L’albero alato di Antonio Porta

Pubblicato il 26 luglio 2009 su Saggi Poesia da Adam Vaccaro

L’albero alato di Antonio Porta

Ricerca estetica e pensiero critico resistente

Adam Vaccaro

Quale soggetto e quale verità

Ci sono due versanti di senso o di modi di sentire e vivere il fare arte e poesia, che articolano la storia della letteratura italiana, dalle sue radici originarie – petrarchesca e dantesca – agli sviluppi e forme dei secoli successivi. Possiamo cogliere in essi due divergenti accentuazioni. Ma gli accenti contano. Al pari di un piccolo iniziale cambio di direzione che poi conduce a punti di arrivo molto diversi.

Un primo modo pone l’accento sul creatore solitario e sul valore del colloquio interno intrasoggettivo, che può però arrivare ad annebbiare, o perfino negare, valore e possibilità del colloquio esterno intersoggettivo. Senza il quale è difficile evitare monadi appagate da circuiti autoreferenziali, illusioni salvifiche o chiusure estetizzanti di una bellezza sottovetro, tendente a termini assoluti, spirituali e astratti, fuori dal ventre della storia e da un concreto cammino antropologico di seguir virtude e conoscenza. Un cammino in cui la poesia dona aria e ali alle gambe di altri esseri umani, che possono regalare gioie di condivisione o ferire e dare calci, ma sono la sola misura per chi vuole accadere nel mondo.

Verità smarrita da narcisismi e arroganze (hybris) di specchi unici di sé, dimentichi che nessuno, nemmeno Dio, può evitare di incarnarsi in altri specchi e gambe. Approcci certamente coerenti con le linee prevalse nella cultura occidentale, in cui – dal platonismo all’idealismo, come nel pensiero giudaico-cristiano – il processo conoscitivo è inserito in tutta una serie di doppi: tra un esterno (sconosciuto) e un interno (fonte di verità), tra corpo e anima, carne e spirito ecc.. Ne sono derivate le due culture (speculativo-scientifica e letteraria) e crescenti separatezze tra i vari ambiti, ognuno dei quali convinto di scrivere la Verità assoluta.

L’altro modo di vivere l’operatività creativa del singolo, non separa il valore del suo fare dal farsi del soggetto nelle relazioni del contesto storicosociale, e lo pone quale nodo sincronico di segni di ripresa della totalità soggettiva nella sua pluralità di piani e rami di albero alato. Ossimoro di complessità, limiti e potenzialità, della nostra identità. Che, nella successione diacronica di contraddizioni e scambi biologici tra unità e totalità, accumula esperienze e senso di sé, perdite e moti alati della capacità di immaginare un oltre, senza il quale non si darebbe, semplicemente, né arte né cultura né storia umana.

È una concezione materialistica che, nel bicentenario della nascita di Darwin e dopo gli ultimi secoli di scoperte – dalla meccanica quantistica, alla ricerca biologica, alle neuroscienze –, ha delle ragioni per dire che energia, pensiero, mente, spirito, anima, sono anch’essi materia e nomi di una unità vitale inscindibile in continua metamorfosi. Fuori da atti di fede e dogmatismi (laici o religiosi), la verità è un percorso mai terminato dalla totalità esperienziale del soggetto. Una concezione rimasta minoritaria, sia nelle intuizioni più antiche – come il relativismo agnostico di Protagora o i clinamen di Epicuro1 – che nelle ricerche moderne; una visione che impone alla cultura laica sfide continue, sul piano etico e delle idee.

Antonio Porta si è costantemente misurato con tali sfide, riguardanti sia “la questione del soggetto2, sia le categorie mentali di realtà e verità: “La verità non esiste”, affermava, distinguendo “con la fenomenologia di Luciano Anceschi, tra vero e verità, intendendo il primo quale punto di interazione tra il soggetto e l’esperienza, un punto fermo che però non è definitivo come la verità3.

