avevo attribuito una funzione piuttosto sacrale, che qualche volta – per colpa prima della matematica e poi, al Ginnasio, del greco – mi procurava incubi, ansie da prestazione e malesseri psicosomatici sparsi.
Tornando alla poesia, di Quasimodo non ricordo granché, non l’ho mai amato tanto, a parte la faccenda dello stare soli sul cuor della terra, feriti da un raggio di sole, prima della subitanea sera. Di Giuseppe Ungaretti ho subito ricordato molto bene, invece, con una punta d’ironia ancora inconsapevole, il
M’illumino
d’immenso
di Mattina, ma ancora più vividamente mi ricordo l’amore, il trasporto immediati per Meriggiare pallido e assorto di Montale. Io prestavo già un’attenzione quasi maniacale al linguaggio (sulle questioni soprattutto dei sinonimi e dei significati multipli di una stessa parola interpellavo continuamente mia madre, fin quando – un bel giorno – lei non ha più saputo rispondermi) e di quella poesia mi sconvolse l’uso ripetuto dei verbi all’infinito. Allora soffrivo di noie frequenti, improvvise e devastanti, soprattutto quando i miei genitori e i miei nonni per i mesi interminabili di luglio e di agosto mi trascinavano a Marina di Carrara, a far vita di spiaggia: siccome sono stato sempre insonne (e dunque non ho mai consumato pennichelle o siestas), il “meriggiare” l’ho vissuto sulla mia pelle e, benché a dodici anni non fossi ancora affetto dal male di vivere, questo meriggiare pallido e assorto mi coinvolse moltissimo, tanto da essere anche oggi – quasi mezzo secolo dopo – una delle mie poesie preferite. Evidentemente lo era anche di Montale, visto che su quella poesia ha accreditato la probabile bugia di averla composta addirittura nel ’16, senza che mai sia stato ritrovato l’autografo: e ciò può significare soltanto che l’autore stesso attribuisse a Meriggiare una funzione particolare, accreditandola ai suoi vent’anni. Montale, poi, ha agito tanto in profondità, dentro di me che – quando nel ’69 superai l’esame di Terza media con il massimo dei voti, Ottimo – chiesi ai miei genitori due regali: l’edizione completa degli Ossi di seppia, allora disponibile in quelle bellissime edizioni dello “Specchio” Mondadori che sembravano avvolte in una carta da pacchi; e la “prima volta” all’Ippodromo Arcoveggio di Bologna. In quel caso si sacrificò mio padre che, da dipendente ferrarista e da pioniere pallavolistico del tutto alieno all’ambiente ippico, mi accompagnò una torrida domenica di giugno a tifare per le imprese trottistiche di un prode Ettorone, magistralmente pilotato da un guidatore che si chiamava Luciano Bechicchi, curiosamente nato lo stesso giorno, mese, anno di mia madre, il 22 novembre 1928…

