Le crepe del Paradiso – Roberto Caracci

Pubblicato il 20 aprile 2023 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Diluvi e Perdite

Entro un’alba esplosa dopo una lunga notte di ombre

 Adam Vaccaro

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 Roberto Caracci, Le crepe del paradiso, Moretti Vitali, Milano, 2022

Tra i libri di Roberto Caracci di cui mi sono occupato ricordo i racconti, Le radici del silenzio (2007). Nelle ovvie differenze con Le crepe del Paradiso, riemergono lampi e ombre dello scenario napoletano, contesto del suo primogiardino (Claudio Magris), fonte dei caratteri portanti della sua poliedrica espressività: paradossi, immaginazione e ironia – che in questo libro ricreano scavi profondi in orizzonti più ampi, volti a trasmettere sensi universali.

Si potrebbe definire filosofico questo romanzo di Roberto Caracci, vista anche la sua laurea in tale disciplina. Ma sarebbe riduttivo per gli echi interdisciplinari, in primo luogo tra filosofia e psicoanalisi. Tuttavia, la filosofia è implicata, come azione critica nella complessità della vita, con sbocchi antichi e modernissimi, eraclitei e fenomenologici, entro una visione aliena, comunque, sia di gigantismi sistemici che, da poli opposti, di pensiero debole.

Dopo di che, entriamo nel tessuto testuale e vediamo come sono tradotte in esso tali premesse. È un romanzo diluviale, che solo una grande capacità affabulatoria può fascinare e non affogare il lettore. E Caracci la possiede, traducendo leggerezza e profondità napoletane nel suo stile, con cui ci immerge e trascina in flutti tormentosi, reali e immaginari, da film felliniano. Entro un intreccio di corpi e anime, riesce così a comunicare e a far penetrare in noi atmosfere, rumori e suoni, colori e sapori, odori e afrori, di una danza collettiva ipnotica, dalle movenze di trenino festaiolo in un crescendo tragicomico.

Il testo si dipana in una lunga notte emozionale, che più che il consueto romanzo di formazione, è focus della genesi costitutiva di una identità, nel fenomenologico bisogno di moto di un nostos, che non è ricerca di un definitivo appagato approdo, ma del suo vero senso, di energie per ripartire e continuare a rinascere.

Il racconto è una sorta di lunga doccia di autoanalisi e liberazione, per dilavarsi di sabbie e residui rimasti attaccati all’anima e alla pelle, con conchiglie e cozze meno preziose. Un bi-sogno insaziabile di ritrovare un’alba limpida di rinascita, e lembi di un paradiso precario possibile, qui e ora, scovato tra le crepe, non di un paradiso eterno evocato da visioni religiose, ma tra quelle che l’inferno contemporaneo consente alle piccole bacinelle che siamo, di sporco e pulito. Il disegno complessivo è di ripresa di un senso etico del limite, rispetto ai deliri distruttivi delle hybris dei poteri contemporanei, cantori beoti che trasmutano in positivo le magnifiche sorti e progressive del premonitorio avviso leopardiano:

“Rimaneva solo un raccogliere e uno smarrire, senza che nulla importasse chi fosse colui che tendeva le mani e chi le richiudesse, chi accumulasse gioielli e amori, e chi li perdesse.” (p.331); “il gran carrozzone dei miei compagni di viaggio” in “un’alba stupefatta che assisteva limpida come uno specchio al teatro del tramonto” (pp.331-332). “Mi sfilavano davanti, come ombre striate dalle luci già estive delle persiane, gli attori di quel palcoscenico che mi aveva visto come un piccolo spettatore ingenuo, saturo di domande, sbalordito dalla vita” (p.332). Il libro è un viaggio nel viaggio, di Alessio, bambino dodicenne, voce narrante, che inanella vicende, tra memorie e visioni di personaggi che lo contornano, e che sono chiaramente ossessioni risolte e irrisolte, di altereghi dello stesso Autore, o Soggetto Scrivente (SS), narrate mentre è viaggiato da un piroscafo. Viaggio immaginario e reale del ragazzo, alla ricerca di sé, in fuga dai genitori, in cui inizio e fine si congiungono:

“Tutto cominciò e cominciò a finire” (p.14); “Ero fuggito dalle braccia dei miei genitori”, inseguito dal loro avviso “Vai pure ma bada a te! (p.14); “nel vento sempre più ruggente…Il ponte di prua del piroscafo era vasto e deserto come la pista umida di un aeroporto di notte, sotto un temporale” (p.15). Un esempio di specifiche che ci rendono vivida la scena, con una scrittura che riecheggia la sceneggiatura di un film, per cui la rappresentazione dell’immaginario astratto esce dalla sonnambula psichica per diventare simbolo comunicante e condiviso. Come vediamo in questo altro esempio: “Mi si apriva allora, tuttavia…un cielo nero talmente alto, sopra la punta del piroscafo…” (p.14); “Anche le onde sbattevano contro lo scafo…Ma il piroscafo andava, ed io andavo con lui, tagliando il mare come una torta”. Particolari che intrecciano continuamente alto e basso, cielo e terra, astrattezza e concretezza, allegorie e metafore, che acquisiscono sensi metonimici di una totalità: “l’intero equipaggio del piroscafo, ignaro e addormentato, doveva ringraziare me se non sbandava” (p.16).