Il mestiere del poeta

Proseguiamo con altre prese di posizione e testimonianze di Porta, già richiamate in alcuni miei scritti critici. Tra questi, nella nota introduttiva a La casa sospesa4 ricordavo:

‘In uno scritto del 16/8/88 (dai Diari inediti, della cui disponibilità ringrazio Rosemary Liedl Porta) Antonio Porta scrive: “Tutto accade dentro una cornice che si chiama ‘sfida della comunicazione’. Ma ‘comunicazione’ vuole dire prima di tutto ‘mettere in comune’…tuffarsi insieme nel mare del linguaggio… La comunicazione non è un piroscafo di linea”, è “entrare dentro il cuore della lingua e farmelo rovesciare sul tavolo”. “Ma è chiaro che questa identità linguistica (specifica, sempre A. P., in un altro scritto: “Chi è il poeta?” in “Il progetto infinito”, Ed. Gammalibri, Milano 1980, a cura di Silvia Batisti e Mariella Bettarini) è continuamente preparata dalla successione di eventi extralinguistici e insieme dalla capacità di sopravanzare questi eventi, per atroci che siano”, sopravanzarli, dando cioè “loro un senso…non esiste, né può esistere, un linguaggio della poesia come fatto puro, autonomo. La scrittura poetica si muove autonomamente ma all’interno di tutti gli altri linguaggi, compresi quelli scientifici…mi pare quasi superfluo affermare che il testo non basta a se stesso”.’

Da parte mia, aggiungevo qualche considerazione, purtroppo oggi ancora più attuale:

‘Negli ultimi decenni abbiamo vissuto in un processo di accelerazione di cambiamenti con vere e proprie esplosioni delle vecchie identità. È noto che tutti i cambiamenti comportano un processo mentale di elaborazione del lutto rispetto a ciò che viene perso…Al di là delle analisi di quanto perso e acquisito, è indubbio che nell’ultima fase storica siamo stati (e siamo) in una condizione che tende ad accentuare la difficoltà di tempo mentale necessario all’elaborazione dei mutamenti che si succedono. Questa condizione tende a produrre una percezione, della propria identità e dell’Altro, connotata da un senso di sospensione – privo cioè di quegli attributi che facevano parlare di realtà, con connotati di concretezza e solidità. De Rita nell’ultimo rapporto del Censis ha acutamente definito le ultime generazioni come leggeri di testa. Credo però che questa osservazione possa essere attribuita anche a tanti adulti, tali solo per l’anagrafe….Per cui le identità tendono a volare in una beotitudine chiusa nel presente.’

E di seguito (mi) ponevo qualche domanda:

‘Può oggi la poesia, nella sua incoercibile autonomia, essere voce di ricerca utopica di possibilità vitali non contemplate?, essere spazio mentale non alienato che costruisce per l’adesso e per il futuro un’adiacenza tra gli universi paralleli e molteplici del Sé?, un’adiacenza che riesca così a essere corpo della tensione del soggetto verso gli universi della Totalità? La poesia credo stia in questo verso, in questo viaggio, che per arrivare a essere più presente qui, deve porsi fuori dal mondo, in un luogo senza dimora. È uno dei paradossi della poesia, per cui la sospensione richiamata dal titolo ha, in coerenza col fare dei linguaggi che costruiscono poesia, più di un senso.’

Domande e risposte che cercavano echi in Antonio Porta, il quale nel diario citato, proseguiva:

“il ‘mestiere del poeta’ va comunque ripensato, in termini di figura sociale…così come l’aveva pensata Pavese. Da questo mestiere (fare poesia) si parte per bucare la pagina, per sfondare i linguaggi automatizzati …uscire dalla letteratura per raggiungere quell’immagine dell’esistenza che in qualche modo intuiamo possibile…oppure: anche rimanere nell’ambito della letteratura purché si identifichi ‘letteratura’ come luogo delle interazioni tra storia e immaginazione…interazione-integrazione tra poesia e esistenza, in direzione dell’esistenza: i versi ci servono, noi non vogliamo servire i versi e tanto meno l’Estetica”.

