IL “LUOGOMONDO” DI GIUSEPPINA AMODEI

Pubblicato il 13 settembre 2013 su Saggi Poesia da Adam Vaccaro

IL “LUOGOMONDO” DI GIUSEPPINA AMODEI

Giuseppina Amodei LuogoMondo dentro il Mito – EdiLet, Roma, 2013 p. 158 € 18.00

Giorgio Linguaglossa

La lettura di LuogoMondo mi ha suggerito alcuni interrogativi generali e preliminari. Considerazioni utili anche a parametrare il mio orizzonte di pensiero critico rispetto all’opera di Giuseppina Amodei. Prolegomeni alla critica più che critica vera e propria? Anticamera della critica?

Il primo interrogativo riguarda il rapporto tra le poetiche e le opere d’arte. Perché LuogoMondo è un libro, ad un tempo, di poesia e di poetica. La poetica della Amodei è il «viaggio» «dentro il mito», cioè il viaggio come occasione: creare il mito di una esperienza significativa che si svolge nel presente, nell’attimo dell’«incontro». La Amodei in proposito è chiara, infatti scrive: «Non voglio incontrare me stessa»; e ancora: «Non amo le metropoli // I loro labirinti ingannano i miei passi / e mi smarrisco come un vagabondo» Il proliferare delle poetiche nel Novecento, si è detto, è il segno del dibattito, del dialogo che sorge intorno all’opera, proprio in quanto essa è istitutiva di un «nuovo mondo» (o di un «luogomondo» come lo chiama l’autrice); ma è anche vero, è stato detto, che il fenomeno delle poetiche ha la sua spiegazione nell’orizzonte del «vecchio mondo» al fine di creare il «nuovo mondo» che l’opera inaugurerà: il fenomeno delle poetiche non sarebbe tanto un modo dell’abitare e del dialogo con l’opera, ma ciò che rende possibile, oltre il mondo dell’opera, la fondazione del suo «luogo» nel mondo. Per la Amodei il «mondo» va esplorato nei «luoghi», intensamente vissuto nei «luoghi», anche se distanti secoli o millenni nel tempo e nello spazio. Innumerevoli sono i «luoghi» visitati dalla Amodei, ma sono «luoghi» anche le persone dei poeti e degli scrittori rivisitati dall’autrice (Borges, Saramago, Kafka, Pessoa, Alighieri, Luzi, Szymborska, Alvaro); così i «luoghi» diventano «luogotempo» e «luogospazio», luoghi immaginali e reali, città sepolte e dimenticate e umili compagni di viaggio come i domestici della sua casa fuori Firenze. C’è questo panismo, questa apertura al «mondo» degli uomini e delle «cose» in questo libro che stupisce: se così è, il linguaggio-parola assume un carattere super-eventuale, sottratto alla relatività dell’ambito del «mondo» e diventa ciò che domina la pluralità dei «mondi» e li mette in comunicazione: una conclusione simile che assegna al linguaggio un valore trascendentale e meta-mondano, che, peraltro, forse non dispiacerebbe alla poetessa calabrese; si tratta di capire in che termini, però, giacché se l’essere-linguaggio è una dimensione trascendentale, l’opera poetica sarà semantizzata in termini di «struttura permanente», immutabile, il che è ben lontano dagli intenti della Amodei la quale invece credo voglia semantizzare l’esperienza mutevole del mondo; questa è la giusta metodologia di intervento nell’apertura del mondo; in esso non è data alcuna posizione dominante al carattere veritativo dell’essenza come di un rivelarsi e di un darsi, ma è il viaggio che l’autrice compie attraverso «volti e luoghi mitici della Calabria», «le caseRadici», «viaggio tra le Ande», «Babilonia perduta», «Tarquinia», l’«India», la «Sfinge». Ecco la città di Jaipur:

