Presentazione Viteliù a Bonefro

Pubblicato il 17 agosto 2019 su Eventi Milanocosa da Adam Vaccaro

UNA STORIA MAGISTRALE

Adam Vaccaro

 

VITELIÙ – IL NOME DELLA LIBERTÀ

Nicola Mastronardi – Itaca srl, Castel Bolognese, 2012

 

Prime considerazioni

Un arco di storia sconosciuto o conosciuto solo per scorci, raccontati perloppiù da chi, nel secolare scontro storico tra Popoli Sanniti e Impero Romano, ha prevalso. Qui la narrazione è fatta dalla parte dei Sanniti, sopraffatti, ma al tempo stesso fonte di contributi decisivi nella definizione di quella unicità e molteplicità, da essi per primi chiamata Viteliù-Italia. Il che è stato possibile, perché hanno tenacemente resistito e difeso il nucleo prezioso della loro identità.

Al centro, c’è dunque quest’ultima complessa tematica di una narrazione avvincente, che oggi ci offre una misura che va ben oltre il quadro storico, pur documentatissimo e sorretto da una immaginazione e una scrittura dense di poesia. Grazie alle quali dalla materia storica emergono e rimangono impressi nella memoria del lettore personaggi ed emozioni di una tragedia e una etnia, che i peggiori sogni imperiali di Roma hanno tentato ripetutamente di cancellare.

Sono sogni di dominio e di potere assoluti che nel corso della Storia hanno replicato molte forme di mostri e orrori. E che, anche nella contemporaneità, fanno apparire non di rado molti inni alla civiltà, alla democrazia, alla libertà e ai diritti umani, declamazioni retoriche e utopie lontane, a fronte di una sorta di tsunami che incrocia tecnologia e oligarchie economico-finanziarie.

Al centro di questo libro straordinario c’è quindi una passione di conoscenza di sé e dell’altro, che per me è l’asse portante di ogni discorso sulla libertà: senza di esso, quest’ultima diventa una declinazione (solo) ideologica. Occorre, prima di tutto, acquisire coscienza e cultura per saper custo-dire la propria identità. Che o è collettiva, o non è, perché l’identità individuale, senza una connessione viva con una comunità, diventa delirante e miserevole individualismo. Ma l’ideologia oggi dominante è questa: diceva la Thatcher, la società non esiste, esistono gli individui.

Questo libro è dunque importante, perché inanella una storia – fatta di tante storie – che mostra il contrario. Per questo è, non solo conoscenza, coscienza e riconoscenza dovute a un passato che appartiene a tutta l’Italia (e non solo), ma attualissima sollecitazione a ricostruire un pensiero critico rispetto alle tremende e antropologicamente distruttive tendenze in atto. Le quali non sono solo produttive di caos violento, guerre e imbarbarimenti di un capitalismo finanziario imperialistico, che rivendica libertà da ogni regola e condizionamento. Sono premesse e condizioni che storicamente hanno già mostrato risultanze regressive, con ripartizioni della ricchezza tendenzialmente precapitalistiche e medioevali.

Questo libro è in sostanza – non solo per l’Autore o per chi come me, sente e riconosce le proprie radici sannitiche – un salutare ricostituente vitale di quella intelligenza della contemporaneità, carente nonostante la sovrabbondanza di informazioni, e senza la quale la libertà diventa un fantasma e con essa un disegno di futuro, per i più, difficile e oscuro.

 

Temi e linee formali fondanti

 

Voglio in primo luogo focalizzare tre nodi – al tempo stesso sostanziali e formali – che il libro mi ha sollecitato.

