Convegno Antonio Porta-Atti

Pubblicato il 11 dicembre 2009 su Eventi Milanocosa da Adam Vaccaro

POESIA COMUNICAZIONE E PROGETTO UTOPICO NELL’ULTIMO PORTA

John Picchione

Ad iniziare dagli anni ‘70, Antonio Porta dirige la sua poesia verso un progetto di cominicazione a cui rimane legato essenzialmente fino alle sue ultime prove. La maggiore comunicatività di tale svolta poetica implica una rinnegazione dei procedimenti eversivi su cui avevano puntato i Novissimi e la Neo-avanguardia in genere? Si tratta di un ritorno all’ordine e quindi di un allentamento delle funzioni dialettiche e oppositive del suo linguaggio poetico? Questa relazione cercherà di dimostrare che il progetto di comunicazione di Porta è saldamente legato ad una visione utopica che si prospetta come antitesi ai paradigmi culturali dominanti di quegli anni. Al contempo, esso ribadisce un orientamento poetico che distingue Porta dalle sue prime esperienze: la necessità di esplorare le infinite potenzialità del linguaggio, cercando di non cadere nel manierismo di se stesso.

La prima fase della poesia di Porta (pensiamo a raccolte che vanno da La palpebra rovesciata a Cara) si muove, come quella dei Novissimi e della Neoavanguardia in genere, all’interno di un’estetica che si contrappone e al codice e ai modelli letterari dominanti. Si tratta di una poesia che mira a frustrare gli orizzonti d’attesa del lettore, creando effeti di straniamento linguistico e culturale.

È una poesia costruita tramite sconvolgimenti sintattici, forti tensioni e svuotamenti semantici, un linguaggio traumatico che frustra il tessuto narrativo (come in I rapporti) o polverizza l’ordine pseudo-razionale e paralizzante della comunicazione quotidiana (si pensi, ad esempio, al poemetto Zero). Con Cara domina una assoluta operazione metalinguistica e metaletteraria che rivela un totale rifiuto verso possibili sistemi di significati, un’agghiacciante letteralità che nell’assenza di rinvii simbolico-metaforici sembra evidenziare esclusivamente la costruzione materiale del testo.

Già nelle raccolte che seguono Cara, Metropolis e Week-end, si avvertono segnali di una maggiore trasparenza comunicativa. Nella prima, allo svuotamento e demolizione di cliché e luoghi comuni della società dei consumi (confezioni linguistiche che dimostrano la degradzione del linguaggio ad oggetto mercificato), si oppone una serie di modelli terapeutici del linguaggio proposti come ipotesi di recupero della comunicazione. Lo stesso Porta li presenta come “modelli defalsificanti di uso del linguaggio” (modelli di linguaggio infantile, modelli per coppie frustrate da ostacoli di comunicazione, e un modello per autoritratti). Si tratta di un tentative poetico di costruire modelli linguistici alternativi ai processi di fossilizzazione e alienazione a cui è sottoposta la lingua. Pertanto essi vengono ad assumere una funzione liberatoria, accentuata in un testo come “Rimario” anche attraverso l’uso catartico della rima. Il tratto distintivo di Week-end, comunque, è costituito da uno spostamento in direzione marcatamente ideologica. Al chiarimento ideologico corrisponde un indirizzo narrativo lontano dal linguaggio lacerato, frantumato, e magmatico del primo Porta.

Si prenda ad esempio la serie “Autocoscienza di un servo”. Qui la dicotomia padrone-servo, rinvenuta nelle varie stratificazioni della società, è presentata come struttura portante della condizione storica. Il padrone, immobile nel suo ruolo, conosce solo la distruzione della vita, distribuisce solo morte, mentre il servo, condannato alla morte del lavoro servile, aspira alla vita nelle sue espressioni di libertà («ancora vivo un servo come/da morto vive il padrone poiché/i padroni si riconoscono/dalla morte e i servi nella vita››). Questa poesia denuncia la condizione del servo nella società del capitalismo avanzato: la spersonalizzante automatizzazione, l’anonimità del singolo, la perdita della vita nel prodotto, l’atrofizzazione e il soffocamento.