La città ha il colore della cipria

le finestre sembrano merli di marzapane

il bazar profuma di spezie

– pungono le narici – i drappi di seta

appesi come fossero tendoni

splendono di fili d’oro e di cobalto

Ma c’è sempre una zona di esperienza significativa che ci sfugge: «Qualcosa ci sfugge / il segreto / sta in un grano di sabbia / oppure in quella duna / che cambia di continuo / o negli occhi bruciati dalla tempesta»; inutile rovistare tra i «sarcofagi», tra «Marylin e le altre» o «i nuovi gladiatori»: è destino che il senso di una esperienza significativa sia quello di sfuggire alla cattura, di eludere gli sforzi dei filosofi e dei poeti. Come non c’è una essenza autentica se non nell’inautenticità generale del mondo semantizzato («non si dà vera vita nella falsa» ha scritto Adorno), così la poesia della Amodei accetta il «viaggio» nel «luogomondo» entro i canoni della marcatura, della struttura, della metratura stilistica (del verso libero militarmente liberato?) in strofe, e fin qui nulla di male; accetta di stare dentro la marcatura di un concetto di «poetica aperta» (al viaggio e alle esperienze significative); accetta le contraddizioni e le antinomie della prassi poetica che il Novecento ci ha lasciato in eredità, secondo cui la forma-poesia sarebbe non solo un prodotto di semantizzazione, di modellizzazione secondaria di un altro «testo» ma il prodotto di una riflessione sul «mondo» visto e conosciuto attraverso i suoi «luoghi; è comunque con questa verità che la Amodei accetta di fare i conti: Di qui la sussunzione del viaggio nel villaggio globale, esperienza primaria che anima la poesia della Amodei: viaggio-dialogo, dialogo interlocutorio, dialogo enfatico con i personaggi e i luoghi che interagiscono con l’«io» dell’autrice.

La seconda interrogazione riguarda la nota tesi della mitologizzazione dell’opera d’arte. Gianni Vattimo, per rispondere a questa domanda, sostiene che poche opere d’arte possono essere considerate come «fondatrici di mondo», e tra queste ritroviamo, ad esempio, la Bibbia o la Commedia di Dante. Possiamo considerare queste opere fondatrici di mondo?; se proviamo ad abitare il mondo della Commedia ci accorgiamo di essere circondati da un tessitura simbolica in forma di viaggio che non possiamo capire, vivere, utilizzare, se non in riferimento a qualcosa di esterno al mondo dell’opera, cioè il contesto storico. Vattimo ci taccerebbe di sociologismo spicciolo, ma si tratta allora di capire in che termini un’opera è abitabile e se essa possa costituirsi anche come territorio ostile, inabitabile, radicalmente refrattario a qualsiasi ermeneutica: non è un fatto secondario che un’opera sia più abitabile in un periodo storico e meno in un altro; questo fa pensare che il «mondo» di ogni opera è inscritto sempre in un «mondo» più ampio secondo una geometria concentrica di «mondi» possibili. Credo che la definizione di un’opera come «fondazione di mondo» non dovrebbe dispiacere alla Amodei, non «enciclopedie tribali», come i poemi omerici o la Bibbia, come genesi culturale di una civiltà e di un popolo, struttura del suo ethos ma come dispiegamento psicologico di una totalità di esperienze possibili. Se proviamo ad «abitare» le migliori opere del tardo Moderno, a partire da Satura di Montale (1971), ci rendiamo conto che non c’è più bisogno di stare al di fuori di quel mondo che l’opera poetica ci indica. L’opera poetica tende a diventare autoreferenziale: riflette il viaggio all’interno dell’«io». Lo scetticismo di Montale, così come anche la disperazione di Helle Busacca nella sua trilogia (I quanti del suicidio del 1972), non richiedono che un intervento privatistico del lettore, oppure un intervento «politico-privato» come nel caso della Busacca. Il lettore non può abitare quel «luogomondo» che gli resta estraneo e che vive con estraneazione. È l’estraniazione la categoria dominante della grande arte del Novecento (Beckett, Kafka, fino agli attuali Tomas Tranströmer, Wallace Stevens, Zagajevskij), che la poesia della Amodei importa nella propria forma in grande quantità.