È una posizione che risalta per la sua anomalia e inattualità, oggi ancor più minoritaria, che non lascia tranquilli la poesia e il poeta, dentro una stanza solitaria, in un ineffabile pallone sospeso nella presunzione di sé. Una posizione inevitabilmente resistente, che manifesta il forte bisogno di porre al centro del fare poesia la vita nella sua totalità, con tutto ciò che la connota e condiziona, qui e ora, antropologicamente: relazioni sociali, cultura, storia, politica e potere. L’Estetica è perciò inscindibile, in Porta, da una visione del mondo contrapposta a quella dominate, in cui, quasi per statuto, il soggetto è incapace di comunicare con l’Altro, se non in termini pratici e strumentali. Di quale arte e poesia a quel punto si può parlare?

Nodi di poesia, cultura e politica

La tendenza prevalente all’omologazione dentro la cultura borghese, con le sue spinte individualistiche, competitive e furbesche, genera l’incapacità di immaginare un oltre – terreno e non metafisico – e, quindi, di fare cultura. È un discorso politico, nel senso più alto, che implica responsabilità di ciascuno e di tutti, anche di chi lo ignora o fa finta di ignorarlo, poeta o altro. È un nodo toccato da Antonio Porta, e richiamato in un altro mio scritto critico5, di cui riporto qui sotto la sintesi di alcuni passi utili.

La relazione complessiva tra cultura e società suggerisce oggi un’immagine di separatezza, che fa  ricordare la “realtà parallela”…distante e chiusa nel diaframma dell’attualità, de L’uomo senza qualità di Musil. Intellettuali e artisti appaiono spesso una presenza-assente, simile a quella disgregata e emarginata dei Rom (termine che, ricordo, in origine vuol dire “Uomo”). Pensiero critico e anomalie sociali tendono a essere travolti dalle omologazioni del presente, come da anomie, degradi e falsificazioni della storia imposta.

Logiche di potere e di mercato fanno il loro mestiere sommergendoci di prodotti di distrazione di massa, ma ciò moltiplica la responsabilità di chi vuole fare cultura, intesa come capacità di immaginare il nuovo in antitesi all’esistente. Il che comporta linguaggi d’arte al di là di esercizi autocentrati, tra banalità sentimentali e cerebralità, prive di eros e disinteressate all’altro. La possibile presenza e funzione sociale di una cultura alta e altra passa dal coinvolgimento della totalità di sé, sollecitata solo se incarna e condivide esperienze comuni. Scrive a tale proposito Claudio Magris (Corriere, 21 ottobre 2007): “I poeti esibiscono spesso grandi sentimenti, ma essi – dice un verso di Milosz, grande poeta – hanno spesso un cuore freddo, anche se danno ad intendere il contrario, in primo luogo a se stessi.”.’

Certo, già in Viaggio in Italia, Goethe faceva rilievi che sembrano attualissimi, talché potremmo dire che nulla è cambiato nei secoli. Inutile però rotolarsi in pessimismi disperati e impotenti. Serve invece riflettere sui cambiamenti epocali della situazione globale, insieme a tutti coloro che tendono a misurarsi con le tragedie contemporanee generate dalla fase estrema del capitalismo, col suo corollario di crescita infinita.

