L’origine – di Domenico Cipriano

Pubblicato il 5 aprile 2018 su Saggi Poesia da Adam Vaccaro

L’origine e l’Appartenenza
In L’origine di Domenico Cipriano

Adam Vaccaro

Domenico Cipriano, L’origine, l’arcolaio, Forlimpopoli, pp.60, 7€

Ci sono poesie che leggiamo con una operazione mentale di sguardo dall’esterno del suo altro o estraneo, che il piacere del testo tras-forma in alimento di crescita della nostra identità, nel suo moto vitale, autopoietico e proteiforme. Ci sono poi testi (e intendo con ciò anche immagini, suoni, emozioni ed esperienze di qualsivoglia condivisione intensa), come L’origine di Domenico Cipriano, che sono materia e specchi subito riconosciuti parte di noi. È un tipo di condivisione che dona senso di appartenenza in quel tutto che possiamo prendere sempre e solo in parte, magari per “la grazia di frammenti/ provenienti da lontano”, o per qualche “dettaglio marginale – sepolto e inaccessibile –/ che compensa l’angoscia/ la distanza sconfinata dalle stelle” (p.23).
Già con questi versi viene divaricata la complessità non riducibile delle nostre esperienze. Di quel Tutto, che pure è utero che fa di noi ciò che siamo, non riusciamo peraltro a vincerne il senso di distanza insopportabile. A cominciare da quello che Claudio Magris chiama primogiardino, luogo della nostra prima visione e (ri)creazione mentale del mondo. In tutti i casi la poesia ci affascina se sa dirci che “la memoria è un cuscino ardente”(p.35), voce dell’anima comune nel mare di ricchezza e molteplicità di una umanità, che chiede virtude e conoscenza.
Una complessità che comincia nell’incrocio strabico che fa vedere anche noi stessi come “dal di fuori”. Ma il “chiarore della mente/ che non lascia arrendere la conoscenza”, può farsi epifania di una sollecitazione etica: “salviamo la distanza” (p.22). Che qui vuol rovesciamento di clessidra, operazione mentale e vitale per la quale ciò che ci appare esterno diventa nostro, il nonluogo diventa luogo, e l’estraneo diventa fratello. Il che vale anche per la nostra immagine riflessa in uno specchio all’inizio del nostro percorso di formazione. O parimenti per lo specchio-scrittura, rispetto al quale c’è l’atteggiamento di chi si compiace del suo tasso di falsificazione o ri-velazione; e chi, invece, come Cipriano, dice “Soffro la distanza della scrittura”(p.33), per cui tutta la sua azione poetica diventa (f)attore prezioso di una tensione tesa alla riduzione di tale distanza.

Le due tipologie di esperienze di piacere del testo, inizialmente qui richiamate, sono dunque solo in parte diverse, perché si collocano entrambe nel processo di costruzione incessante del prisma interminabile della nostra identità, oscillante tra due bisogni inseparabili: la conoscenza dell’Altro (anche in noi) e il bisogno di essere riconosciuti. Un moto con cui andiamo un po’ mendichi cogliendo quegli attimi d’infinito, grazie ai quali riduciamo l’alienazione di atomi perduti nello spazio, e riusciamo a sentirci adiacenti costruttori di senso. E di tale costruzione sono collanti indispensabili i momenti di gioia di conoscere e sentir riconoscere la nostra identità. Questo libro di Domenico Cipriano tocca e dice questo nucleo di senso: “Io sono/ tutte le terre che ho visitato/ anche se da una sola/ ho preso vita./ Lì / è rimasta ferma una ferita/ per ogni passo/ trascinato stanco/ per ogni sguardo/ che non mi riconosce”.(p.15)

