Il Sud Europa farà la fine della Ddr?

Pubblicato il 14 ottobre 2013 su Saggi Società da Adam Vaccaro

Il Sud Europa farà la fine della Ddr?

Fonte: Micromega Newsletter del 9 ottobre 2013
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Ancora oggi, a quasi 25 anni dal crollo del Muro, la distanza economica e sociale tra le due parti della Germania non accenna a diminuire, nonostante massicci trasferimenti di denaro pubblico dalle casse del governo federale tedesco e da quelle dell’Unione Europea. Sulla base di una ricerca scrupolosa, condotta attraverso i dati ufficiali e le testimonianze dei protagonisti, Vladimiro Giacché mostra come la riunificazione delle due Germanie abbia significato la quasi completa deindustrializzazione dell’ex Germania Est, la perdita di milioni di posti di lavoro e un’emigrazione di massa verso Ovest che perdura tuttora, spopolando intere città. La storia di questa “unione che divide” è una storia che parla direttamente al nostro presente. Essa comincia infatti con la decisione di attuare subito l’unione monetaria tra le due Germanie, prima di aver attuato la necessaria convergenza tra le economie dell’Ovest e dell’Est. L’unione monetaria ha accelerato i tempi dell’unione politica, ma al prezzo del collasso economico dell’ex Germania Est. Allo stesso modo la moneta unica europea, introdotta in assenza di una sufficiente convergenza tra le economie e di una politica economica comune, è tutt’altro che estranea alla crisi che sta investendo i paesi cosiddetti “periferici” dell’Unione Europea. Il libro di Giacché si conclude quindi con un esame approfondito delle lezioni che l’Europa di oggi può trarre dalle vicende tedesche degli anni Novanta.

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo alcuni estratti dal libro “Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa” (Imprimatur editore, 2013 (pp. 261-267 e 276-277), in libreria dal 9 ottobre.

di Vladimiro Giacché

Dall’unità monetaria tedesca all’unità monetaria europea

La configurazione attuale del capitalismo europeo e dei rapporti di forza interni a esso è semplicemente impensabile senza l’annessione della Repubblica Democratica Tedesca. Per diversi motivi.
Il primo motivo è che grazie all’incorporazione dell’ex-RDT la Germania ha riconquistato la centralità geopolitica (e geoeconomica) nel continente europeo che aveva perduto nel 1945 con l’esito catastrofico della guerra di Hitler. E questa riconquista ha alterato gli equilibri in Europa.

Il secondo motivo è il legame tra l’unità tedesca e l’Unione Europea. Si tratta di un rapporto complesso e per certi versi contraddittorio.

Da un lato, infatti, l’unità tedesca ha rappresentato un formidabile acceleratore del processo d’integrazione europea. Il 4 ottobre 1990, non erano passate neppure 24 ore dalla solenne proclamazione dell’unità tedesca e già il consigliere del presidente francese Mitterrand, Jacques Attali, annotava sul suo diario la decisione del presidente di “stemperare” la Germania nell’Unione politica dell’Europa. Il pegno che la Germania avrebbe pagato per la propria unità riconquistata sarebbe stata l’integrazione europea, in cui la Germania stessa avrebbe potuto essere imbrigliata. La stessa moneta unica europea era concepita come un tassello di questo disegno.

D’altra parte, proprio l’unità tedesca e le sue conseguenze hanno in realtà rallentato l’integrazione europea, e in particolare l’unione monetaria. Sono infatti gli alti tassi d’interesse imposti all’Europa dalla Germania (per poter attrarre più capitali e finanziare l’unificazione) a causare, nel 1992, la brusca uscita della lira (e della sterlina inglese) dal sistema monetario europeo (l’allora Ecu, ndr).

L’operazione euro è poi andata in porto, ma ha avuto effetti contrari a quelli sperati dal governo francese: la Banca Centrale Europea è diventata una sorta di Bundesbank continentale, e l’ortodossia neoliberale (e mercantilista) tedesca si è imposta in tutta l’Europa. Inoltre con l’euro la Germania ha potuto giovarsi della rigidità del cambio, che ha impedito che i paesi meno competitivi potessero recuperare competitività attraverso svalutazioni della loro moneta.