La negatività in cui viene colto il servo è rovesciata dal suo desiderio attivo di vita («e sono ancora avidi di frutta!», e dalla sua lucida tensione verso il superamento della propria condizione di morte («né questo stato mi piace… poiché la vita non è simile alla morte»).

Il binomio schiavitù-libertà subisce una bellissima trasposizione iconica attaverso elementi spaziali che contrassegnano il dentro e il fuori, lo spazio vitale libero e quello circoscritto, la presenza di confini visibili da superare («Il piccione aggrappato al rampicante/batte il becco sulla parete/di una casa con le finestre serrate./Dalle stanze di dietro preme alle pareti/lo spazio di movimenti vitali». L’uccello, col suo persistente beccare esprime un desiderio utopico di liberazione, di spazi aperti e vitali.

In un altro testo centrale di questa raccolta, “Utopia del nomade”, all’atrofizzazione e soffocamento della società, si oppone un progetto utopico inteso, non solo come recupero di una semplicità primodiale tramite i movimenti liberatori della vita del nomade, ma come progetto di comunicazione da realizzarsi in una città utopica in cui l’individuo possa disporre di un codice espressivo purifcato “il pensiero linguaggio che va preso alla lettera”. Con questa raccolta, la poesia di Porta prende definitivamente coscienza della sua tensione verso il linguaggio dell’utopia.

Il progetto di comunicazione verrà a svilupparsi e a chiarirsi nelll’arco di oltre un decennio e comprende lavori che vanno da Passi passaggi a Il giardiniere contro il becchino.

Per Porta si tratta di superare da un lato l’estetica negativa, della non-conumicazione, a cui era legato il progetto del moderno negli anni ’60 e, dall’altro, l’indebolimento o, meglio, la delegittimizzazione di sistemi conoscitivi e di emancipazione da parte delle tendenze postmoderne, ad iniziare negli anni ‘70. In questi casi, la spinta utopica recupera il dialogo e quindi le possibilità dialettiche e intersoggettive del linguaggio. Oltre a richiamarsi ad alcune premesse dell’empirismo logico del “secondo” Wittgenstien, Porta si riallaccia ai principi dell’agire comunicativo di Habermas e, quindi, alla teoria degli atti linguistici (speech acts).

In contrapposizione alle pratiche inclusive del postmoderno, Porta insiste sulla necessità di distinguere tra il “linguaggio di massa privo di significati non pre-fabbricati”, “acritico”, pronto a “costringere al mutismo”, e il linguaggio poetico che mira a superare la stereotipia, dice per capire e per provocare spostamenti salutari. Il lavoro poetico viene concepito come un “territorio altro”, alternativo, tramite il quale il linguaggio riacquista una sua “trasparenza” intesa come “svelamento e come possibilità di ridare un orientamento alla storia. Stare dentro il linguaggio non significa solo mettersi in ascolto, essere parlati — nell’accezione heideggeriana — ma anche “rispondere”. “Fare poesia” — Porta scrive — “significa utilizzare la risposta come strumento” e, richiamandosi al Wittgenstein delle Ricerche filosofiche, sottolinea che la vita del segno linguistico risiede nell’uso, nei ruoli che esso viene a svolgere all’interno delle pratiche umane. Porta insiste sulle possibilità di “respiro” del segno, inteso come “negazione del silenzio”, antitesi all’imbavagliamento sociale e culturale.

Il nuovo linguaggio di Porta, quindi, aspira a collocarsi in opposizione dialettica alla dispersione del senso e alle censure postmoderne. Esso è chiamato a svolgere una funzione di “trasformazione della storia”. La poesia deve esercitare azione sul reale: “la mia poesia […]/ è un fare non è un essere, o l’essere, / se proprio lo volete è un fare”, dicono i versi di un suo componimento.