Non credo che oggi occorrano manifesti, grida o comizi, ma piuttosto confronti e scambi tra chi vuole misurarsi a fondo con i nodi duri del contesto, per continuare a immaginarne un superamento, un’utopia che non sia fatta solo di speranze ingenue e illusorie. Senza di ciò, l’oggettivo specchio tragico contemporaneo finisce frantumato nella cronaca, tra scenari grotteschi, barbarie autodistruttive e disastri apocalittici, deliri e orrori dell’infinito presente. Dice ancora Magris (cit.): “L’eclissi del sole dell’avvenire sta comportando il tramonto del senso del futuro, della speranza del mondo.”6

Sono nodi che ritroviamo (L’Unità del 18 febbraio 1989) in Antonio Porta, che rifletteva sulla posizione “conservatrice” di Karl Kraus e su quella di Luciano Anceschi. Il primo temeva “la politicizzazione dell’arte”, pensando ai politici che riescono “a vincere sempre a spese di coloro che non partecipano al gioco”. Insomma, politica bassa da Casta. Porta, con Anceschi, parla di un’altra politica: “Vogliamo ricominciare a parlare della politica?…lo ritengo…indispensabile e indilazionabile…da parte degli scrittori”, perché “siamo a una svolta…:non possiamo più concepire la politica come un gioco ermetico…tollerare la separatezza ormai istituzionale dai problemi reali della società contemporanea…”

Una politica, dunque, che “smette di essere una tecnica di autoriproduzione e di esercizio del potere fine a se stesso, e va, finalmente, verso le cose, ha il coraggio di affrontare il reale. Questa può e deve essere la vera rivoluzione che parte dal nostro tempo.” Sono ipotesi che possono apparire oggi, e ciò misura il degrado attuale, visionarie e ingenue. Eppure credo con Porta che l’alternativa sia tra la possibilità di una “’mutazione genetica’…di enorme portata culturale (e intendo il termine cultura nel suo significato più ampio, antropologico, di sistema di relazioni tra gli uomini)”, che non lasci (anche gli intellettuali) ne “l’illusione romantica della propria incontaminata salute mentale; e l’altra, di andare verso le cose…Senza paura di sporcarsi le mani, come si diceva una volta, perché tanto le mani non rimangono pulite in nessun modo.”

Antonio Porta credeva nella forza delle cose e richiamava con Luciano Anceschi la comune concezione di poesia, “come qualcosa che vive nel pieno sviluppo (sia, ndr) delle relazioni interne che la riguardano”, sia “delle relazioni con le altre attività umane”. Dunque, una “letteratura in cui tutto rientra, dalla filosofia alla scienza, dalla morale alla politica, dal costume allo sport”. Gli intellettuali “non possono certo sentirsi chiamati al ruolo un po’ ridicolo di ‘angeli salvatori’”. Ma è anche indubbio che “la loro formazione sparsa somiglia sempre più a pattuglie disperse nel deserto e il momento dello smarrimento ha coinciso proprio con l’abbandono dell’impegno politico.”

“Il discorso dell’impolitico, un tempo caro agli intellettuali della fallimentare separatezza, mi pare che oggi funzioni solo da alibi: di fatto il discorso va rovesciato:…la posizione ‘impolitica’…fa riferimento a una ‘politica’ che non può più reggere neppure a se stessa.” “Si deve dunque parlare di un ‘nuovo impegno’, di un pensiero che torna a essere forte e non si rassegna ad amministrare la posizione di rendita dell’osservatore distante e rassegnato dello status quo? La mia risposta è decisamente positiva.”

Conclusioni aperte

Parole del 1989! Che fanno avvertire ancora di più la necessità di trasformare in opportunità la crisi e il vuoto attuale, facendo massa critica, capace di produrre il senso di un corpo sociale che resiste. Resistenza con quale senso? Un senso che tenga conto dei due drammatici cambiamenti epocali, acutizzatisi dopo il cruciale 1989: la fiducia nella provvidenza senza fine delle risorse della Terra è ormai pura follia, e Destra e Sinistra sono diventate solo due diverse declinazioni di un pensiero unico, dominante e invisibile come l’aria. Di fronte a tale insieme di problemi materiali e culturali dov’è la presenza (il cuore e la testa) di chi si occupa (a parole) di cultura? Tende a rimanere invisibile perché è anch’essa in gran parte all’interno di tale pensiero.