Con questo siamo arrivati a ciò che probabilmente rappresenta il motivo principale di interesse attuale delle vicende dell’unificazione tedesca: la forza del vincolo monetario, e la sua potenza fondativa anche dal punto di vista dell’unione politica. La Germania politicamente unita nasce infatti il giorno stesso della raggiunta unione monetaria. Il vero trattato che unifica la Germania è quello entrato in vigore il 1° luglio del 1990 con l’unione monetaria: il secondo trattato, quello che ha dato il via all’unione politica il 3 ottobre dello stesso anno, ne è stata una pura e semplice conseguenza, non per caso assai ravvicinata anche in termini temporali. Non è vero, insomma, che l’unione monetaria sia un’unione debole, come spesso si sente dire (“in Europa c’è solo l’euro, manca l’unione politica”). È vero il contrario.

L’euro e gli squilibri in Europa

L’unione monetaria è, tra l’altro, un legame che modifica i rapporti di forza nell’area valutaria. Nella folta letteratura apologetica sulla moneta unica si indica, tra gli effetti auspicati dell’area valutaria comune, un riequilibrio tra i diversi territori. Come abbiamo visto non è andata così né nell’Italia postunitaria né nella Germania unita. E non è andata così neppure nell’Europa dell’euro. Ciò cui abbiamo assistito negli ultimi anni in Europa è molto significativo. Perché non soltanto smentisce ogni presunta tendenza al riequilibrio all’interno di un’area valutaria, ma evidenzia in diversi paesi europei inquietanti caratteristiche comuni a quelle dell’economia della Germania Est dopo l’introduzione del marco. In quest’ultimo caso le dinamiche sono state accentuate dal cambio irragionevole, che ne ha esasperato le caratteristiche (negative per l’area interessata). Ma, se enumeriamo i diversi fenomeni che hanno interessato negli ultimi anni i paesi in crisi dell’Eurozona, ci accorgiamo che essi sono gli stessi, sia pure in forma meno parossistica: caduta del prodotto interno lordo, deindustrializzazione, elevata disoccupazione, deficit della bilancia commerciale, crescita del debito pubblico, emigrazione.

Rispetto all’ex-Germania Est manca soltanto un elemento: i trasferimenti dall’estero per riequilibrare la situazione di squilibrio della bilancia con l’estero. Essi verosimilmente continueranno a mancare, almeno se intesi nel senso di un sostegno finanziario diretto della Germania agli altri Stati. E in effetti, come è stato osservato, i trasferimenti effettuati verso l’Est della Germania “non sono la minore delle spiegazioni della forte riluttanza dei tedeschi a dar oggi prova di più solidarietà nei confronti dei paesi della zona euro che si trovano in crisi”, tanto più che il loro peso è percepito come molto maggiore di quanto sia in realtà.

È interessante invece osservare come, prima della crisi, i trasferimenti invece ci fossero eccome: sotto forma di crediti forniti dalle banche tedesche (e francesi) ai paesi oggi in crisi. Ed era precisamente questo genere di trasferimenti che rendeva tollerabile il deficit della bilancia commerciale di quei paesi. Di fatto, con questi crediti le banche di Germania e Francia finanziavano l’acquisto di merci tedesche e francesi da parte di paesi come la Grecia (non esclusi, come sappiamo, costosi armamenti). Ma tra il 2008 e 2009 le banche di Germania e Francia, severamente colpite dalla prima ondata della crisi (la sua fase americana, culminata col fallimento di Lehman Brothers), hanno cominciato a ridurre la loro esposizione verso i paesi periferici dell’eurozona, e questo ha fatto venire allo scoperto – e aggravato – le situazioni di squilibrio di questi ultimi. Per quanto riguarda in particolare la Germania, i prestiti bancari ai paesi “periferici” dell’Europa sono stati dimezzati, passando da un picco di 600 miliardi di euro nel 2008 a 300 miliardi a fine 2012.