Il progetto di comunicazione è riassumibile quindi nel modo seguente: 1) riafferma le funzioni sociali del fare poetico; 2) tenta di liberare il linguaggio dalla gabbia dell’ontologia in cui la cultura post-strutturalista sembrava rinchiuderlo; 3) il linguaggio non è visto come strumento fittizio, maschera, inganno, dominato dai giochi della differenza (non si accetta, quindi, il principio luttuoso e apocalittico dell’assenza di realtà nel linguaggio; 4) la storia non è riducibile a un episteme obsoleto, pura testualità, storiografia; 5)Porta prospetta un progetto neomoderno in cui l’attività poetica si ponga un telos, un ethos, una possibilità di riavvicinamento al mondo; 6) rifiutando pluralismi armonizzanti e tolleranza respressiva, Porta cerca di dare alla poesia la funzione di redimere la vita dalla negatività del sistema. “Più che mai” — egli scrive in un autocommento alle sue ultime raccolte — “è tempo di scelte radicali. Occorre decidersi a dire che cosa si pensa senza reticenze.” La poesia è chiamata a riattivare “un ritorno forte al progetto”, cioè qualcosa capace di restituirci un orientamento “in questo mare della complessità”. Questo non significa rinnegare la cultura antagonistica dell’avanguardia? Al contrario: ancora sulle sue orme, si tratta di ritrovare una funzione di antitesi in un particolare momento storico e linguistico dominato dalla celebrazione del relativismo etico e politico. L’attività poetica si identifica col lavoro sul linguaggio. L’opposizione parte dal linguaggio.

Il progetto di comunicazione diventa antagonistico in quanto si presenta come resistenza al silenzio e all’indifferenziazione postmoderna di tutti i discorsi. Si riafferma una realtà indipendente a cui i nostri atti linguistici si riferiscono e pertanto il linguaggio poetico diventa azione concreta, tramite la quale ricerca linguistica e realtà extralinguistica convergono. La necessità di una dialettica tra autonomia ed eteronomia accompagna tutta la poesia di Porta.

Per il progetto di comunicazione, Porta adotta tre generi fondamentali: poesia-teatro, poesia in formma di diario o epistolare, e poesia in forma di fiaba. I primi due, rappresentati da Passi passaggi, L’aria della fine, Invasioni, Il giardiniere contro il becchino, sono legati al paradigma della conversazione, alla dialettica del dialogo; il terzo, rappresentato particolarmente da Melusina, fa leva sulle proprietà comunicative della narrazione favolistica e sulla sua tensione visionaria ed inventiva.

In Passi passaggi l’assunzione del genere epistolare, il tono dialogico e colloquiale rappresenta una forte urgenza comunicativa (“questo solo conta che io ti parli/che io stia respirando/insieme a voi tutti che non vedo/che ho chiamato, un giorno,/carissimi»; «Avrei molta voglia/di riposare sotto la paglia, di stare zitto… Ma devo/dare segnali acuti che sono ancora qui e vivo…››. La necessità del dire è collegata ad eventi di nascita e di rigenerazione, ad esigenze corporali che segnano il «passaggio» verso la vita. Ad esempio, il momento della fecondazione, e quindi dell’inizio della vita, coincide con l’inizio della parola a cui è affidato il ruolo di dare all’io la possibilità di riconoscersi e di dare avvio ad una ricognizione del fuori, ad un avvicinamento all’altro.

Se nella prima produzione l’io fugge da se stesso, in parte rimosso per dare agli oggetti e agli eventi del mondo la possibilità di parlare, qui si assiste ad un sua dilatazione che comporta la necessità del dialogo,l’avvicinamento all’altro. Alterità e progetto di comunicazione sono, quindi, strettamente correlati.

L’io comunica col suo sguardo politico e mette in guardia non solo contro l’oppressione («voglio anch’io essere sepolto nudo/per non farmela mettere a forza la camicia nera!», ma si pronuncia chiaramente con una sua aperta condanna al sistema(«il capitalismo,/mi dice, scrivilo, è in festa solo sui giornali o lì si mette/in lutto solo per finzione. Ma come può resistere sorretto/portato sulle spalle da un esercito di schiavi e la metà di/questi schiavi sono donne››).