 

  • Per me è stato pressoché immediato, mentre mi addentravo nella lettura, il richiamo e i paralleli con il manzoniano I Promessi sposi, letto e riletto nei decenni, e ogni volta capace di donarmi nuovi alimenti di sensi per le necessità di crescita della mia identità. Echi non suscitati tanto, o non solo, dalla trama narrativa che ha al centro di entrambi i libri una vicenda d’amore tra due ragazzi, che arriva a felice conclusione dopo innumerevoli difficoltà poste dal contesto storico. E richiami nemmeno sorretti (solo) dalla definizione, necessaria ma non sufficiente, di entrambi i libri di romanzo storico. Dopo qualche secolo, I Promessi sposi rimane il primo ma ora non è più il solo a poterne essere connotato, per massa di ricerche preparatorie lungo anni di un percorso di passione e conoscenza di un territorio, come dell’arco temporale di riferimento.

Ciò che mi fa ritenere giustificati i paralleli va oltre, e può essere sintetizzato nell’intreccio di cui si nutrono gli sviluppi narrativi e le forme dei due libri: Realtà e Visione. Senza una visione totalizzante la realtà rimane cronachismo e accumulo di frammenti. Rimane dito che nasconde la luna. Raccogliere mille oggetti e reperti linguistici non basta per sostanziare una Storia, consente al massimo di essere cultori delle proprie tradizioni, con un amore a testa girata all’indietro, paranostalgica, che senza una visione critica verso il presente non diventa nostos, ritorno alle origini, necessario alimento di una coscienza capace di diventare fonte di possibilità non contemplate, diverse rispetto al futuro che pare ineluttabile, disegnato dalle ideologie dei poteri in atto.

Tutte le scoperte, nuove visioni o innovazioni (in scienza, filosofia, geografia o tecnologia) sono state oggetto di scontro o cooptazione da parte del potere. Dunque visione non è e non può mai essere neutra rispetto al terrible object del potere. Tutto ciò faceva distinguere da parte di Elio Vittorini “letteratura di consumo e letteratura di produzione, una venosa” (senza ossigeno e definibile con Hegel, pappa del cuore), “e una arteriosa, che reca nutrimento a tutto il corpo vivo”.

  • Il secondo punto che voglio evidenziare consegue da quanto finora detto, e che mi porta a dire che il romanzo di Nicola Mastronardi, prima che storico, è (ancora similarmente ai Promessi Sposi), poetico. E qui mi riconnetto, prima che alla mia concezione di poesia, di Adiacenza fraterna e cooperante tra le varie componenti che costituiscono ogni identità-totalità, alla visione rivoluzionaria dell’attività umana, in ogni ambito e disciplina, di G. B. Vico. Il quale parlava di fisica poetica, chimica poetica, filosofia poetica etc. Cosa intendeva? Esemplificava in tal modo la sua visione, per cui ogni attività, speculativa, creativa e persino pratica, diventa poetica, se coinvolge la totalità funzionale (fisiche, mentali o linguistiche, consce e inconsce) di chi la esercita. Ed è tale coinvolgimento che fa dire al poeta T.S. Eliot, che “la vera poesia può comunicare anche prima di essere capita”.
  • Il terzo punto che voglio enucleare e che si riconnette ovviamente ai primi due è l’intreccio fondante tra Territorio e Identità. Una interconnessione che determina stabilità, dinamicità, socialità, di ciò che definiamo identità, che come inizialmente detto, o è collettiva o non è.

Richiamo ancora Eliot, che affermava: “Un artista moderno diventa classico, solo con una visione critica legata a una Identità collettiva. La quale implica accumulo di esperienze, esigenze che si traducono in oggetti, riti, simboli e linguaggi, sintetizzati nel termine tradizione. Ma, richiamando ancora Eliot, “La tradizione non si può ereditare e chi la vuole deve conquistarla con grande fatica”. Ma aggiungo che tale fatica felice, legata a quel nostos sopra detto, da parte mia la riconnetto alle “passioni gioiose”, come le chiamava Spinoza, che al centro hanno il motore da cui derivano tutte le altre e che consiste nel bisogno di riportare il cuore dove ha cominciato a battere.

