ESEMPI DI POESIA DELLA STAGNAZIONE

Pubblicato il 4 maggio 2012 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

ESEMPI DI POESIA DELLA STAGNAZIONE

Luca Grancini Dialogo con Dio La Vita Felice, Milano, 2012

Daniela Muti La bellezza del nero La Vita Felice, Milano, 2012

Salvatore Malizia Allodole e specchi La Vita Felice, Milano, 2010

Salvatore Malizia Intravista per caso La Vita Felice, Milano, 2011

Giorgio Linguaglossa

«Per parlare bisogna essere in due», scriveva agli inizi degli anni Venti Vasìlij Ròzanov.* Non è una boutade ma una constatazione di fatto e, del resto, sempre lo stesso scrittore scrive che «per chi è solo non esiste interesse perché per averne, bisogna essere in due».

Ho iniziato con questa citazione di Ròzanov per indicare la paradossalità in cui si viene a trovare la lirica nell’epoca moderna, un genere monologico dove il «chi parla» è un solitario che ci parla della sua solitudine. Ma parlare in poesia non è come parlare al telefono; va però anche detto che la diffusione del linguaggio telefonico e dell’abitudine ai linguaggi della telefonia mobile ha finito per modificare la sensibilità dell’organo auditivo e la celerità dell’organo intellettivo. Allora, dobbiamo chiederci: il linguaggio telefonico è utilizzabile per la poesia? Ritengo di sì, il linguaggio poetico non può escludere nessuna fonte linguistica, può però resistere all’allargamento e all’innovazione del suo tessuto linguistico, del suo ventaglio lessicale e tonale. E, analogamente, il linguaggio di tutti i giorni, quello che si definisce il linguaggio del quotidiano, è utile (utilizzabile) alla poesia? La risposta non può che essere positiva… ma di questo passo, assecondando questa impostazione del discorso poetico è probabile che non faremo nemmeno un millimetro in avanti sulla strada della concretezza degli argomenti. La differenza di fondo è che mentre il romanzo, il linguaggio televisivo, il linguaggio tribunalizio e quello dei telegiornali, non ultimo il linguaggio telefonico si rivolgono a un destinatario presente in carne e ossa (al di là dell’apparecchio telefonico: nel mercato), il linguaggio poetico si rivolge sempre ad un destinatario assente (non presente), ad un destinatario quindi sconosciuto e che tale deve rimanere.

Non è passato molto tempo da quando il grande lirico Boris Pasternak lodava le qualità poetiche di un asettico elenco di orari ferroviari, o da quando Stendhal raccomandava la lettura del Code Civil. Ad ogni mutamento di civiltà occorre reimparare a ri-nominare le cose. In fin dei conti, il romanzo, la poesia, intesi come generi letterari, altro non sono che strumenti che consentono la sempre nuova nominazione delle cose. Nominarle significa crearle, né più né meno.

Un libro di poesia ha lo scopo di nominare il nominabile, instaurare un dialogo con un destinatario assente, pronunciare un discorso che sia al contempo la prosecuzione di un discorso antico, antichissimo, e moderno, modernissimo. Il libro di Luca Grancini è un nobile tentativo di instaurare un «dialogo con Dio»; in mancanza di un interlocutore terrestre ci si rivolge ad un interlocutore celeste, un colloquio con un Assente assente, un dio che non risponde alle sollecitazioni dell’uomo, che non risponde alla Storia (dell’uomo). È questo un punto di forte tensione del libro di Grancini ma è anche il suo punto più vulnerabile: voler nominare l’assolutamente non nominabile con un linguaggio medio-colloquiale, medio mediale, non è una contraddizione? – Grancini evita di affrontare l’argomento con un linguaggio, diciamo, da telefonia mobile ma non evita l’altro baratro di «parlare con dio» come si parla con la nostra coscienza nella più solitaria delle solitudini. È un libro coraggioso però, che proviene dal tipico coraggio della fede che può muovere le montagne.

Costruivo Dio con pazienza

parola dopo parola, giorno dopo giorno

confrontandolo con il mio orgoglio

e la mia necessità

e guardandolo negli occhi non vedevo

che il mio volto capovolto in uno specchio.

tanto più l’astrazione dell’idea

mi spingeva lontano

tanto più lo slancio mi riconduceva

al punto di partenza

come un bambino che si era perso.

Occorreva trovare l’incoerenza

che non lo rendesse banale

occorreva il sostegno di una lingua

che ancora non esisteva.

Per questo un giorno ordinai il mio pensiero

su questo candido foglio

e decisi che era Dio.

……………………………………………….

