Magdeburgo in Ratisbona e la negazione del vuoto

Pubblicato il 18 ottobre 2012 su Eventi Milanocosa da Maurizio Baldini

La negazione del vuoto

Magdeburgo in Ratisbona, Annamaria De Pietro, Milanocosa Edizioni, Milano 2012

Questo libro di Annamaria De Pietro sarà forse una sorpresa anche per chi la conosce sin dall’inizio delle sue pubblicazioni (intorno alla metà degli anni ’90). Sorpresa e rinascita pasquale richiamate peraltro anche dall’immagine fabergeiana di copertina. Ma proviamo a entrarvi.

Il titolo e la dimensione (oltre 300 pagine) anomali rispetto ai moduli prevalenti dei libri di poesie, non temono di sfidare l’interesse del lettore. La veste grafica è conforme alla duplicità della diade ossimorica di cui il libro è corpo in cerca della esplosione “dei possibili, al loro vertiginoso irrompere” (p.165): nomi e sensi di vuoto e pieno, scuro e chiaro, negazioni e affermazioni, smarrimento e salvezza, nonsenso e senso, dei quali Magdeburgo e Ratisbona sono i luoghi contrapposti utilizzati per la tessitura.

Il bianco algido di candore e rigore che campeggia insieme a quello di un uovo di Fabergé del 1885, chiuso in quarta e aperto in prima di copertina, è metafora dei sensi rincorsi al suo interno: intreccio incessante di preziosa eleganza e calore vitale, tra graffi di ironia e rovesciamento della logica consueta, di cui è esempio la gallinella accovacciata che ne sortisce.

Il titolo: richiama il noto esperimento fisico fatto da Otto von Geuricke nel 1654 nella città di Ratisbona con gli emisferi detti di Magdeburgo, in riferimento al titolo dell’opera dell’autore su tali esperimenti: Experimenta nova, ut vocant, Magdeburgica de vacuo spatio, del 1672. La spiegazione e il significato stanno qui. Ma il senso, i sensi, come già accennato, ruotano intorno al concetto di vuoto, che Annamaria nega con tutta se stessa e in particolare con questo libro. Una negazione tuttavia impossibile, perché se “Negare è affermare” (p. 164), il corto circuito logico si traduce in un boomerang da applicare anche alla negazione del vuoto. Ma tralasciamo questi giochi da sillogismi e paradossi (aristotelici e no). E procediamo, badando al nucleo sostanziale e alle implicazioni dell’impianto logico di De Pietro.

L’esperimento sopra ricordato venne effettuato in seguito alle discussioni sull’esistenza del vuoto e della pressione atmosferica. Geuricke si impegnò in vari esperimenti e quello più noto fu con due emisferi cavi di ottone, di 80 cm di diametro, combacianti tra loro: dopo aver fatto il vuoto al loro interno, poterono essere separati solo dal tiro contrapposto di otto cavalli. Geuricke ripeté poi l’esperimento con emisferi più grandi che resistettero persino alla trazione di ventiquattro cavalli.

Ma la storia di tali esperimenti scientifici fornisce ad Annamaria solo la base concettuale, su cui costruire e dare forma al suo immane bisogno di scrittura e poesia. Come per un bombice la pianta di gelso. Ahimè, senza di questa nulla accadrebbe, ma anche senza conoscere tutti i legami biologici che portano al filo di seta, rimaniamo comunque ammaliati dal risultato finale: un filo sottile, lucente e forte che è ormai altro dalla materia da cui è stato creato. La creazione incessante della vita, è questo il tema, di cui questo libro fornisce una tessitura serica che non si appaga della propria bellezza, anche se la qualità della scrittura è tale da riportare alle origini della creazione artistica in cui tendevano a (con)fondersi meraviglia e conoscenza, bisogni primari e telos di utilità antropologica.