Altri poeti, come Zanzotto (La Beltà è del 1968) e Maria Rosaria Madonna (Stige è del 1992), si rifugiano in una neolingua illogistica mediante la de-semantizzazione e la ri-semantizzazione del significante. Che cosa resta del mondo semantizzato e desertificato se non la necessità di una nuova riconfigurazione del linguaggio?. Dal punto di vista dell’ermeneutica del testo, il lettore, dopo ogni lettura, è costretto a ricominciare daccapo, a riformulare la precedente lettura dell’opera poetica che richiede il suo ingresso interattivo nell’opera. Certo, la poesia di «LuogoMondo» della Amodei riflette questa problematica epocale: è una «esperienza privatistica», il suo «luogomondo» è l’esplorazione di un significato, di un senso privato. Per la Amodei l’essere è l’incontro con l’altro, il suo eventualizzarsi per l’altro; così nasce il senso mediante una «esperienza significativa». Un altro interrogativo è la scomparsa della metafisica: o meglio, la rarefazione delle questioni metafisiche che si eventualizza anche nella poesia della Amodei (ma in Helle Busacca come in Maria Rosaria Madonna e Maria Marchesi è la cronaca «privata» ad essere trasformata in metafisica!); così, per dirla con Adorno, la «metafisica trapassa in micrologia». La Amodei vive il viaggio attraverso il tempo e lo spazio con la curiosità dell’esperienza significativa: la posizione stabile dell’io nel «viaggio» nel «mondo» e nel «mito». La Amodei spolvera il «viaggio» da tutta la polvere dell’io e della quotidianità più corriva; il «viaggio» è qui ricerca di una identità e di una autenticità. C’è come una pagliuzza nei nostri occhi, quella «pagliuzza» che, come scrive Adorno, «è la nostra migliore lente di ingrandimento». Se manca, oggi, un fondamento su cui poggiare la composizione poetica, quello che un mio amico con cui collaboravo nella redazione di «Poiesis», in un saggio uscito postumo, Giuseppe Pedota, Dopo il Moderno. Saggi sulla poesia italiana contemporanea, chiama il «principiale», per la Amodei il principio è il «viaggio», la ricerca dell’identità. Questione non da poco.

(da) LUOGOMONDO – Dentro il Mito

(I miti altri)

Dheli

È forte il sospetto

che dio non esista

non quello della giustizia

Incolmabile differenza

tra i corpi avvolti nei sari

che sembrano fiori tra i fiori

e le vesti gialle di merda

Tra le dita cariche di anelli

e le mani a tenere un piatto di legno e scarafaggi

E non ho visto Calcutta

né il Gange

discarica di teste ed ossa spezzate

(ne ha parlato un ragazzo incontrato per caso

all’aeroporto di Kuwait City

gli occhi ancora carichi di rosso

e la bocca pronta a vomitare)

E non ho visto i lebbrosi

(credevo che le isole

dei corpi bendati

fossero leggende di metropoli

ma poi

me ne ha parlato l’amica Leda

definendo l’incontro

un’esperienza divina

mentre io insultavo ogni divino

sputando sulla novella del libero arbitrio)

E noi

e loro

ad invocare il carma

per non costringere la sporca coscienza

a interrogarsi

su quel bambino dalle mani di elefante

che si arrampica sul muro come un geco

(e loro e noi

ad invocare il dono di Ganesh

per non interrogarci sul perché

delle storture orribili del corpo)

Dovremo pur decidere

– prima o poi –

se siamo somiglianti

a Chi ci guida verso la salvezza

oppure solamente

giocattoli tristi

nelle mani di un gruppo annoiato

che inventa ogni momento

un nuovo scacco matto

(da) Epilogo

Ebbene sì

adesso

il gioco del veleno non funziona

L’ultima goccialacrima

ha fatto vomitare

ogni mare ogni oceano ogni vulcano

Sono colmi i bicchieri

le anfore le botti le bottiglie

piene di sangue e merda

di ogni RetoricaPotere

Ebbene sì

Adesso è giunto

il tempo di sfondare le poltrone

sfrattare il culo grasso

– impotenti potenti senza orecchie

senza naso e cervello per capire

che non si può ingannare

chi guarda con lo sguardo panorama –

*

Ci avete fatto credere

che il mondo fosse una sorta di Giardino

dove l’erba è di tutti

Senza frutti

questa nostra attesa

MA

Il Poeta ha l’occhio del Gigante

avvolge la sfera della terra

globo imperfetto da millenni

che cerca di scuotere la crosta

e le scorie del male

È uno sguardo terribile

e benedetto insieme

capace di scrutare in ogni spicchio

senza schermi ed inganni…

MentePoeta

umile guardiano

spezza l’arma del sé

volge la TestaPanorama

verso l’altro da sé

Non abbiamo bisogno di ReMida

né del brillare dei diamanti

ma il raccolto dei corpi

e dei pensieri

dei vecchi dei bambini delle madri

E

se si spacca il vetro delle unghie

e lascia cadere solo sale

qualcuno sa

come cogliere in tempo

il frumento del Bene

Non abbiamo bisogno di Narciso

anneghi pure

nel suo stesso specchio

Oggi i volti saranno senza rughe

liberi di riflettersi

dentro i volti di ognuno

La nostra LinguaPoeta

diventa una terribile tenaglia

che tenta di recidere a ogni passo

l’intera staccionata di confine

perche ora

– che è stato oltrepassato

ogni confine

della decenza –

possa purificarsi ogni liquame…

Le nostre mani

non hanno cinque dita

sono coppe dell’olio della mente

(anche se sanno diventare

vasi scrostati di Pandora

quando il vento

si fa violenza)