È questo il vuoto che andrebbe colmato: non ci sono formule né garanzie, tuttavia “identificarsi con la vita implica identificarsi con tutti i suoi aspetti e dunque non solo con la primavera in fiore ma anche con i terremoti e, per quel che riguarda gli uomini, non solo con i loro amori e i loro sogni, ma anche con il male che infliggono agli altri, le ingiustizie che commettono, le guerre che scatenano”, dice ancora Magris (cit). Il paradosso necessario è che per essere presenti occorre essere inattuali (nel senso di Nietzsche). L’alternativa è di essere irrilevanti, recitando una presenza che non esiste, se manca di condivisioni e corrispondenze.

Le posizioni estetiche e politico-culturali di Porta impongono due considerazioni e altrettante conclusioni aperte. Da un lato, riaffermano la sua presenza viva, di prezioso punto di riferimento che dovrebbe avere un rilievo ben maggiore di quello che ha, dentro e fuori l’ambito letterario – il che conferma il degrado culturale e politico ulteriore, successivo al 1989. Dall’altro, nell’albero alato dell’universo portiano, esse sono corpi organici che ci chiedono di indagare in che modo si con-fondono a forme e lingue della sua cosa poetica; una cosa che, con lucida coscienza, si fa materia, misura e anagramma di caos7, in cui un pensiero critico resistente cerca di reinventare sensi e parole, quali etica, impegno, funzione sociale e civile di chi vuole fare cultura. Ma devo rinviare una risposta adeguata a tale domanda, che va oltre i fini e limiti di questo scritto.

Mi limito perciò qui a una sintesi, di quelli già visti e di altri principali poli di senso, utili alla lettura diretta della scrittura poetica di Porta.8

In essa, concezione fenomenologica e misura col caos, storicamente e non ontologicamente collocato, generano senso del tragico (“per Jaspers, e sostanzialmente anche per Porta…ogni forma del mondo è destinata a naufragare”, per cui “nessuna conoscenza può imporsi come assoluta”, J Picchione, cit,, p.15) e rifiuto di ogni parola consolatrice: “Il senso del tragico è alla base di ogni mia operazione poetica. Gli oggetti, gli eventi, gli uomini sembrano sfuggire a ogni condizione di…dare senso alla vita. Sembra che questo tentativo continui a fallire”, come “Edipo, l’uomo sapiente che si acceca“.9

Ma ciò diventa, in Porta, motivo per sollecitare il soggetto (scrivente) a resistere con una parola in re, fenomenologicamente vera, impietosa e conscia della propria provvisorietà, come di ogni altra cosa. La sua azione è chiamata così a esserci come materia biologica di una polarità opposta e irriducibile alla mancanza di senso, come cosa che si costituisce nel fare di un progetto ignoto, non definibile ante rem, da un pensiero o da un correlativo oggettivo che, come in Eliot, tende a pre-formarlo. Una azione che vuole tuttavia s-velare e misurarsi con la realtà (visibile e invisibile, ignota o mascherata) di rapporti umani violenti, per creare un grado zero da cui ripartire. È il punto fondante che genera il distacco da posizioni solo destruens del Gruppo ’63 e della neoavanguardia, e che tende a un’azione construens contro la perdita di senso; ne consegue la rivalutazione della comunicazione, col rifiuto di concezioni aristocratiche e chiuse nel letterario, simbolismi distaccati (Mallarmé), esercizi cerebrali, giochi di parole e iperdeterminazioni del significante che tendono ad azzerare il valore dei significati.

