Fabrizio Bregoli

Fabrizio Bregoli

 

Fabrizio Bregoli, nato nella bassa bresciana, risiede da vent’anni in Brianza. Laureato con lode in Ingegneria Elettronica, master in Marketing, lavora nel settore delle telecomunicazioni.

Ha pubblicato alcuni percorsi poetici fra cui “Cronache Provvisorie” (VJ Edizioni, 2015 – Finalista al Premio Caproni), “Il senso della neve” (puntoacapo, 2016 – Premio Rodolfo Valentino, Premio Campagnola di Brugine, Premio della Giuria al Dino Campana, Finalista ai Premi Gozzano, Merini e Caput Gauri), “Zero al quoto” (puntoacapo, uscita prevista a Marzo 2018). Ha inoltre realizzato per i tipi di Pulcinoelefante il libriccino d’arte “Grandi poeti” (2012).

Suoi lavori sono stati pubblicati in antologie di Lieto Colle, de La Vita Felice, della Fondazione Mario Luzi e sulle riviste Alla Bottega, Versante Ripido, Il Segnale, Atelier, oltre che in “Lezioni di Poesia” di Tomaso Kemeny.

Ha conseguito numerosi riconoscimenti per la poesia inedita, fra i quali gli sono stati assegnati i Premi San Domenichino, Marietta Baderna, Daniela Cairoli, Giovanni Descalzo, Piemonte Letteratura, Terre di Liguria, Il Giardino di Babuk, il Premio “Dante d’Oro” dell’Università Bocconi di Milano, il Premio della Stampa al Città di Acqui Terme.

Sulla sua poesia hanno scritto Giuseppe Conte, Tomaso Kemeny, Ivan Fedeli, Mauro Ferrari, Sebastiano Aglieco, Vincenzo Guarracino, Laura Caccia, Laura Cantelmo, Eleonora Rimolo, Paolo Gera, Alessandro Ramberti, Gian Piero Stefanoni, Alfredo Rienzi, Angela Caccia.

 

RELIGIONE DOMESTICA

 

Un altro anno già calcia il calendario,
piazza tiri a traversa, fuori gioco,
ore arse come grani di rosario
ma attender sugli spalti torno torno
non vale il baloccarsi tra le cose
fino alla nuova luce che dà giorno.
E’ come allineare in una frase
frammenti d’una vita che discorre
in cerchio nel silenzio delle case.
Il bollito di manzo, il cavolfiore,
a specchio le forchette lucidate,
bucato di lavanda, bollitore,
il luccichio ai vetri sotto il sole,
certezze tutte, in fila alle parole.

Se resterà nell’orma ancora polvere
aggiustarsi il cappello sulla fronte
sarà come vedersi un po’ resistere,
come a dire la soglia all’orizzonte
non spaventa, si deve pure andare
alla ricerca di ciò che oltre il fiato
ancora resta, la fibra già attorta

e non combusta, il palpito che dura,

quel chiaroscuro a sprazzi dentro l’ombra,

quel niente che si fa letteratura.

 

 

 

MAZINGA E L’UOMO RAGNO
(D’un carnevale antico, e nuovo)

 

Passare la domenica allo specchio,
estrarre la sequenza delle rughe
per farne perno, fingersi più vecchio,
rimpiangere il passato fra le fughe
delle piastrelle sorde ad ogni passo.
Così si sfoglia l’album di famiglia
convinti che ci possa dar la sveglia
con rapidi rintocchi di memoria,
rivedi poi la maschera di Zorro,
lo scudo di Mazinga, l’uomo ragno
gettare la sua tela in bianco e nero
sul volto imbalsamato di chi resta
e in controluce sai, si fa straniero.

 

E’ vita trattenuta sulle labbra,
riavvolta sulla spola il lunedì
nella promessa nuova del mattino,
resistere alle code in tangenziale,
fuggire il cannocchiale del vicino,
indovinare il titolo al giornale
espedienti tutti, e ali di fortuna,
sopravvivenza spiccia, da manuale.
Il cellulare piatto sotto petto,
la giacca abbottonata, la cravatta
fanno scordar l’azzurro del costume,
la chiazza di colore, dozzinale.
E’ tempo d’oggi, d’attizzare il lume
del quotidiano giogo al carnevale.

 

 

 

IL SENSO DELLA NEVE

 

L’inverno è l’indugiare del pensiero
il perdersi nel vuoto delle stanze
fuggendo l’aria succube nel gelo
raccogliere le gocce della brina
stillarne fiato a pelo delle labbra
e reggere al tranello del già detto
all’esile lusinga del cantabile:
donzelletta passero assiolo, questa
bella d’erbe famiglia e d’animali
nonna Speranza e ogni caro poetico
vecchiume di lune e favole belle
il pio bove, i cipressi del Carducci.

 

Altro il timbro degno del nostro tempo
col pollice alle nocche un Vanni Fucci
che uncina, che flagella, che dà strazio
Pluto, Minòs ch’avvinghia alla sua coda
Flegiàs, Semiramìs lussurïosa
e serve una parola rattrappita
potata come un pesco di febbraio
quando sferza le guance tramontana.
Serve un torsolo minimo di voce
senza ravvedimenti, mediazione
stanar l’arpeggio nello sciabordio
delle stoviglie, frugare le pieghe
remote della polvere, scoprire
la chiave del durare in ciò che è breve
lo spazio dove resta illeso il bianco
allo svanire certo della neve.

 

 

ELETTROFORESI

 

M’imponi, necessità inalienabile
reverenziale rispetto del verso
come fosse un sacro crisma, un cristallo
da imballare con la dizione fragile,
t’aspetti assoluzione consolante
di rima ritmo luna amore stelle,
per lo meno l’aderenza al canone
in questa incontinenza dell’esistere.

 

Nella congerie osmotica del secolo
che vede l’uomo al bivio del suo nulla
non serve un trabocchetto, la fasulla
moneta dell’incanto ad ogni costo,
bisogna distillare il sentimento
disporlo in una curva intellegibile
e farne il diagramma degli stimoli
dargli la giusta coppia, potenziale
impulso e carica, elettroforesi.

 

Il verso va pressato all’essenziale
sforbiciato, sfrondato con tronchesi,
la nostra persistenza ormai è endemica
s’appoggia a pochi esatti gesti certi:
il cambio gomme, la curva glicemica
il piano di raccolta dei rifiuti
l’adeguamento ISTAT, la giusta diùresi
l’IMU e l’alvo regolari, l’afèresi
del poco che vale, dal tutto vile.

 

 

SHOPPING DI NATALE

 

Milano che t’infrangi tra le volte
dove stillano lacrime di sole
t’affollano le mani, ti rovistano
e rassereni nei palmi distesi
del marmo lucidato del tuo duomo
che sai avvicendarsi alla fuliggine,
respiri con pudore le tue polveri,
scantoni tra le tenebre degli anditi
dove si stendono schiene a cartoni
sulle piastrelle viscide e v’indugiano
gorghi di cellophane, latte di birra
scie di sputi, chiazze di gelati
mozziconi sfiancati ai troppi passi,
compare qualche sguardo dalle sciarpe
per scagliare pugni di dadi, lisca
d’una vita scorticata, quel ghigno
desolato che ne resta: qui scopro
nel midollo paziente del tuo esistere
tra crocchi di marmocchi, torvi zigomi
il guizzo iridescente, integro vivere
poiché poesia non è parola
che s’affranca, ma intorbidarne lingua
braccia sangue, distanza che si varca.