“La prua del piroscafo si dirigeva lì dove io stesso volevo, senza sapere neanche di volere. Il piroscafo mi conosceva come io non mi conoscevo. Sapeva interpretare il mio desiderio meglio di me.,. c’era un senso…che era poi la rotta scelta da me senza saperlo…Capire, sapere: in quel momento non mi importava,,, mi importava vedere…La notte si lasciava aprire…attraversare…ma affacciandomi su quella specie di abisso riuscivo a tracciare una rotta, la mia rotta, quella che forse aveva già tracciato me e mi faceva andare” (pp.18-19).

Questi alcuni stralci dell’intro, ALFA, del viaggio di Alessio, attraverso una notte densa di vicende e personaggi di una marineria terrena – a esplicitare la simbologia allegorica del piroscafo.

La prima vicenda, anche filo rosso di tutta la narrazione, è incentrata su Don Luciano, parroco che viene dal nord, della chiesa in cui Alessio svolge la funzione di uno dei chierichetti. Il parroco incarna una visionarietà potente e fervente, sostanzialmente fondamentalistica, che va da esegesi dei Vangeli a scorci di altre visioni religiose, per sfociare in sbocchi farneticanti nelle svolte conclusive della narrazione. È comunque il disegno di un universo mentale che ci viene trasmesso con minuziosa capacità narrativa, e che nella fase iniziale tempesta il povero Alessio con prediche pervasive volte a indirizzare il suo piroscafo verso una sorte di predestinazione, vocata e chiamata al sacerdozio. Alessio, angelo designato da Don Luciano, è imprigionato nella fervorosa ragnatela e si piega come salice piangente a tale prospettiva, in apparenza inevitabile.

Con tale vestito esperienziale e destinale, Alessio attraversa una notte di morti, contrassegnata com’è da una lunga serie di decessi, di famigliari vicini e lontani. Un percorso in cui realtà e immaginazione sono continuamente intarsiate con sequenze e tessere che costruiscono, nel protagonista e in noi, un respiro ininterrotto non pacificato. Di una temperie di ricerca che contraddice continuamente le certezze sciorinate da Don Luciano. E la narrazione utilizza un’immagine anticipatrice, che dà il titolo al libro, dell’affresco di un Paradiso, lesionato da una ragnatela di crepe, dopo un forte terremoto. Tali crepe sono in tutta evidenza, i dubbi senza fine, che anche la fede più accesa e totalizzante non può non avere. Ed è questo l’occhio del ciclone espressivo intorno al quale ruota la costruzione del libro: “Il paradiso era un mare sospeso…un oceano molto più azzurro e profondo, che la volta del cielo copriva…sopra il mio capo…” (p.21).

Ma da quelle crepe fuoriescono spifferi strani, voci e suoni, come il fischietto della nonna Immacolata, alle nostre illusioni in corteo dietro una inarresa speranza, unita alla nostra incredulità e al bisogno forsennato in una qualche fede, laica o religiosa, altrimenti sprofondiamo nel più orribile pozzo, il nulla senza senso, che è il vero inferno.

Tra i morti succedutesi nel corso della notte, un particolare rilievo ha appunto Immacolata, nonna materna di Alessio, con la quale la narrazione apre un lungo squarcio visionario, che consente al nipote di interrogare la nonna su cosa ha vissuto, visto e sentito, subito prima e subito dopo la morte: “Qualcosa di enorme si abbatteva, si schiantava bruciandosi, polverizzandosi…in un silenzio strano” (p.195), mentre “un cielo… metallico e feroce, mai visto prima…La sofferenza era…il vuoto del mio cervello”, in “un tempo diverso da quello degli orologi”, nel quale “Non avrei più sofferto di niente” (pp.197-198), in un orizzonte in cui ”tutto fosse diventato definitivamente notte, assenza” (p.201), dominato dalla “paura che niente più mi accadesse” (Ibidem), “davanti agli occhi un’immensa pagina bianca, senza righe, dove la schiuma delle onde pareva aver disegnato…Qualcuno mi ha chiamato” (p.205), “La morte era…il suo impossibile racconto…nero labirinto” di “Una favola interrotta…da non concludere mai.” (p.206).

Ma ecco che, procedendo nelle sequenze narrative, dopo “una discesa all’inferno…che ti fa mettere in dubbio, ogni bene, ogni bellezza, e la stessa fede” (p.273), si aprono immagini di “sole di un’alba di domenica” (p.209) che illumina tutti i limiti dei miliardi di piccole storie della vita, in cui “rimaneva solo un raccogliere e uno smarrire…chi accumulasse gioielli e amori e chi li perdesse” (p.331).