Una conoscenza che è vacua se non è capace di connettersi e trasmettere ad altri esseri umani. È una delle possibili implicazioni della negazione del vuoto, non solo per mie inclinazioni, ma per riverberi recepiti dal testo. In questo libro di Annamaria c’è infatti un alito di tensione alla condivisione meno tenuto dal filo della sua passione letteraria, o piegato dal piede versificante della iperdeterminazione del significante. Qui, le polarità di complessità e transitività cercano come un crinale di nuovo equilibrio, forse per una maggiore dolorosa maturazione umana che combatte il vuoto quasi invocando il contatto, il riscontro dell’altro. Il suo filo di seta si svolge e avvolge intorno e dentro un notevole numero di persone (poeti e no), fatte oggetto e soggetti di testi loro dedicati. Testi che diventano immagini, lettere in bottiglia o incisioni rupestri (nomen omen), icone di amore e bisogno di relazioni, che dicono e mettono in comune l’implicito avviso (per sé stessa e per tutti): senza di esse crepiamo nel vuoto, rimaniamo zeri tondi in emisferi senz’aria.

Quel filo tesse un testo che diventa allora immagine del panorama mentale di Annamaria, dei suoi nodi di incontri, esperienze e condivisioni, e insieme luogo di una comunità attesa che resiste al vuoto attuale di polis. La lettura (mi) trasmette una originale declinazione di senso sociale e civile, che non mi pare solo una forzatura delle mie ossessioni. E credo che essa si congiunga (ovviamente col suo stile) al percorso di Milanocosa, nella sua ultradecennale significativa storia di testimonianze umane e culturali. Perché Annamaria è stata presente, sempre e sin dall’inizio, in ogni ramo di tale percorso collettivo, contribuendovi ogni volta con arricchimenti critici e creativi.

Negare il vuoto implica dunque, per me, sensi ampi e non individualistici. Vuol dire toccare la relativa mancanza di comunità e/o di sensi condivisi cui è giunta la nostra società capitalistica, arrotolata sempre più nelle sue crisi senza uscita. Vuol dire, in prima istanza, non lasciare tranquilla la questione del pensiero unico dominante, che si erge a unica verità.

La verità di ogni polarità, senza una alterità contrapposta, implode nel vuoto di senso: il polo nord esiste insieme al polo sud, e qualunque altro punto di riferimento lo è sempre in relazione all’altro da sé. È la necessità vitale di senso che implica (non solo per la poesia) contrapposizioni irriducibili che comportano il senso del tragico e la misura con la violenza della storia umana: sono i fondamenti della radice greca di pensiero e poesia, che trovano una particolare declinazione in questo libro.

Tale radice si traduce in un appello di richiesta di aiuto e salvezza. Da chi, da cosa, e soprattutto perché ora? Non voglio assolutamente connotare i testi di Annamaria in modi impropri ed estranei alla sua ricerca, che è sempre stata e rimane letteraria. Tuttavia, mi pare che essa meriti, qui, qualche ulteriore scavo.

Tra le due parti o emisferi – Magdeburgo e Ratisbona – che compongono il libro ci sono pagine (163-168) di cesura con due palindromi (del cercare e del trovarsi), che sigillano e insieme aprono alla moltiplicazione dei sensi del libro. Vediamo il primo di essi, definito non a caso dall’Autrice, della fine, in consonanza con il (sopra ricordato) ciclico interminato processo biologico della vita. Per cui ogni inizio contiene il DNA della sua fine e/o dei suoi fini:

Palindromo del cercare

Invero il segno a stampa che taglierà dal pensiero

forma mentre si avvolgono tortuosamente i tratti

– mi chiedo – riavvolgendosi gli darà senso e vero

seme e fine dal bianco della peschiera ai fatti?

È evidente, mi pare, la tensione, il bisogno di uscita dai tratti del “bianco della peschiera della forma letteraria, che per vie loro proprie “si avvolgono tortuosamente e rischiano di appagarsi (solo) di sé, tagliando i nessi generativi che li collegano al pensiero e ai fatti.