Del libro di Daniela Muti (nella rarefatta ed elegante copertina della collana diretta da Gerardo Mastrullo), abbiamo compresenti sia il ventaglio lessicale dell’«io», sia quello che chiamerei il realismo apofantico dell’«io» che chiama le cose (o si illude di chiamare le cose) con i nomi che gli altri hanno dato alle cose stesse, sia il ventaglio lessicale del «discorso comune» (il piano medio); ma, si sa, nella poesia moderna quel chiamare non è più un nominare, quel chiamare non corrisponde più al nominare, il chiamante non corrisponde più al «chi parla», e così via, di scissione in scissione, di frammento in frammento, la parola non-nominante diventa perifrastica, parafrasi della parafrasi, deviazione dalla norma, normazione del non normato. La «confessione» del discorso di Daniela Muti sta in quel discorso piano, medio, in quel suo soggiacere alla «bellezza del nero», all’impulso irresistibile del precipitare dentro il buco nero, quell’«originario splendore» che sta all’origine di tutte le cose e del linguaggio poetico.

L’avessi vista tu

La bellezza del nero

Canteresti

La notte complice di una tregua

La parola sepolta nell’ansia della gola

La cascata santa del piangere

Avresti lo sguardo del cielo

Per comprendere tutto

Fuori da ogni apparenza

Buio ricolmo

Dove ogni cosa si consola

Luce nera

Distesa sui nostri dolori

Come mantello

Infinita carezza

*V. Ròzanov Foglie cadute, trad. it. Adelphi, Milano, 1976

……………………………………….

Salvatore Malizia Allodole e specchi La Vita Felice, Milano, 2010

Salvatore Malizia Intravista per caso La Vita Felice, Milano, 2011

Vorrei iniziare con un riferimento ad Adorno tratto da Dialettica negativa, e precisamente nel capitolo dove il filosofo tedesco dichiara che dopo Auschwitz un sentire si oppone a ciò che prima del genocidio si esprimeva tramite il senso. E aggiungeva che nessuna parola con tono pontificante, quand’anche parola teologica, ha legittimità dopo Auschwitz. Come sappiamo, il filosofo tedesco assegna al genocidio di massa un valore radicale, e lo cita come rovina del senso. Il senso della storia ci conduce a questo: cioè nel riconoscere che non c’è alcun senso della storia, se diamo al termine il valore di razionalità nella accezione invalsa da Hegel in poi: «il reale è razionale», che c’è una spiegazione per ogni aspetto del reale, anche per le cose apparentemente insignificanti, minime, anch’esse rientrano nel disegno di organizzazione universale dello Spirito del mondo e della superiore razionalità. La Storia ha una sua direzione proiettata verso il futuro nella forma del progresso e della civilizzazione etc., la storia ha una sua direzionalità pregna di senso etc.

E poi per il filosofo tedesco dopo Auschwitz non si poteva più scrivere poesia. E invece i fatti hanno dimostrato non solo che dopo Auschwitz si può ancora scrivere poesia ma che anzi oggi assistiamo ad un vero e proprio diluvio di poesia di tutti i tipi, elegiaca, iconica, concettuale, sperimentale, del quotidiano, mitologica etc. La storia sembra andare verso l’implosione piuttosto che verso il suo ripiegamento, verso la moltiplicazione piuttosto che verso il dimidiamento.

Ma la Poesia ha coscienza di questa negatività? La Poesia ha coscienza di questo de-moltiplicatore? Ma è una negatività senza impiego, senza contraltare, una negatività che permette soltanto la finzione, l’allestimento del palcoscenico vuoto. Al posto dell’impegno è subentrato il disimpegno, al posto del negativo è subentrato il post-negativo; le ipertrofie, le faglie, le erosioni, le citazioni, i rimandi, i percorsi sotterranei del senso diventano i veri protagonisti della poesia, diciamo, del post-negativo. Il poeta del post-negativo si muove in questa topografia delle rovine (del linguaggio e del senso).

Il romano Salvatore Malizia si muove, con eleganza e ironia, in questa topografia delle rovine (con una tipografia delle rovina), si trastulla sfoderando le risorse antiche del plurilinguaggio, esibendo l’abilità del rhetoricoeur, nell’improvvisare paronomasie ed anafore, corto circuiti tra suono e senso, tra citazione e citazione; mima un senso plausibile ed effimero per poi subito dopo negarlo e denegarlo ammiccando alla rassomiglianza parziale di morfemi e fonemi; Malizia risparmia, economizza sui frustoli, i ritagli, i resti del senso (un senso implausibile ed effimero), scommette sul vuoto (che si apre tra gli spezzoni, i frantumi di lessemi, di sillabe e di monemi). Subito si spalanca davanti al lettore il «vuoto», la cosa fatta di vuoto, l’«assenza» (non più inquietante ma anzi rassicurante!); il poeta oscilla tra una lingua che ha dimenticato l’Origine e ha denegato qualsiasi origine, tra la citazione culta e la denegazione della citazione.