Passioni e Affermazioni quanto mai adeguate al viaggio, mentale, geografico e linguistico che l’Autore ha fatto prima e durante la scrittura vera e propria. Viaggio accompagnato e supportato da un insostituibile mezzo e compagno, sua maestà il cavallo. Che anche nel romanzo è presente dall’inizio alla fine, come un personaggio, dal nome, Arco, denso di significati.

 

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Ricerche e approfondimenti contemporanei

 

Dopo avere sintetizzato i precedenti nuclei tematico-formanti del libro, con al centro il tema dell’Identità, non posso non ricordare, pur con brevi cenni, sia la mia ricerca teorica, sia l’esperienza fatta a Bonefro, ruotanti proprio intorno al tema dell’Identità. Sono una esemplificazione del magistero del libro con cui ho qualificato la mia lettura critica. Circa 20 anni fa proposi e realizzai a Bonefro una iniziativa culturale, nata dal bisogno di riflettere sui caratteri delle proprie origini, per acquisire capacità di coscienza e di rivitalizzazione di una identità socioculturale logorata e indebolita nel corso dei decenni precedenti.

L’esperienza (con una Associazione e una rivista) durò circa un quinquennio, con una sfida epocale di cui forse pochi potevano acquisire coscienza. Viteliù ci aiuta a riflettere anche su tali contesti particolari della Storia contemporanea. Se l’identità è collettiva e una comunità subisce una Diaspora, come quella che Bonefro (insieme a molta parte del Sud) ha vissuto nel corso dei decenni del secondo Novecento, per cui un paese di 5000 abitanti è ridotto dall’emigrazione di massa a 1000, quale può essere l’effetto sulle identità singole? Un poeta contadino locale, emigrato e ritornato dall’estero annotava sconfortato, “non fanno un passo, non muovono un sasso”. È capitato anche a me di riconoscere meno, dopo appena qualche decennio, le modalità d’essere della comunità in cui negli anni ’40 ero nato, che aveva la religione e l’orgoglio del saper fare e del lavoro. Ma mi è stata donata da quella culla l’energia di non arrendersi alle difficoltà, di provare sempre a misurarsi con ciò che sembra impossibile, sapendo – come diceva Einstein – che è “nella crisi che sorge l’inventiva” di “chi supera se stesso senza essere superato”. Nell’azione dell’attuale Amministrazione Comunale ho visto segni in tal senso, che cerco di sostenere e mi auguro resistano al vento prevalente. Nella storia antica dei popoli sanniti, raccontata da Mastronardi, ho ritrovato anche tale insegnamento e radice profonda, da cui è nata non solo la prima idea di Italia, ma quella di una possibilità di convivenza tra diversi, fondata su democrazia e libertà.

Oggi posso quindi dire che quella sfida che tentai 20 anni fa è ancora più attuale, dopo che il vento neoliberista ha raggiunto pieno dominio, cui si contrappongono in apparenza solo declinazioni identitarie di destra. Caos, autoritarismi e barbarie sembrano l’orizzonte possibile, per cui solo una robusta elaborazione culturale può sperare di aprire possibilità attualmente non contemplate.

Da parte mia, nel percorso di ricerca teorica ho richiamato Epicuro – che oltre 2500 anni fa intravide nei corpi, infimi o meno che fossero e da lui chiamati Clinamen, moti di crescita o azzeramento dell’energia, in relazione all’esistenza o meno di rapporti con altri. Tale dinamica dialettica tra singoli e collettività vale – come hanno confermato la Fisica quantistica e le Nuove Scienze – dai corpuscoli subatomici agli organismi più complessi. Dinamiche che si ritrovano in tutti e tre i livelli della progressiva strutturazione identitaria – immunitario, psicomotorio, sociolinguistico – precisati dal ricercatore Francisco Varela.

