Donato Di Poce – Il limpido e il sommerso

Pubblicato il 8 dicembre 2020 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Donato Di Poce, Il limpido e il sommerso

Riflessioni su Lampi di verità, I Quaderni del Bardo ed., Lecce 2017
L’altro dire, Edizioni Helicon, Fano 2020

Laura Cantelmo

Di Donato Di Poce colpisce prima di tutto l’indipendenza nel rivendicare, con toni di pacata polemica, la propria “normalità” di uomo e di artista. La “normalità” di chi scrive versi, in generale, è in realtà un ossimoro, sia per chi osserva dall’esterno del mondo letterario, sia per chi si trova ad affrontare quotidianamente la sfida della parola, della musica, del mistero che in parte costituiscono la sostanza della poesia. Infatti insita nella natura stessa di quest’ultima – come dissero i formalisti russi più di un secolo fa – è la ricerca dello slittamento semantico del linguaggio al fine di rendere nuova e sorprendente l’immagine rispetto agli stilemi della consuetudine quotidiana. Il bello (o forse anche il brutto) di questo nostro tempo che ci vede scrivere nonostante tutto, è dato, a partire dal secolo XIX, dalla scomparsa quasi totale di codici linguistici all’interno dei quali poeti e versificatori si trovavano ad operare entro forme prefissate, rispettando regole ineludibili che costituivano lo statuto della Poesia in termini di linguaggio, di tessitura di immagini oltre che di suoni e di rime, e quindi di musica. Una sorta di gabbia dorata, concessa ad esseri ispirati da Muse che, pur nella faticosa adesione alle norme, li tutelava e li metteva al riparo, almeno in parte, da critiche feroci, nella consapevolezza che la poesia che affascina e conquista è comunque una rara e misteriosa fusione di pensiero e di intima armonia. C’è chi plaude alla scomparsa di quel sistema di norme e chi ne sente la mancanza. E c’è chi si muove con disinvoltura all’interno di questo mare magnum di conquistata libertà, senza però dimenticare il passato. Ed è a quest’ultima categoria che Di Poce appartiene. Parliamo di un Autore al quale sta principalmente a cuore esprimere il proprio Io senza torsioni semantiche e sintattiche, ma in modo limpido, privilegiando il livello pittorico delle immagini che scaturisce dalla sua attività di artista visivo.
E che non rifugge da strumenti retorici di carattere morfologico, quali assonanze e allitterazioni (“Cercheremo…Scaveremo…Sveleremo…Cancelleremo…) o da anafore, nell’intento di rafforzare concetti il cui significato viene dilatato dalla ripetizione e dalla concatenazione di unità linguistiche, facendo trapelare, con piccole sfumature semantiche, la parte sommersa e più vera del Sé. “Lampi di verità/In un’Italia piccola e impura,/Un’Italia che stava già smarrendo/ I bozzoli dell’utopia e della ragione.” Così recita il testo di apertura di Lampi di verità (che raccoglie poesie a partire dall’anno 2000), dedicato a Pierpaolo Pasolini e ad Enrico Mattei, introducendo il tema alla crisi morale, politica ed economica del nostro paese. Ed ecco il progetto che si manifesta in una poesia di intento civile:”Noi cercheremo/ Quella verità che sgorga dal vero/ E quella poesia che fa sognare/ Un nuovo mondo e un nuovo futuro”. Toni accesi e quasi messianici, dettati da una speranza che stentava a svanire (questo testo è ascrivibile al 2012) a cui succedono strofe che formano acrostici, attraversando vite di scrittori, di amici e luoghi della memoria come “Binario 21”, riferito alla tragedia della Shoah. Una scrittura che con varie modulazioni narra la solitudine dell’uomo (“voce del silenzio”), il desiderio d’amore, la scelta di uno stile privo di orfismi e di compiaciuti giochi linguistici: “Bisogna uscire da Sé/ Dal proprio buio/ Dalla propria assenza/…/Dire basta ai luoghi comuni/ Ai ricami delle parole innamorate…” (“L’Altro dire”).
Nella silloge omonima questi versi costituiscono una bella dichiarazione di poetica, con una dedica non casuale alla figura di Carmelo Bene, artista che volle “uscire dalle trappole del proprio genio” (pag.11), facendo della sua pervicace diversità attoriale un vanto che lo espose sia a critiche pesanti che ad entusiastici successi. L’uso metapoetico dei propri versi serve a Di Poce per manifestare in modo diretto la propria poetica, sempre all’interno di una vena polemica, ora esplicita, ora più velata. Una affermazione della propria identità di scrittore, della propria scelta stilistica, della propria libertà linguistica e di pensiero. Una poesia che sottolineando il valore della chiarezza e dell’autenticità si inerpica per ripidi sentieri in cima ai quali stanno il mistero, l’indefinito, il visibile e l’invisibile, evitando l’effetto straniante dovuto alla trasgressione dal linguaggio comune: “Grafèmi, fonemi, lessemi/ Lasciavi tracce ovunque/…./ Cercatore di armonie e polisemie/ …./ Donaci la grazia di un raptus CreAttivo/…/ L’Eco selvaggio del dolore/ Di un mondo che muore ogni giorno/ Inondaci di grafèmi, ma di poesia sazziaci”. (“Grafèmi”). Quello che un mondo ottuso “senza dignità” non vuole vedere, quelle “bare d’acqua” sommerse in un mare di indifferenza, sono la scena reale, la tragedia dei migranti, le vite inghiottite dal mare che solo il ”poeta immenso” vede. Il dolore, sempre sotteso, è insito come destino ineluttabile dell’umanità, persino nella scrittura, che può ridursi a “macchie d’inchiostro”. Così pure l’amore, rappresentato da indecifrabili figure femminili, riconducibili a personificazioni allegoriche della ispirazione poetica . In fondo ciò che Di Poce vuole è affermare la propria essenza di Uomo nel senso più autentico, aperto alla realtà del mondo e al dolore dell’Altro. “Ombre dal fondo”, seconda sezione della silloge L’altro dire, sviluppa il tema della la personalità dell’Artista demiurgo, creatore e distruttore delle proprie opere, consapevole della indipendenza della propria arte tra muri di separazione e ponti di condivisione. E poi, nella terza sezione, “Conseguito silenzio”, l’Autore approda alla sintesi del discorso che è andato dipanando: “Elogio dell’imperfezione” e “Conseguito silenzio” raccolgono segni di consapevolezza dell’umano limite, che conducono il poeta Di Poce a una catartica leggerezza, degna di un finale sfumato di contenuta ironia e demiurgica teatralità: “…In un silenzio creativo/ Ho posato la penna e non ho scritto più nulla/ Finalmente vivevo come avevo sempre sognato/ Conseguito silenzio!”
Milano, Novembre 2020

Laura Cantelmo

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