G. Albini

Sulla poesia di Giovanni Albini

Pubblicato il 9 febbraio 2019 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

Una riflessione sulle Poesie di Giovanni Albini

“Mi tengo stretto alle parole”, dice Giovanni Albini in un testo, Testimone, che ha il sapore di una specie di dichiarazione di poetica, di un’istantanea che condensa il senso di un’intera esperienza di vita, nel segno di “piccole” ma necessarie, essenziali cose: tra un brivido iridescente di “felicità” e il dono impagabile di un “bacio”, la vita dispiega le sue magie, godendosi le “parole” che la dicono e ricordano fissandosi nel prodigio di una scia di suoni e di luce, nell’attimo effimero della loro apparizione e scomparsa.
Godendosi le “parole”, restando ad esse “stretto” e fedele: come dire che le cose esistono, ci sono se dette, se assaporate nei loro suoni, nei loro sapori. Che sono in grado di salvare dal naufragio, dal rischio della perdita di senso: “un guscio” protettivo e accogliente, come un caldo alveo di sentimenti.
Interpretando l’esistere come un “ex-sistere”, non “un permanere”, bensì un continuo spostarsi e oltrepassare, travalicando il permanere, andando verso la possibilità aperta, verso orizzonti e accadimenti attraverso i quali l’esistenza possa mutare nel corso del tempo. È l’avverarsi e il divenire forse di un sogno, in cui l’io possa avvertirsi a casa propria, pienamente padrone di mezzi e prospettive, benché con l’avvertenza di un senso di precarietà, dell’incombenza anche del dolore: un tendere sempre verso un modo di intendersi diverso e inassimilabile, verso “l’infinito o il nulla”, ecco, giusto come dice una lirica del 2001 il Gabbiano solitario, senza che immagini e ricordi, le “piccole cose”, si cancellino ma per via delle “parole” si addizionino in una sorta di catalogo di meraviglie, in un “oggi” perenne, come un’interminabile rivelazione.
È questo che intravediamo, in questo come in tutti i testi della breve silloge, governati da una educazione espressiva esemplare: una “felicità” in divenire, emozioni e brividi dell’anima, cui fanno da sfondo luoghi, figure, incontri, atmosfere di esotico fascino e suggestione, tra isole caraibiche e Marocco, contrassegnati spesso da nomi di forte impatto emozionale (Cuba, Havana, Playa de l’Este, Medina di Fes), e in cui trovano il loro spazio e la loro casa “pigri sogni e parole” e un desiderio inesausto di gioia che può prendere le fattezze come dei paesaggi di sogno dei mari attraversati e vissuti, così più ancora di femminili forme statuarie invitanti al gioco dell’amore.
“Sono felice nel mio spazio”, esclama con soddisfazione Albini, “felice” come il Principe di Oscar Wilde, “custode della bellezza e della miseria”: uno spazio fatto di cose semplici ed essenziali (il mare, una palma, le nuvole, il vento), esposto a un “sole” che è non solo quello fisico ma anche quello metaforico, metafisico. Pare di sentire Ovidio che con orgoglio proclama di stare bene nel suo tempo: “Prisca iuvent alios;…haec aetas moribus apta meis” (“Amino gli altri il passato; io mi compiaccio di appartenere al mio tempo: questa è l’età mi appartiene e piace”).

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