Per tutto ciò, ho posto e continuo a porre una visione dell’Identità, fondata su due termini, Casa e Cosa, che trovo attualissimi ai fini di una gestione non ideologica della complessità delle relazioni tra le mille identità nella globalizzazione del mondo contemporaneo. Casa come bisogno di protezione e stabilità, pur momentanea. Cosa come apertura e ricerca di incessante arricchimento e relazione con l’altro. Oggi si contrappongono in maniere settarie due ideologie ugualmente, per me, inaccettabili: chiusura totale e apertura totale. Che non portano a una totalità antropologica che si arricchisce delle proprie diversità. Portano entrambe a forme diverse di autoritarismi e barbarie.

 

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I personaggi e i sensi portanti

 

Tornando più specificamente ai sensi principali che innervano il libro, il tema identitario si incarna nei vari livelli e dinamiche ad esso connessi, attraverso due personaggi, Marzio e Gavio Papio Mutilo (Tata). Il primo, nipote del secondo, è sannita inconsapevole, salvato miracolosamente dalle carneficine di Silla, allevato da una famiglia romana e quindi convinto di essere romano di nascita.

Il nonno è un vecchio capo sannita, fatto salvo della vita ma punito con l’accecamento e con una condizione di emarginazione che ha il fine di azzerare la sua energia e la sua identità. Ma il personaggio è reso con una forza tale che sa resistere agli intenti del potere dominante, fino a essere l’unico – pur essendo cieco – capace di vedere la possibilità non contemplata dallo stato delle cose, in cui sembrava non ci fosse alcuna speranza di recuperare dignità e vita per il popolo sannita entro l’orizzonte di dominio instaurato da Roma.

Gavio Papio Mutilo ha la capacità di elaborare tale visione positiva, che però può mettere in atto solo attraverso il coinvolgimento del nipote. Quest’ultimo, 17enne in pieno rigoglìo formativo, riceve dal nonno fino ad allora sconosciuto, lo shock della propria vera identità. La reazione iniziale è ovviamente di rigetto violento, in quanto implica la negazione della propria immagine fino a quel momento considerata reale.

Risulta a tale proposito particolarmente adeguata la metafora della caverna platonica. La gran parte degli esseri umani vive pensando di conoscere la realtà, mentre vive in una forma o l’altra di caverna, costruita dal potere in atto, in cui oscillano figure e ombre prese per realtà. Per una vera coscienza adulta occorre uscire da tale caverna, ma è un processo difficile di formazione, che ha bisogno del supporto di una coscienza superiore che sappia farsi levatrice di una seconda nascita, quale quella che una figura paterna degna di tale nome può svolgere.

Una coscienza che può essere portata da una figura non necessariamente maschile o di padre naturale, può essere una figura singola ma anche molteplice, quale quella che la Cultura offre. L’importante è la trasmissione, oggi alquanto rarefatta, di un magistero di sapienza, conoscenza, saggezza, senso della misura e del limite, umiltà e coscienza critica rispetto alla forza e alle menzogne del potere in atto. A tale proposito, ricorro ancora a Eliot: “L’unica saggezza che possiamo sperare di acquisire è la saggezza dell’umiltà”, dice ed è una delle precondizioni per rimanere umani. L’altra è la libertà, senso del nome Viteliù-Italia, e che qui ricongiungo alla ricerca libera, rivendicata da Baruch Spinoza, non a caso ignobilmente e inutilmente maledetto dal potere del gruppo ebraico olandese di cui era parte, onta di ogni potere stupido o fariseo, che inventa ombre di falsità e paura nelle proprie caverne ideologiche.

Nel libro di Mastronardi, tutto il processo di formazione del giovane Marzio, è narrato con cadenze quasi scientifiche e giunge a sua completa maturazione, fino a sostituire il nonno nella realizzazione degli obiettivi che quest’ultimo aveva progettato: chiudere il cerchio dei trecento anni di guerre tra Romani e Sanniti, facendo riconoscere a questi ultimi Onore e Virtù, da cui ripartire per nuove pagine di convivenza e di Storia.

Agosto 2019

Adam Vaccaro

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