Luca Ariano – Contratto a termine

Pubblicato il 12 febbraio 2019 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

In questa nostra precaria esistenza
Adam Vaccaro

Luca Ariano
Contratto a termine
Qudulibri, Bologna 2018

Questo libro (si) pone l’obiettivo e la sfida di poter trovare una forma poetica che risponda alla crescita, nell’arco degli ultimi decenni, di enormi difficoltà concrete della vita vissuta dalle masse lavoratrici prodotte da un capitalismo fondato su una visione, una ideologia e una prassi neoliberiste, in una cornice non più nazionale ma mondiale.
È possibile creare una espressione poetica che si faccia voce di condizioni di estrema precarietà e livelli di sfruttamento arretrati in pochi anni a livelli prossimi a quelli della prima metà del secolo scorso?
Luca Ariano prova a dare una risposta con testi come in presa diretta su condizioni, che contraddicono le declamazioni retoriche di civiltà dei poteri occidentali. Si potrà dire – da parte di chi concepisce il poièin entro moduli che hanno contribuito a porre gran parte della poesia contemporanea in un mondo a parte e pressoché senza pubblico – che non è questa la risposta adeguata. Che la poesia non può fare a meno di rinnovarsi senza diramarsi da tronco e rami creati dalla storia delle forme precedenti.
Ma è anche vero che il Novecento ha fornito, non solo in poesia, esempi di rotture totali di forme. Dunque occorre riformulare anche modalità di lettura per poter dire se una forma o l’altra possa dirsi poetica. Da parte mia ho sviluppato una ricerca che ho chiamato Adiacenza, attraverso la quale ho approcciato la lettura di testi diversissimi, con la convinzione che il fascino e la funzione della poesia, scattano quanto più tutte le lingue del corpo sono nel corpo della poesia. Da cui, la domanda, leggendo un testo: nella sua trama agiscono tutti i linguaggi che costituiscono il corpo e l’identità del Soggetto Scrivente (SS)?
Questa è una sfida che non è solo di Ariano, è di chiunque senta la necessità di tradurre qualcosa, qualunque cosa, in una forma chiamata poesia. È una sfida che non può avere sicurezze, come quelle che in modi diversi possono avere la stesura di formulazioni critiche, di un rendiconto, di un documento, o anche di una prosa creativa. In questi altri casi, ci sono metodi, grammatiche e linee progettuali che guidano la stesura. Con la poesia, invece, anche nel caso di bisogno di narrare una storia, il gesto poetico si caratterizza come progetto ignoto al SS, perché se l’ipotesi da me fatta è valida, tra le lingue che agiscono e fanno il corpo ci sono anche le modalità di utilizzo di esse da parte dell’ignoto in noi, chiamato Es o inconscio.
È una parte che non possiamo controllare ed è disinteressata alle grammatiche e ad ogni altra regola dell’Io. È una parte che muore dalla voglia di parlare, e al tempo stesso di nascondersi nella sua essenza immersa nel rimosso dell’Io, che gli vieta di parlare. Senza una trama riconducibile al ritorno del rimosso non c’è poesia. Ma la trama riconducibile ad essa può acquisire mille forme, non può essere riconnessa a un’unica forma, visto che nasce proprio da esigenze fondate sulla rottura delle norme. Nella poesia classica fu incanalata nelle sonorità assonati e nelle rime, che soddisfano il suo bisogno di ripetizione, di ritorno e di nostos (vedi ad esempio nelle canzoni, la funzione del ritornello). Se tali modalità si evidenziano e diventano elementi portanti nel rap, nella poesia moderna, diventano meno sostanziali, rispetto a immagini polisemiche, ritmi connessi a salti logici ecc..
Rimane però una forza della forma del poièin più ricco nei secoli, la capacità di non essere solo esercizio sonoro acquietante e consolatorio come una ninnananna, ma di avere una trama portante di pensiero critico sul contesto presente, di essere esercizio di memoria e di virtude e conoscenza. Trama connessa ad altro dall’Es. Dopo di che il poièin può anche dare l’impressione di fare centro a occhi chiusi, ma la sua magia è frutto del coinvolgimento della totalità delle lingue e dei sensi, che apre a quel piano superiore leopardiano, a una sorta di supersenso o sesto senso, che non scaturisce dall’Io, dall’Es o dal Superìo, ma solo dalla rottura degli argini intrasoggettivi e da un orgasmatico concorso fraterno di essi nella totalità del Sé.