Nessuno osi battere martelli

e legni e cinghie sulle nostre mani

perché il dito opponibile

non è dono precario

ma sistema

per recidere il MitoFalsoMito

quel cordone

che da sempre ci lega

all’infame placenta del dolore

Il cuore del poeta

da troppo tempo

si è spezzato invano

Adesso è tempo di chiudere ferite

sbrani brandelli cicatrici oscene

prima che i vermi

mangino ogni tèndine

del muscolo che pulsa…

Cosa cerchi

respiro del Poeta?

Ti illudi forse di essere divino?

Accontèntati

Il soffio tuo raggiunga

ogni vetta ogni abisso

ogni misura

Senza paura

è giusto navigare

nell’AgoràGlobaleImmaginaria

dove eravamo in cento

e dopo in mille

a migliaia e migliaia e poi miliardi

uniti dal linguaggio universale

creato dai cervelli del binario

Non abbiamo paura del progresso

Ora è tempo di nuovi intendimenti

del testimone

che passa col suo fuoco

da Poeta a Poeta

Artista e Artista

nell’incontro presente col passato

Ora che la distanza

prossemica natura geografia

ha portato la Terra

sotto lo sguardo di ogni creatura

con putridume e con indifferenza

ma anche con Giustizia

e con Ragione

Saremo

in ogni parte

Nei vicoli nei porti negli anfratti

dentro case comuni nelle piazze

dentro le viscere degli oleodotti

nei buchi dei MuriReligione

nelle capanne dalle pance gonfie

dentro ferraglie dei carri-carrarmati

Dentro la via silicio di internet

Ovunque il luogo

delle nostre nocche

che non temono graffio né ferita

del filo spinato e delle gabbie

– mani che stritolano il guscio

per far nascere gioia ed armonia

denti che azzannano la carne

di chi resta nel nudo

dell’ignoranza e dell’ipocrisia –

Ovunque il luogo della nostra voce

che più non grida ma canta-corifea

Ovunque

il nostro piede sa danzare

nel Giardino del Mondo

Non nell’Eden di miti ormai vissuti

Ma dentro la realtà della Ragione

MadrePoeta

il tuo cordone lega

infiniti bambini

feti senza fetore

corpi e pensieri nati

dal sentimento estremo dell’amore

5 comments

  1. Angela ha detto:

    Cara Pina,
    l’analisi minuziosa e attenta fatta da Linguaglossa nella sua critica al tuo poema, coglie tutta l’essenza del tuo essere poeta “oggi”. I tuoi versi toccano l’animo, lo scuotono e lo portano a riflettere su questo nostro vivere sempre più superficiale ed egoistico. Grazie di regalarci, attraverso le tue parole, momenti di vera poesia. LuogoMondo è sinceramente il massimo, fattelo dire, anche se lo detesti, SEI BRAVISSIMA!! Sono molto orgogliosa di avere una cognata come te. Ti voglio bene.

  2. LuComplimenti giuseppina!!!!!!!Luogomondo è via, catarsi e salvezza a portata di coscienza

  3. Lorella ha detto:

    Cara Pina, sei GRANDE!Il tuo stile e la tua profondità di pensiero sono inimitabili. Grazie per essere tra i miei affetti

  4. rosaria di donato ha detto:

    Molto bello il linguaggio al pari delle tematiche trattate. Tutto estremamente attuale: anche la musicalità dura e forte scandita dalle molteplici allitterazioni.
    Vorrei essere uno di quei Poeti che prende il testimone da Giuseppina e lo passa…

    Un caro saluto,

    Rosaria Di Donato

  5. Lia ha detto:

    Un’opera superba per il tempo in cui viviamo, ma lo sarà per sempre. Grazie Pinuccia. Mi manchi e mi mancherai sempre di più.

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