l poeta deve produrre «valore»? Se così stanno le cose Malizia si accostuma (con malizia) all’andazzo medio, fa finta di produrre senso, ma produce vuoto, flatulenza di frasari distassici, combusti allegramente, ma per ri-usarli nell’economia imposta dalla dismetria dell’epoca della stagnazione, si intende qui la dismetria dei tempi che vengono dopo l’affondamento dell’economia dello spreco e dello sperpero, delle neoavanguardie e delle post-avanguardie agghindate, traumatizzate e tranquillizzate. Malizia non ritiene certo di ricreare le coordinate e le condizioni per una poesia dell’archetipo originario: il senso è disseminato (come un campo minato) di rovine. Il poeta tenta allora di orientarsi tra gli smottamenti, le faglie, i deragliamenti del senso, le deviazioni accidentali, con la dismetria dell’ironia, affonda il periscopio nel terreno della materia combusta. È questo il suo limite e il suo destino. È questo il suo télos.

Erri De Luca qualche volta fa buca.

“Di guerra giusta (dice) ce n’è stata una

e nessun’altra”.

“Due popoli alle armi

per chi dei due doveva tenersi la bellezza”.

Modestamente dissento dal poeta:

nessuna guerra è giusta!

tersite, protomartire pacifista,

con smodate parole cantò in faccia

agli Atridi e agli Achei

la ferocia e l’inganno della guerra.

S’è combattuta a Troia

una guerra espansionista di possesso

adducendo (succede ancora) pretesti

o, come s’insegna nelle scuole, storie

di corna e di sesso,

troiate indegne di memoria.

Giorgio Linguaglossa

6 comments

  1. cristina raddavero ha detto:

    La bellezza del nero di Daniela Muti in particolare mi ha fatto pensare alla contrapposizione nero/luce del Pirandello di Ciaùla, ma se si vuole, dell’approccio pirandelliano in generale. La meravilgia di questo approccio che corre lungo nuove prospettive tese a evidenziare la difficoltà forse insuperabile, dell’impotenza dell’uomo nella conoscenza di se stesso.
    L’uomo moderno del lungimirante Pirandello vive soltanto nei due limiti estremi del conformismo e della solitudine e dell’incomprensione.
    E vomita questo tormento nella poesia.
    La sfida che si può raccolgiere da questi testi potrebbe stare nella concezione di Calvino secondo la quale affermare che la conoscenza non arriva all’esistenza coincide col dire che la conoscenza dissolve l’esitenza di chi la cerca e la persegue nel mare dei segni di cui essa si serve per manifestarsi.
    Forse la poesia, alla fine, proprio questo incarna: la dissolvenza ontologica.

  2. Gianmario ha detto:

    Quella di mezzo m’invoglia
    – ma per poco – e non mi piglia.
    Dell’altre mi scoraggia lo spazio
    fra i torno a capo ma non sento
    niente che non sappia già dsperso.
    Il vero critico sarà lo strazio
    per improvviso interpolamento
    e scavando fino all’opposto verso
    vi troverà la noia del non senso.

  3. leopoldo attolico ha detto:

    Il testo di Grancini è quello probabilmente più risolto linguisticamente , antiretorico nella misura della nominazione di un Referente appropriatamente preso con le molle della partecipazione e del distacco dei sentimenti .
    “L’astrazione dell’idea” ecc. dice molto sulla capacità di interiorizzare quanto di più sfuggente può proporre l’Altro e la sua proiezione nel privato sentire .
    Con un saluto
    leopoldo –

  4. Anna Solari ha detto:

    Trovo molto apprezzabili i testi proposti, e piacevole, come sempre ironico e sfacciatamente espressionista, quello di G. Linguaglossa. Di cui però non apprezzo la qualità, forse da altri ammirata ed imitata, della criptolalia. Da L. c’è molto da imparare, ma è troppo spesso necessario usare il vocabolario, o tradurre,o decrittare.La sua estensione culturale è straordinaria, ma sarebbe molto più “democratico” esprimerla in termini meno rarefatti.
    Con tutta la stima e la simpatia.
    A. Solari

  5. cristina raddavero ha detto:

    Trovo il linguaggio di G. Linguaglossa appropriato e necessario alla contingenza di un’Italia estremamente impoverita nell’uso delle parole pena una desertificazione peraltro già in atto.
    Con stima e simpatia.

  6. Salvatore Violante ha detto:

    A me pare che G. Linguaglossa utilizza il suo linguaggio. Non potrebbe fare altrimenti perchè esso incarna tutto il suo mondo. Ed il suo non è un mondo primitivo.

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