Non c’è qui, esplicitiamolo, un pensiero dominante sociopolitico, ma un pensiero speculativo e filosofico di un Io occidentale, generato come sappiamo da e tra forti tensioni di libertà e senso sociale. Il pensiero letterario di tale Io, pur avvolto e svolto nei suoi specifici tortuosi mantelli, rivendica – se non ridotto a esercizio chiuso ed egotico dalle logiche e separatezze dominanti – una sua utilità antropologica di seguir virtude e conoscenza, quale fragile ma resistente ponte, per dirla con Antonio Porta, tra storia e immaginazione.

In questo libro c’è, ecco, questa tensione all’aprirsi del bianco della pagina, che mentre intreccia forme tra pensiero informante e fatti, non lascia tranquilla la coscienza del rischio del vuoto di senso. È una tensione che ha corrispondenze, per me, con lo stato di degrado, disgregazione e disperazione impotente, subito e vissuto da larghi strati sociali. Il problema è (è stato già detto) prima di tutto culturale, di una cultura che rielabori un pensiero adeguato ai vari ambiti della prassi, politica, etica ecc., compresa quella poetica. Ambiti interconnessi anche in quest’ultima, che può arrotolarsi nei più voluttuosi viluppi di parole ma se non esce da sé non si salva. Lo ribadiscono i versi del secondo palindromo, che specularmente al primo apre a un nuovo inizio:

Palindromo del trovarsi

Dal falso il segno a stampa che nel pensiero ritorna

strisciando vuote reti ombra al guizzare del branco

– rispondo – e il vento in alto le alte vele frastorna –

di sé compiace l’angolo ritagliato nel bianco.

A ulteriore riprova, a pag 164, scrive: “Ma porte e finestre erano, e sono, quello che volevo, e voglio – la fuga dal vuoto, dal chiuso, dalla solitudine, dal male, attraverso un proditorio (potrei forse definirlo etico) traino, due tiri di otto cavalli l’uno opposto all’altro traente, verso un territorio di astanze libero e aperto, pieno di cose dicibili, dette, il bene di un’auspicata salvezza” tra “due luoghi reali, fisici e logici, sinonimicamente contrapposti: il primo, Magdeburgo, cava del vuoto (che col suo nome s’identifica), del chiuso, della solitudine, del male, – il secondo, Ratisbona, mina dicibile della salvezza, apertura, accoglienza, una cordiale porta spalancata alla calata dei possibili, al loro vertiginoso irrompere…Perché grazie a Ratisbona, la sconosciuta città lontana, il vuoto non è qui, il vuoto è altrove.” È l’alito e il sogno di questo libro, che “Cosí, in due macrosezioni, valve, emisferi di Magdeburgo se vogliamo, da un lato, la prima città, ho raccolto i testi virati al fosco, dall’altro, la seconda città, quelli virati al chiaro.” (ibidem)

La lucida e impietosa coscienza (in primo luogo verso il proprio fare di Soggetto Scrivente), che ha posto alte vele nel perimetro-non perimetro aperto alla navigazione nel bianco della pagina, oscilla compiaciuta nella falsità ineliminabile di una bellezza che insegue inseguita mentre ritaglia forme da tale informe bianco. E mentre prende atto che non esiste un contenitore sufficiente a evitare che continuamente guizzino entità che vanno oltre le reti poste dal pensiero che lo istituisce, prova riprova e immagina, ma sa che non potrà mai contenere il tutto che muove il vento in alto.

Perché “la scrittura sa che i suoi mezzi, o armi, nient’altro sono che ambigui, interrogativi argomenti, parole pensate”. Cosicché “il libro può salvare soltanto nella sua forma sostanziata di libro, entro un gioco oppositivo di nomi – la vita è altro e non la salva niente e nessuno.” (p. 165).

Per tutto questo e per la ricca scenografia formale e umana che questo libro mette in campo, disegna e offre (e che richiederebbe analisi specifiche oltre gli intenti di questo scritto), ho accolto la proposta di inserirlo nelle edizioni di Milanocosa con una gioia e una condivisione del tutto particolari.

Adam Vaccaro

One comment

  1. Laura Cantelmo ha detto:

    Grazie di questo commento a una raccolta intensa e impegnativa. La sto leggendo e centellinando, cercando gemme che già in parte ho individuato.
    Laura

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