 

Entro i tornanti della narrazione, il climax è posto alla fine, in un percorso circolare o, meglio, elicoide. In tale vertice il singolare diventa plurale: “Ci saremmo presi tutta la burrasca in faccia, ululando contro il vento piovoso della notte, con lo stesso delirio con cui un giorno c’eravamo involati…sulla barca a forma di squalo, al parco dei divertimenti, per sfidare a rotta di collo le cateratte del finto torrente…mentre continuavo a dettare al traghetto i miei comandi di nocchiero, pilota e capitano (p.334).

Finalmente, attraversata la notte, la gioia di una riappropriazione esplode nelle ultime pagine, in cui le precedenti farneticazioni fascinose quanto ampollose, piene di ragnatele e crepe logiche, lasciano il posto a luminose concisioni, ricche di sensi, immerse “nell’ubriachezza di una gioia delirante” (p.333), finanche dionisiaca. Perché sia gli incubi, che la gioia sono stati modificati di coscienza, attimi orgasmatici entro la fenomenologia che ci appartiene e ci sfugge, di un utero capace di poesia. E in tale stato, più che l’Io, è il Sé che ritrova se stesso sul “ponte di prua del piroscafo” (ibidem) della vita, “continuando a urlare dalla gioia e a ripetermi che…quel piroscafo ero io…nella muraglia del buio e dettandone la rotta con la potenza dei miei occhi” (pp.333-334).

 

Nell’OMEGA delle pagine finali vengono ripercorse le fila di ombre di “Tutti questi fantasmi” (eco di Eduardo De Filippo) inanellati dalla narrazione notturna, in cui (era chiaro, ma viene esplicitato dal SS) “Il soggetto sottinteso che ero io”, nella sua inesausta tensione a “cogliere un senso” tra il prendere e il perdere, quasi anagrammi uno dell’altro, nella propria bacinella, raccontando la morte per con-tenere briciole di vita.

Nello svolgimento della matassa narrativa, Don Luciano viene a incarnare una particolare simbologia fallimentare di un tetragono fondamentalismo, religioso o meno. Il parroco cede improvvisamente all’amore terreno, spretandosi e sposandosi, ma poi cade preda di una misteriosa follia psicosomatica, che farà risucchiare anche lui nella voragine della morte. Ma non è un messaggio pedagogico, volto a rimanere fermi in una coerenza da muli testardi. In tutta evidenza, insegna il contrario.

E lo esplicita Alessio, con le sue profonde rinnovate visioni e moti di autorealizzazione, verso “l’alba di un nuovo giorno”, dove l’ALFA ce lo aveva dipinto, sul “ponte di prua del piroscafo”, dal quale “Non me n’ero mai andato”, “aprendosi una via di fuga in un ventaglio di mare…nell’ubriachezza di una gioia delirante” (p.333): “non avrei più cercato ciò che era solo principio e che volgeva…alla fine…Era tempo ormai di salvarmi dal principio.” (p.337). Chiusa del senso di tutto il viaggio, di rigetto di ogni supponenza di dominio illusorio della totalità, fonte di naufragi e follie mortali. Al contrario, la tensione disarmata ad essa ci libera, salvando la gioia, la sacralità e gli spicchi di un possibile paradiso per ogni minuscola bacinella di vita.

Adam Vaccaro

5 comments

  1. Milena Tagliavini ha detto:

    Davvero avvincente , filosofico, profondo “Le crepe del Paradiso”.
    Un libro che, una volta terminato, desideri riprendere in mano per approfondirlo, calarti meglio nelle riflessioni di Caracci e restare ancora insieme ai suoi personaggi.
    Apprezzo molto anche l’intervento di Vaccaro che coglie l’opera in tutti i variegati aspetti.

  2. VACCARO ADAMO ha detto:

    Grazie Milena della condivisione!
    Adam

  3. roberto caracci ha detto:

    La recensione di Adam Vaccaro e’acuta e profonda. Lusinghiera per un narratore che trova lettori così attenti. Dopo le tante pagine che sono state scritte sul romanzo, tra cui quelle puntuali di Milena Tagliavini pubblicate su Odissea, vediamo qui un altro taglio interpretativo, originale e a volo d’aquila. Soprattutto apprezzo la suggestiva conclusione, che allude a un rivolgimento, una metamorfosi, a quella luce dell’alba che domina le frane e filtra tra le crepe del paradiso. Roberto Caracci

  4. Adam Vaccaro ha detto:

    Con Roberto Caracci si sono accumulati nei decenni tanti scambi, tra libri, reciproche letture, presentazioni, saggi e recensioni, diventate trame di un tessuto e una storia non solo culturale, tendente ad ampliarsi a condivisioni gioiose e affettive, quando gli scambi coinvolgono livelli profondi della complessità espressiva.
    Quest’ultimo libro ha consentito alla mia lettura di evidenziare sensi espliciti e impliciti, che hanno aggiunto trame al tessuto suddetto, con altri momenti di quelle “relazioni gioiose” di cui parlava Spinoza, a cui Roberto sa dare – con questo e altri suoi commenti – intelligente risalto e moltiplicazione di sensi. Fine di ogni azione, scambio e poièin, di cui quando si realizza sono fraternamente grato.

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