Un testo paradigmatico di questa raccolta,“La scelta della voce”, esprime un forte bisogno di utopia che indirizza ogni gesto verso la speranza della trasformazione e del mutamento. Esso è attraversato dalla forte presenza di un erotismo inteso non solo come espressione di vita, ma come volontà di trasgressione e di comunicazione. Eros, corpo, e scrittura si fondono, mossi da impulsi famelici e cannibalistici mai del tutto soddisfatti. Il rapporto che si instaura tra scrittura poetica e desiderio erotico — quest’ultimo rappresentato come violazione dell’interdetto, del tabù, ricordandoci di Bataille –, oltre a ricondurre ogni pulsione al corpo, sembra suggerire che la poesia spinga verso una forma di trasgressione simile alla sessualità ansiosa di rompere con le norme. Il richiamo all’orgasmo, atto estatico di autonegazione e di perdita dell’io, nella sua fusione con l’altro si ricongiunge, al livello macrotestuale, con l’urgenza della comunicazione.

Nel componimento che chiude “La scelta della voce”, allo smarrimento e alla perdita di direzione di fronte alle insidie del reale («dentro la Città Labirinto») si contrappone la dimensione utopica («ti racconto una storia/forse una fiaba»), assunta come possibilità di pensare il presente in funzione del futuro. Ma il progetto utopico di Porta, come tutta la sua poesia, è mobile, aperto, indefinito, non sopporta la sterilità dei dogmatismi. Esso si richiama al principio del possibile e del non-ancora presente nel pensiero di un filosofo come Ernst Bloch, il cui nome emerge saltuariamente negli scritti di Porta ad iniziare dalla fine degli anni ’70. In Porta, come in Bloch, l’utopia è espressa dalla necessità di riconciliare il reale con il possibile e dalla speranza intesa come tensione verso il futuro. Le possibilità utopiche sono radicate nella materialità stessa del mondo, nella materia dominata da una «fame primordiale» che spinge verso la rigenerazione e la trasformazione. Non a caso, l’ultima raccolta è incentrata sulla figura del poeta-giardiniere che lavora, scava per cercare nutrimenti per la vita, “l’invisibile materiale / l’utero di ogni seme”.

Se l’utopia è la «voce del Sì», il luogo solare in cui gli opposti cessano di esistere e i rapporti col mondo e con l’altro diventano incontri trasparenti ed unificanti («e la mano ricalca sulla mano/e la bocca coincide con la bocca/e le cosce si incollano alle cosce»), la sua realizzazione è assolutamente provvisoria («È una misura di riconciliazione/(lo sappiamo di breve durata)») e priva di garanzia («e non è questa la fiaba del fagiolo che cresce fino al cielo?»). Anzi, se da un lato l’utopia è anticipazione del non-ancora, dall’altro, essa è il luogo dell’ulteriorità senza fine e, quindi, dell’irraggiungibile. Il progetto di Porta non rischia nè dogma nè immobilità. Con i suoi “passaggi sottili che il vento tiene aperti”, la poesia è per Porta un ponte “oscillante tra un punto indefinito verso un altro punto indefinibile, distante e mutevole.” Alla ricerca delle inesauribili possibilità del linguaggio poetico (“Andate, mie parole, /calcate le tracce /dei linguaggi infiniti” dicono alcuni versi di Invasioni), Porta persegue da accampamento in accampamento mutazioni, scoperte, e desideri del linguaggio che mai possono esaurirsi.

John Picchione

(York University)

2 comments

  1. Marica larocchi ha detto:

    Antonio Porta è stato uno dei miei primi lettori, certamente il più acuto e intuitivo. Conservo di lui lettere meravigliose, pagine dove il mistero della poesia vive e risplende. La sua morte prematura fu una dolorosa perdita non solo per poeti e scrittori, ma per l’insieme culturale di un’Italia che sembrava avviarsi verso un’originale assimilazione delle scoperte antropologiche d’inizio secolo. Peccato! Poiché la strada poi imboccata dagli addetti ai lavori è fra le più degradanti e misere per quasi tutte le parrocchie e i gruppi di poeti e pensatori attualmente in attività nel ‘bel paese’ .

  2. franco paone ha detto:

    Dal commento della Larocchi: … la strada poi imboccata dagli addetti ai lavori è fra le più degradanti e misere per quasi tutte le parrocchie e i gruppi di poeti e pensatori attualmente in attività nel ‘bel paese’.

    E la Larocchi se ne tira fuori! Tarallallallà!

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