Maybe It’s Raining di Stefano Guglielmin

Pubblicato il 15 maggio 2015 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

Il percorso dalla Lingua al Mondo di Stefano Guglielmin

In Maybe It’s Raining – Selected Poems 1985-2014 – Chelsea Editions, New York, 2014.

Translated by Gray Sutherland

Adam Vaccaro

La struttura del libro attiva un moto dall’interno all’esterno, che apre come ad albero o a fiore, da uno stelo e radici profonde che desiderano misurarsi e dire dell‘altro. Procedendo un po’ a “strappi e frazioni” che, pur in forme molto diverse, hanno punti di contatto col mio “Semi”. Consonanze, dunque, di ricerca di un po’ di verità: “Infatti/ si muove” (p. 24) l”io seme” cercando man mano di diventare “parola prato” (pp. 40-42), “dovrebbe …nudo leggere pessoa/ il pluriverso” (p.7), aprirsi al noi e al “Dappertutto” (p.44), “per fare del luogo il luogo” (p.7), anche se la “Distanza” tra Dio (nome dell’Inconoscibile, per una visione agnostica) e la vita che scorre e, ugualmente, tra l’Io del Dio Poesia e Vita, rimane “immedicata” (p.48).

Ma questa, per Guglielmin, non implica una resa o un punto di arrivo, è una sfida per il poièin a resistere. Vedi la vendetta della vita e della “via dei canti”, pp. 60-62.

Per questo, per dirla con le mie categorie analitiche, tende a essere poesia dominata dal logos dell’Io e dalle sue modalità di utilizzo della lingua (non a caso, penso, il titolo di uno dei suoi libri richiamati in questa autoantologia, è Logoshima, invenzione peraltro fascinosa). Ma tale dominanza è poi depotenziata da squarci e salti di sensi in cui agiscono le pressioni dell’Es, col risultato che la cerebralità evita l’ideologia della Verità e sfocia in qualcosa che ricorda le forme sferiche di Arnaldo Pomodoro.

Il che ci dice anche che ogni metodologia di analisi si deve guardare dall’idiozia di saper cogliere il tutto di un testo. Perciò sono proprio gli squarci non totalmente sondabili, aperti nell’apparente tondo parmenideo del seme o nucleo iniziale, che aprono al flusso vitale e al panta rei eracliteo, attraverso ovviamente la lingua operata da Mod-Es, che sfuggono al controllo della direttrice metaforica dell’Io, per farsi veicoli di un direttrice diversa, che tende a fare di ogni parte immagine totalizzante, quale è quella metonimica.

Cito alcune di queste parole ricorrenti, utilizzate a tali fini e funzioni, che sono di sonorità, di sensi e di poetica – in cui, come vedremo meglio, rimane forte la coda del termine, etica.

Oltre ai termini già citati, e cioè Io, Lingua, Seme, fiore, prato, sono cruciali e utilizzate ai fini espressivi suddetti: Forbici, pioggia, vuoto, aria, foglia e, tra le più cruciali, pietra e caduta.

Così, le forme si muovono con “La lingua-mano” che trova “il fare grosso del respiro” (p.50). Seppure il problema rimane: tra sé e mondo c’è “poco giro/ d’aria intorno poco respiro” (“poesia era l’enorme vuoto”, p.50), rimane nella distanza tra cose-pensiero e cose-cose. Ma la speranza resiste magari in forma di preghiera-poesia, o in oasi e pietra-poesia (pp.68-78) che resiste alla “caduta”, immagine in Guglielmin connessa alla perdita irreparabile della morte, resiste con i suoi attimi…di infinito. Inventando una musica anche, o soprattutto, in quel momento – vedi Ouse (testo intenso e bellissimo di p.70, col suo appello a osare, nella lingua del già citato Pessoa) : “quando poi, cadendo/ la foglia si fa musica/ c’è sempre qualcuno/ lontano/ che muore // cadendo/ si fa musica/ e muore”.

Dunque, a partire da un nucleo-uovo iniziale e inestricabile, in cui tutto pare nasca dalla lingua (p.174), anche se tra Io e Lingua è difficile dire chi genera chi, “L’impasto dell’origine” (p.22) raggomitola e sgomitola di continuo lingua, Io e poesia cercando limiti e corpo, “l’agonia protesa all’oltrevisto” (p.20). L’Io diventa così molteplice, seme e insieme sciame, costellazione, piccola galassia (p.28) in terza persona che osserva osservata tra vuoti, distanze e resistenze.

Ma il percorso di ricerca di Guglielmin non potrebbe essere adeguatamente collocato e condiviso senza un dato-verità (sotteso e man mano dipanato) di una realtà che tende a disegnare un orizzonte privo di aperture e speranza. Il Percorso che parte, ovviamente, dal poièin, dalla lingua (pp. 12 e 16) e dal soggetto che la attiva. Ma per cosa e da cosa è mosso?  Dalla responsabilità acutamente sentita di dare conto della relazione col mondo, in particolare con i suoi orrori e le sue ignominie, cercando pervicacemente (con necessità riconducibili al Superìo, Mod-Sup) di evitare falsità e ornati ideologici.

Il moto, infatti, esplode per così dire nella sezione “C’è bufera dentro madre” (p. 86), che con testi in prosa entra nell’agonia infinita del mondo borghese, dello “spirito d’impresa” che fa scempio di ogni altra cosa e valore, entra nel corpo della madre-vita comune che ci contiene. Qui più che canto, si conta il saldo (dis)umano del soldo. L’elicoide dell’Io si sfalda e sfrangia in un corteo di molecole che corrono insieme al Resto alla ricerca disperata o impossibile di senso umano, mentre mostrano o si inerpicano negli squarci del suo contrario.

Tutte le tematiche vengono poi come ricongiunte e declinate in altri termini nella sezione “Le volpi gridano in giardino” (p.168). Le elucubrazioni oscure, le cadute e perdite trovano momenti di forme lucide, limpide: “Poesia significa, qui, stare fermi/ sulla giostra e darsi pace naufragando” (p.184), un fare tra “ridere e morire”, un punto raggiunto e messo a nudo in “Canti partigiani”, in particolare in “Paesaggi con poeta” (p.188), una poetica che ha orrore di una poesia che infiora e fa da ancella (mentre declama magari il contrario), al potere, ai poteri che scannano e depredano la Terra, la Speranza e la Vita. È il punto cruciale (vedi il testo di p.194).

La sezione finale di inediti è una piccola corona di pietas, costituita da poesie che sono una sorta di personale Spoon River, di vite (rap)prese come in un lampo, in un flash di furore calmo e amore arreso alla legge ineluttabile dei nostri limiti, ma anche in/contro – magari a mani nude – sciabole che vorticano nella canea che li re-stringe, mentre ci illude di ampliarli.

Ecco, per concludere, una poetica che alla fine prova a legare “forbice e fiore” (p.210), sul ciglio della nostra storia tra idea (sempre più sguarnita e povera) e Ikea (p.220), provando a legare a suo modo, resistenza etica, impietose immagini del mondo in decadenza contemporaneo, pietas e lembi di levità e ironia.

Maggio 2015

Adam Vaccaro

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