Possiamo perciò procedere alla verifica sui testi di Ariano, se e come tale coinvolgimento totale agisce in essi. Il testo di avvio, “Sulla Via Emilia”, merita di essere citato, almeno nella prima strofa, per dare il sapore, i ritmi, gli enjambements e il colore di questa scrittura: “Di cancelli serrati, di ciminiere/ spente – ma senza viaggiare/ troppo lontano: per sentire/ il sapore delle zanzare sulla pelle/ e il calore umido del riso./ Tra parrucconi aristocratici con/ quelle erre che frustano le orecchie/ e graffiano le corde, mentre lo sguardo/ delle rughe si scalda nel bicchiere” (p.14). Oltre ad echi musicali di letture lontane (come “Dagli atri muschiosi…”), il testo trasmette il bisogno di resa di una materia che però sfugge.
Ne scaturisce una sorta di narrazione filmica, dal basso o, come dire, rasoterra, a partire dalle strade, dalle case, dal territorio e da chi lo percorre, gomito a gomito. Poi le Modalità di linguaggio dell’Es (Mod-Es) creano smottamenti, salti di spazio e di tempo, flash-back, perché per tale livello mentale il tempo non è lineare, ma circolare, sempre passato e sempre presente. Ad esso basta un niente – un profumo, un sapore, un gesto, un refolo musicale – per volare indietro di decenni: “Un colpo di spugna a raschiare il tavolo/ ed eccoti in quei luoghi dove il piede/ non calza più scarpe” (p.26). Sono segni di accavallarsi di bisogni di ritorni, di sguardo teso a forare il tempo, in cerca di squarci di memorie collettive, fino a slarghi di storia millenaria, per poter ritornare qua e cercare qualche risposta. Risposte di cui però il presente è molto avaro, se non completamente privo.
Si produce così una frattura, fatta di una serie di fratture che creano spaesamento e senso di impossibilità a ricostruire un’immagine che pure sembra tangibile. I quadri sono concreti, definiti in minimi particolari, ma al tempo stesso, sfumati, sbiaditi come vecchie fotografie. Il risultato è sempre come a un passo dal raggiungimento del bisogno di bilancio, che tuttavia finisce in un pugno di mosche stritolato nelle mani.
Da un lato agiscono le esigenze dell’Io di un linguaggio (Mod-Io) capace di rendere un racconto immediato, visivo, tra territorio e personaggi, che slittano da un io a un tu, fino al noi, con verbi spesso al presente o all’infinito presente. Dall’altro le Mod-Es rompono di continuo l’intreccio e la tessitura, per indicare la mancanza di fondo di un contratto affidabile con la realtà. Il testo dà quindi corpo coerente al titolo della raccolta. Il contratto sociale in atto è precario, a termine, e la sua ri-creazione testuale non può restituire la falsità di una tenuta rassicurante.
La domanda è però obbligata: se il film è dal basso, la risultante espressiva (in qualunque forma sia) può essere diversa? Ma anche al di fuori di uno specifico contesto e status sociale, Ariano fa acquisire al nome che definisce la propria condizione un senso generale e universale. Perché il nostro contratto con la vita non è forse, sempre e comunque, a termine? Per cui, il suo, non è un contributo di lamento, ma di conoscenza, donato da una identità che cerca disperatamente di resistere alle tensioni centrifughe che le logiche socio-economiche dominanti producono sul proprio equilibrio identitario e sulla relativa ecologia mentale.
Il sapore dominante è dunque di frammenti che non riescono a diventare tessere limpide di un mosaico. Perché le spinte contrarie entrano dentro e prevalgono anche contro sé stessi: “In fondo sei sempre lo stesso che distrugge/ i suoi mattoncini contro il muro” (p.45). La rabbia cova ma “la nebbia (immagine che ricorre e diventa simbolo di ben altro) sta vincendo: “Con masochistica incoscienza/ si andava verso la catastrofe” (p.33), e il dolore prodotto non basta per capire e costruire un senso. Questo ci dice protendendosi e ritraendosi la tessitura complessiva di questo libro, ribattuta e quasi esclamata da una citazione in esergo all’ultimo capitoletto, “che tu vedrai le genti dolorose/ c’han perduto il ben dell’intelletto”, due versi dall’Inferno di Dante.
Il tema della capacità di capire diventa così la spina dorsale del senso cercato dalla propria essenza umana. Difeso anche attraverso questa azione poetica, seppure il risultato esposto sa di rendiconto arreso e malinconico, senza possibili uscite da un orizzonte di nebbia: “Teresa coi suoi occhi di febbre danza di tosse/ ma dal lucernaio della mansarda nella nebbia/ mescola le case come un brano d’opera/ cantato in altre stagioni d’antiche radio” (p.71); “Teresa volta un’altra pagina/ prima dell’ansia d’un volo interrotto nella nebbia.” (p.72); “I cavalieri d’Annibale/ presso il Ticino sconfissero/ i fanti di Scipione in fuga sul Trebbia./ I cercatori d’oro – dai tempi di Plinio – setacciano il fiume e ora non rimane/ che pescare metalli pesanti/…./ “Nell’antica provincia romana c’è odore/ di raffineria, di petroliere nel porto”; che, se “tanti sghei hanno portato”;/ quei giovani sorrisi non diventeranno mai padri.” (p.73).
Alla lucida coscienza del presente e alla memoria affettiva e storica, il compito difficile di continuare a fare versi aperti all’umana testimonianza e resistenza.

Adam Vaccaro

One comment

  1. Salvatore ha detto:

    Io credo che nessuno sia orfano prima di nascere. Questo vale per l’homo sapiens ma anche per il poeta. Anche senza volere, ogni parola scritta, porta con sé un mondo interiore mediato da quella cooperativa neuronale che è il cervello, ove l’intelletto d’amore e quello di ragione contribuiscono insieme, sia pure senza rendersene conto, a costruire la lingua. Questo lavorio si nutre delle esperienze vissute, di quelle osservate, delle letture, delle empatie ecc. Nessun poeta è privo di radici, e, credo altresì che nessuno, che si dica poeta, possa sapere in partenza dove vada a parare la sua scrittura. Perchè il poeta non cerca giardini letterari ma terre di nessuno,quei salti che possano portarlo oltre le siepi e i muri che occludono l’orizzonte visivo. C’è un solo modo, a mio parere, per verificare una lingua poetica: vedere se essa arriva, dove arriva e come arriva. E questo non è compito del critico che nella società commerciale è condizionato dal bisogno del committente o dalle sue esigenze di costruttore di teorie, ma del lettore comune che è condizionato soltanto dalla sua capacità percettiva e dal suo stato d’animo contingente.

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