Ma il ridursi di quei trasferimenti non ha creato gli squilibri: li ha soltanto resi evidenti. Chi ha creato, quindi, gli squilibri in Europa? La risposta è: questi squilibri erano in parte preesistenti all’unione monetaria, e in parte sono stati aggravati dalla stessa unione valutaria, che ha eliminato un elemento di flessibilità e di adattamento di cui si erano molto giovate le economie più deboli dell’eurozona. In questo caso è mancato l’elemento di abnorme sopravvalutazione della moneta più debole che si è registrato nel caso della Germania Est, anche se l’unione valutaria ha rappresentato comunque una relativa rivalutazione per i paesi che avevano monete più deboli (come l’Italia con la lira) e una relativa svalutazione per i paesi che avevano monete più forti (nel caso della Germania la svalutazione è stata del 20% circa); i negoziatori italiani ancora ricordano l’accanimento col quale l’allora presidente della Bundesbank Tietmeyer (già negoziatore dell’unione monetaria tedesca) tentò sino all’ultimo di tenere il valore di conversione della lira il più elevato possibile. In ogni caso, con riferimento all’euro, l’elemento fondamentale non è il tasso di conversione con cui si è giunti alla moneta unica, ma la creazione stessa della moneta unica.

Più sopra, in relazione ai dati drammatici dell’economia dell’ex-RDT negli anni immediatamente successivi all’unificazione, si è citato il giudizio secondo cui questi erano i logici risultati dell’“annessione non preparata di un territorio economico a bassa produttività del lavoro ad un territorio molto sviluppato”. L’evoluzione della crisi europea in questi ultimi anni costringe a chiedersi se l’unione monetaria europea non abbia replicato lo stesso meccanismo, con gli stessi risultati: su scala molto più larga (continentale), anche se in proporzioni meno estreme. La risposta purtroppo è affermativa. Questo rappresenta una smentita per tutti coloro i quali vedevano nell’unione monetaria precisamente uno strumento per ridurre gli squilibri: d’altra parte, a distanza di ormai quasi 15 anni dall’avvio di quell’esperimento, i dati sono incontrovertibili. (…)

“Modello Germania” per l’Europa?

È in questo contesto che va giudicato l’operato dell’establishment tedesco negli ultimi anni. Il giudizio in merito deve essere severo. Ma deve, prima ancora, muovere da una constatazione: il modello adottato oggi in Europa non è dissimile da quello adottato 20 anni fa nei confronti della Germania Est. Se nel 1990 Kohl e Schäuble chiedevano alla Germania Est la cessione unilaterale della sovranità politica e il conferimento del patrimonio pubblico alla Treuhandanstalt come pegno per il “dono” del marco, oggi Merkel e Schäuble chiedono ai paesi europei in crisi la stessa cosa. In primo luogo, pretendono la cessione di diritti sempre più stringenti di controllo sui bilanci pubblici, ma non appena si parla di affidare alla BCE la supervisione sulle banche – cosa che consentirebbe alle autorità europee di mettere il naso nella situazione dell’opacissimo settore bancario tedesco – è Schäuble in prima persona a intervenire (con successo) per limitare il numero delle banche sorvegliate a livello europeo e per rallentare l’intero processo. In secondo luogo, come abbiamo visto, pretendono addirittura il conferimento del patrimonio pubblico dei paesi in crisi a istanze terze, sottratte al controllo dei parlamenti come nel caso del Treuhandanstalt (l’istituzione che privatizzò l’intera economia della Germania Est) e dotate del potere di privatizzare le proprietà pubbliche come pegno per i prestiti ricevuti.

Il gioco è sempre lo stesso. E anche lo stile: “la tendenza alla totalità” in cui un Honecker in carcere ravvisava la caratteristica costante degli esponenti del capitale tedesco, o se si preferisce dell’establishment di quel paese, l’abbiamo ahimé vista davvero all’opera più volte, in questi mesi. L’utilizzo al limite del cinismo di rapporti di forza favorevoli, il rifiuto di compromessi accettabili, la convinzione integralistica dell’assoluta superiorità del proprio punto di vista, e soprattutto la difesa accanita degli interessi delle proprie banche e delle proprie grandi imprese. È l’atteggiamento tipico di chi può vincere molte battaglie ma finirà per perdere la guerra. Perché stravincere è molto più difficile che vincere.

(8 ottobre 2013)

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