La tensione all’altro sollecita un eros resistente a tanatologie e immagini di crudeltà, sangue e orrori, o a stasi paralizzate, in cerca di una reazione vitale (in sé e nel lettore): “Anche il poeta, dunque deve accecarsi?”, si chiede Porta, e risponde: “No. Egli si muove insieme agli altri in una condizione paragonabile a quella di assenza di gravità, librato…mentre cerca di afferrare gli oggetti in libertà. Cerca di avvicinare i suoi simili e pone le domande fondamentali sulla vita e sulla morte.” (Il grado zero della poesia, cit. p.42). Cerca un’uscita e non il nulla, pur non vedendo soluzioni. È un senso del tragico che si sviluppa, dunque, lungo un crinale sottile che rifiuta sia il pessimismo che l’ottimismo, “due facce – egli dice – di uno stesso atteggiamento” in cui “nasce l’idea del nulla variante mistica dell’idea del sublime”.10

La conoscenza della realtà procede in un interminabile “sviluppo per contraddizione” (Correlativo oggettivo, cit, p.69), in cui il linguaggio è attore che, a partire dalla percezione, traduce l’oceano prelinguistico dei sensi nel mare del proprio sistema di segni. Ne risulta “la necessità di una dialettica tra autonomia ed eteronomia” (J. Picchione, cit. p.28) dei due sistemi, crinale che aiuta a uscire dall’ideologia (o totalizzazione) del testo, col suo corredo di separatezze, assolutismi e arroganze; aiuta soprattutto a misurarsi con il senso del limite e quindi del sacro, che unito all’eros spinge il logocentrismo dell’io maschile a ricercare, nella complessità dei linguaggi che ci costituiscono, lampi di totalità adiacente sia nella relazione con l’altro dell’universo femminile11, sia nell’invenzione di ali fragili di canto e gioia capaci di donare “perfino l’estasi dell’esserci”12.

Note

1Nella Parte introduttiva del mio libro di saggi Ricerche e forme di Adiacenza (Asefi, Milano 2001), ricordo che il modello quantistico conferma “l’intuizione di Epicuro di 2.300 anni prima, sulla capacità di movimento spontaneo dei corpi (clinamen)”. Nell’uno e nell’altra i corpi non sono “soggetti passivi, subordinati all’azione di un motore esterno”, ma capaci di “impreviste variazioni dei loro movimenti, pur all’interno di interazioni che escludono sia la totale autonomia che la completa dipendenza”. “Già a livello microscopico appaiono paradossi che ricordano quelli dell’etica o della costruzione di un testo, della libertà del singolo in un aggregato sociale o delle leggi del piacere e del potere.” Cioè, nulla esiste o resiste, particella o entità socioculturale, “senza un contenitore o un limite; ma al tempo stesso il grado di energia spontanea del singolo è fondamentale per la determinazione…del campo di forza costituito…da miliardi di forzieri diversi; l’uno e gli altri sono aperti e chiusi al tempo stesso: aperti come capacità interattiva, chiusi quanto a autonomia.”;

2F. Leonetti, in “Campo – la ricerca in letteratura, arti, scienze”, N° 12, 1999, p. 286 – Suppl. al N°150 (ott.’98) de “L’immaginazione”; Leonetti fa riferimento alle ricerche “recenti della biologia e della neurofisiologia”; e si richiama a Francisco Varela, che (con Maturana) ha elaborato la teoria dell’Autopoiesi dell’identità soggettiva, fondata su più livelli via via più complessi: immunitario, psico-motorio e socio-linguistico. Ognuno di questi livelli si definisce solo nell’interazione con l’ambiente; e tra essi si attuano infinite combinazioni temporanee, reali e virtuali al tempo stesso, in rapporto all’intreccio di esperienze che il soggetto va elaborando”;

3L. Sasso, Porta, La Nuova Italia, Firenze 1980, p.3; è comunque fondante per la poesia e il pensiero di Porta la visione fenomenologica, in generale, e di Merleau-Ponty in particolare, come sottolinea J. Picchione in Introduzione a A. Porta (Editori Laterza, Bari 1995, p.17): “In Merleau-Ponty come in Porta, le verità non sono da scoprire nell’interiorità del soggetto…ma nella concretezza del mondo a partire dalla percezione”;