Poesia e malattia

La mia contestazione, visto che io appartengo, nato nel 1955, alla prima generazione che consapevolmente e programmaticamente ha contestato i genitori e il loro potere genitoriale, non è stata di ordine politico o ideologico ma è stata una contestazione umana per cui con loro non mi sono mai confidato, non ho mai raccontato cosa mi succedeva.
Ad esempio loro non hanno mai conosciuto per intero il nome e il cognome di una mia fidanzata, o di una mia amante, o di una mia amica particolarmente cara.
Questo era, naturalmente, il sintomo sia in una dimensione attiva che in una dimensione passiva, del fatto che poi loro, alla fine, bastavano a se stessi.
Tutto questo l’ho capito lucidamente – e devo dire anche con qualche ferita sul piano personale perché non è stata una comprensione che mi ha lasciato del tutto incolume – quando loro si sono ammalati, mio padre di Alzheimer diagnosticato nel 2001 ma sicuramente lo aveva già addosso dalla fine degli anni ’90, e mia madre, di seguito, con questa demenza arteriosclerotica senile che l’ha portata, fra il 2006 della morte di mio padre e il 2010 della sua morte, ad assentarsi completamente dal mondo, a non pronunciare più nessuna parola e a muoversi soltanto aiutata da me o dalla badante, fra il letto e la poltrona, poi la sedia dove si metteva a mangiare due volte la giorno.
Di lì ho capito, come poi ho scritto anche nelle poesie che ho dedicato a loro in larga copia in questi anni finali, che loro costituivano una specie di endiadi, di una specie di monade, dalla quale io ero totalmente escluso.
Allora lì ho cominciato a fare una serie di riscontri positivi sul reale di questo atteggiamento. Loro non sono mai venuti ad ascoltare una mia lettura di poesie, non credo che abbiano mai neanche letto una mia poesia; non sono mai venuti ad ascoltarmi a nessuna conferenza anche quando magari il mio nome o la mia fotografia circolava sui giornali locali che loro leggevano. Questo pur avendomi entrambi amato moltissimo, a modo loro. Loro erano come il sole e la luna. Mio padre una persona ilare, sportiva, molto portato a ridere, anche allo sdrammatizzare. Una persona veramente solare. Mia madre una persona completamente lunare, completamente chiusa in sé, con il terrore della notte per cui non credo che – almeno da quando l’ho conosciuta io – sia mai uscita una sera se non proprio costretta da qualche circostanza specifica, proprio con la paura del buio che, pur soffrendo violentemente di insonnia, andava a letto a leggere alle 9, 9 e mezza, alla fine del primo programma televisivo, e leggeva, magari, per ore. Però non usciva, la notte la impressionava.
Invece mio padre era un animale sociale, avendo lavorato alla Ferrari, gli amici della Ferrari, gli amici della pallavolo. Appunto, questa mia educazione molto precoce allo sport, alle partite di pallavolo, di calcio, ecc. ecc.
Dopodiché io ho capito che questa diversità si ricuciva in loro in una sorta di cellula chiusa, di rapporto chiuso in cui certo loro mi manifestavano … Non mi hanno mai fatto mancare niente, mi hanno dato soldi, anche a profusione, hanno accettato il fatto che io mi iscrivessi a una facoltà di lettere e quindi mi votassi a una sorta di povertà. Non mi hanno veramente fatto mai mancare niente però siamo rimasti a distanza sul piano interiore. Posso dire di aver cominciato a capirli solo attraverso la lente della loro malattia che, essendo una malattia mentale, era una malattia irriducibile a normalità e non più dialogizzabile. Difatti io gli sono stato vicino fra il 2001 della diagnosi e il 2010 della morte di mia madre, in questo decennio, ma non sono mai entrato nella loro intimità e non gli ho mai detto quello che stavo capendo di loro perché non mi avrebbero capito.

Alberto Bertoni

3 comments

  1. Lucia Guidorizzi ha detto:

    Un’analisi molto interessante delle dinamiche familiari e di come questo silenzio alla fine, dovuto alla malattia sia stato sotto certi aspetti un silenzio sulla poesia. Alcune cose vanno taciute perchè parlarne le appiattirebbe. Come afferma Wittgenstein “Ciò di cui non si può parlare si deve tacere” ,ma comunque è vivo ed operante ed agisce dentro di noi. Grazie.

  2. Leila Falà ha detto:

    Grazie, Alberto, per questa narrazione che rende la tua esperienza così vicina ad altre nostre. Ci fa ricordare come a volte le persone più vicine, sono quelle meno adatte a vedere in noi quella scheggia che fa di chi scrive altro, altro rispetto agli altri, altro rispetto a loro, a quegli affetti che ci conoscono così bene, in una quotidianità semplice, che nasconde così bene quella diversità, rendendoci più uguali e conoscibili. Che invece la scrittura ci fa diversi è un po’ sconosciuti. Pur loro amandoci e forse amandoci proprio per quella diversità.
    E del resto, quel loro essere concretamente nel quotidiano è così indispensabile. Senza non sapremmo neanche più scrivere, forse.
    E grazie perché ci racconta quello che curricula e “bibliobio” non dicono mai .

  3. Gloria bellezza ha detto:

    Così e’, Alberto.
    Questa tua vita in cui i “cari”restano tali per sempre.
    Senza aggettivi, senza neanche nomi.
    Loro sono i nostri cari.
    Fuori da qualsiasi rimprovero coronati del nostro amore forse tardivo,cmq eterno.
    Senza inadatte ai tempi intimità, vicini e presenti con buono e il meno buono che ce li ha fatti conoscere in vita, rimpiangere sempre in morte.
    Perciò anche io ti ringrazio per aver messo a parte di quel mondo trascorso anche me che qui ti leggo.
    Gloria B.

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