È il centro e l’intreccio fabuloso di questo piccolo-grande libro. È la rincorsa del punto di partenza fatto di mille punti di partenza, in un intrico fenomenologico complesso che non può disegnare il bordo di un universo ontologico concluso, semplicemente perché tale bordo non esiste. Ma esiste, conscio, semiconscio, inconscio quel “guizzo della mente”(p.21), “L’istante/ dove spunta l’inizio dei pensieri/ la nascita”(p. 23). Saper vivere e farlo rivivere in noi “mentre tutto si trasforma/ incessantemente”(p.22), è il primo segreto della (nostra) vita. La quale ci chiede di fare di quell’inizio, paradigma e replica di ogni altro “nuovo inizio”(p.21), “oltre la memoria conosciuta/ dove un’origine smarrita ci appartiene,/ tra steppe e ghiacci siderali, gusci di conchiglie consumate” – da cui possiamo-dobbiamo ripartire, solo se non “assumiamo il profilo della terra incolta”, se non ci arrendiamo e “ricominciamo”(ibidem). Superfluo persino sottolineare come il soggetto, da singolo si fa collettivo, superando con ciò implicitamente anche tanti noiosi dibattiti sulla riduzione dell’Io.
Sin dai primi testi, possiamo cogliere già tutto il senso di questo intenso libro, teso a concentrare (al contrario di tanti libri di poesia che moltiplicano pagine e parole senza soddisfare ciò di cui abbiamo disperato bisogno): un senso altro rispetto alle parole-merci e alla mercificazione di ogni cosa, declinata dal pensiero dominante e dal suo sogno di essere ormai pervenuti a un eterno e immutabile presente.
Bisogno, fame e sete di un pensiero che apra visioni altre, rispetto alle chiusure e alla catastrofe antropologica in atto. Questo libro vi (cor)risponde con un intreccio di festa vitale, matericità biologica – “Siamo acqua e neve cupa”(p.36) –, pensiero critico e disegno di speranza, in una complessità fondata non su spiritualismi ideologici o millenarismi salvifici, quanto su una ciclicità che è sì nella cultura contadina, ma priva di nostalgie a testa indietro, perché riconnessa a metodologie moderne, dalla biologia alle nuove scienze, alla fenomenologia – dai primi bagliori nel penta rei eracliteo e in Epicuro, agli squarci grandiosi della fisica quantistica, che irridono ogni resa alla terra incolta, abbandonata ai deliri di onnipotenza di chi domina il presente.

Questo libro di Domenico Cipriano sa dare forma a un moto dinamico che implica la rottura culturale di tale guscio. Ma occorre sottolineare che il pensiero che traspare dalla tessitura testuale è solo lo scheletro. La poesia che quest’ultimo sorregge è fatta di un ventaglio di ritmi e musica profondamente assorbita, vissuta e tras-fusa nei versi. È la musica che resiste lungo le creste di pensieri e tragedie della storia, e che qui sostanzia una linea espressiva già evidente all’avvio del suo percorso di formazione (vedi “Il Continente perso”, del 2000), di cui pure mi occupai: “Anche la luna rossa è andata via” dalla “faccia sonnabulocarsica dei portoni abbandonati”(p.41)
Entro tale quadro, si ripropone in ben altri termini anche l’annosa questione della poesia lirica. Basta ricordare il Leopardi che parlava di parola materiale e lirica, contro ogni spiritualismo deteriore. Certa Neoavanguardia ha trasformato in fondamentalismo ideologico la battaglia contro il lirismo, dimenticando che il canto della materia è ben altra radice di poesia. È stato un limite, che oggi dovrebbe essere storicizzato e superato. Purtroppo non è, altrimenti sarebbe attualissima la necessità di riaffermare una linea dantesca, rimasta minoritaria rispetto a quella petrarchesca. A suo modo, Cipriano si muove lungo tale ardua linea di ricerca, a caccia di ogni seconda ed ennesima nascita: “Si accetta la vita ricevendo il latte/ e il gesto si rinnova coi pellegrini di ogni tempo” per “la grazia di ricondurci al mondo”(p.43)
L’Autore procede in una sorta di allucinata e visionaria cavalcata attraverso i millenni, dall’australophitectus denominato Lucy a voci-corpi innervati nella storia recente, della poesia (Majakovskij, Pasolini e Borges), della narrativa e del cinema, fino a blog del territorio natio (Irpinia Paranoica). Sin dai versi in esergo, viene aperto il sipario sulla ricchezza concentrata offerta e sull’invito a proseguire nella lettura, che faccio mio con questo scritto, aiutato dalle musiche richiamate col paratesto e intrecciate con i ritmi dei versi.
Tutto è ricondotto in un martellante invito di “Guida all’ascolto”, ribadito in testa alle tre sezioni, richiamanti colonne sonore e albums del norvegese Jan Garbarek, di Mark Orton, a Charlie Haden. Anche qui si riafferma il bisogno del molteplice, attraverso timbri e linguaggi diversi, utili ai vari momenti della propria poesia. Ritmi provenienti dall’America e dall’Europa, in generi che percorrono crinali tra il folk e il jazz, tra musica da camera e il pop più geniale quale quello dei Beatles: per “avvinghiarci alla bellezza…al sentimento di sentirci vivi”(p.44), a partire dal silenzio degli ultimi, “il silenzio…nei volti sinceri/ che non chiedono/ altro in cambio, né dicono, eppure sanno.”(p.51).
3 Aprile 2018

Adam Vaccaro

One comment

  1. Domenico Cipriano ha detto:

    Adam Vaccaro, che ringrazio per questa ampia e dettagliata nota, è riuscito a cogliere il senso di appartenenza, di circolarità e ritorni e, soprattutto “fame e sete di un pensiero che apra visioni altre, rispetto alle chiusure e alla catastrofe antropologica in atto”. Grazie per la fiducia nella mia poesia. Domenico

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