4A. Vaccaro, La casa sospesa, Joker Edizioni, Novi L. 2oo3;

5Si veda: Cultura e politica, da Antonio Porta al pensiero disperso, in “La Mosca di Milano”, n.19, dicembre 2008; Il pensiero che manca, in “Le Voci della Luna”, n.41, Luglio 2008; e Atti, II Fiera dell’Editoria di Poesia, Pozzolo Formigaro, giugno 2008, puntoacapo ed. ;

6 Si veda anche, in proposito, L’epoca delle passioni tristi, M. Benasayag e G. Schmit, Feltrinelli 2004, e Se il futuro da promessa diventa minaccia, A. Vaccaro, in “Il Segnale”, n. 74 e www.milanocosa.it;

7La coscienza in Porta dei sensi aperti dagli echi anagrammatici, e non solo in poesia, è mostrata da un suo intervento degli anni ’80, in cui parlando di una moto denominata Cosa, nota che quel nome è scelto dall’industria italiana in un momento di crisi determinata dall’aggressività dell’industria giapponese; e sottolinea che tale termine ricorre in genere davanti a difficoltà (impasse o crisi) del soggetto di dare risposte, nomi adeguati e, insomma, un qualche ordine al caos;

8L’opera completa di Porta è ora raccolta in Tutte le poesie (1956-1989), Garzanti, Milano 2009;

9A. Porta, Il grado zero della poesia, in “Il Marcatré, 2, gennaio 1964, pp.41-42).

10A. Porta, Correlativo oggettivo, in “Malebolge”, 1964, 2; anche in Gruppo ’63. Critica e teoria, a cura di R. Barilli e A. Guglielmi, Feltrinelli, Milano 1976, p.59;

11Cfr. G. Gramigna (Contrasto/identificazione, in “Autografo”, n. 17/1989; ora in “Testuale”, n.43-44-45, pp.170-176, http://www.testualecritica.it/Colophon43-44-45.htm), che su Il giardiniere contro il becchino, Mondadori 1989, ultimo libro di Porta, dice: “La poesia, malgrado certe opinioni, è una cosa molto concreta”, anche nelle sue tensioni al sacro, “zona che circonda…l’ombelico del non-dicibile”; tensione che genera, in Porta e “sia pure in una dimensione tutta laica”, catene anagrammatiche di significanti (quali miRACOlo / sACRO) “nella produzione del significato”; Gramigna rileva altresì moti di sensi e significati verso “il femminile, il materno”, che “connette alla fine, e identifica, l’atto della vita e l’atto scrittorio, natura e simbolo (‘il poema finisce in punta di lingua’)”; e ciò gli fa dire che il percorso di Porta è andato “oltre il principio paterno, dominante in tutto il periodo precedente”, principio che “s’informa prevalentemente al doppio ordine dell’astrazione e della metafora”, là dove “oggi nel principio materno” prevalgono “indistinzione, movimento continuo, visceralità, metonimia”, fluidità e ritmi più con-sonanti al canto di “un mare in cui non resta che buttarsi e nuotare, seguendo un’attenzione ‘rivolta a tutte le parti’”: “La montagna tagliata a metà/ scioglie il suo liquido femminile/ delira nella cascata, trionfa./ Il giardiniere ammira di lontano,/ ricrea l’immagine nel parco/ la ripete e alimenta/ mille specchi, laghi in miniatura”,(. Gramigna, un breve esempio di sguardo e relazioni gioiose (Spinoza) tra parte e totalità della vita;

12A lezione da Antonio Porta, in “Poesia”, n.7-8, 1988, p.9; anche in Il progetto infinito, a cura di G. Raboni, Ed.”Fondo Pier Paolo Pasolini”, Roma 1991, p.5.

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