CULTURA E POLITICA

Pubblicato il 22 dicembre 2008 su Temi e Riflessioni da Adam Vaccaro

CULTURA E POLITICA

Da Antonio Porta al pensiero disperso

Adam Vaccaro

(pubblicato su la Mosca di Milano e su http://poetrydream.splinder.com)

La relazione complessiva tra cultura e società suggerisce oggi un’immagine di separatezza, che fa  ricordare la “realtà parallela”, sbiadita e inincidente, distante e insieme chiusa nel diaframma dell’attualità, de L’uomo senza qualità di Musil. Intellettuali e artisti appaiono spesso una presenza-assente, simile a quella disgregata e emarginata dei Rom (termine che, ricordo, in origine vuol dire “Uomo”) dequalificati da giudizi sommari di cronaca (e di potere). Pensiero critico e anomalie sociali tendono a essere travolti in modi diversi dalle omologazioni del presente. Per questo la funzione sociale e antropologica della cultura è congiunta alla resistenza ad anomie, degradi e falsificazioni ideologiche della storia imposta. Funzione che comporta reinventare, nella lingua, sensi nuovi (o originari), anche attraverso la ‘analogia tra le cose le più lontane, nascoste e insondabili’ (Leopardi).

Se cultura vuol dire immaginare il nuovo in antitesi all’esistente, i linguaggi che lo strutturano non esistono senza visione di idee e pensiero critico rispetto a quello corrente. E diventano reali solo in forme e azioni condivise da almeno una parte del corpo sociale. Ciò implica porsi al di fuori di concezioni di scrittura o di arte come esercizio solitario e autocentrato. Coinvolge ricerca, passione, responsabilità sociale ed etica di condivisione. Le quali non garantiscono qualità, ma senza di esse è più facile oscillare tra banalità sentimentali e cerebralità chiuse, prive di eros e disinteressate all’altro. La possibile presenza e funzione sociale di una cultura alta e altra passa dal coinvolgimento della totalità di sé, sollecitata solo se incarna e condivide esperienze comuni.

Ho definito più volte “affollato e ininfluente” l’ambito che si occupa di letteratura e di poesia. C’è una crescita di proposte editoriali, riviste, cartacee e on-line, blog, che può apparire di fermento vivace. Se però lo sguardo va oltre lo specifico, se ne possono vedere i limiti di marginalità, chiusure e frammentazione. Favoriti da supponenze spesso ingiustificate, insopportabili e ridicole, di chi ne fa parte. Rivestite peraltro di un amore assoluto per la Poesia, che copre non di rado idolatrie di sé e un Io che si sente al centro del Mondo. “I poeti esibiscono spesso grandi sentimenti, ma essi – dice un verso di Milosz, grande poeta – hanno spesso un cuore freddo, anche se danno ad intendere il contrario, in primo luogo a se stessi.”, annota Claudio Magris in un recente articolo (Corriere, 21 ottobre 2007).

Non credo che oggi occorrano manifesti, grida o comizi, ma piuttosto confronti e scambi tra chi vuole misurarsi a fondo con i nodi duri del contesto, per continuare a immaginare un superamento e un’uscita dall’attualità, un’utopia che non sia fatta solo di speranze ingenue e illusorie. Ridare corpo a un pensiero del futuro è la ricostruzione di una polarità culturale necessaria, che è anche politica perché, dice ancora Magris (cit.): “L’eclissi del sole dell’avvenire sta comportando il tramonto del senso del futuro, della speranza del mondo.” (Si veda anche L’epoca delle passioni tristi, M. Benasayag e G. Schmit, Feltrinelli 2004).

E su “L’Unità”, del 18 febbraio 1989, Antonio Porta rifletteva sia sulla posizione “conservatrice” di Karl Kraus che su quella di Luciano Anceschi. Il primo temeva “la politicizzazione dell’arte”, pensando ai politici che riescono “a vincere sempre a spese di coloro che non partecipano al gioco”. Insomma, politica bassa da “Casta”. Porta, con Anceschi, parla di un’altra politica, di qui la domanda: “Vogliamo ricominciare a parlare della politica?…lo ritengo proprio indispensabile e indilazionabile…da parte degli scrittori”, perché “siamo a una svolta…che ci appare giorno dopo giorno decisiva: non possiamo più concepire la politica come un gioco ermetico…non possiamo più tollerare la separatezza ormai istituzionale dai problemi reali della società contemporanea…”. Una politica, dunque, che “smette di essere una tecnica di autoriproduzione e di esercizio del potere fine a se stesso, e va, finalmente, verso le cose, ha il coraggio di affrontare il reale. Questa può e deve essere la vera rivoluzione che parte dal nostro tempo.”

Sono ipotesi che possono apparire oggi, e ciò misura il degrado attuale, visionarie e ingenue. Eppure credo con Porta che l’alternativa sia tra la possibilità di una “’mutazione genetica’…di enorme portata culturale (e intendo il termine cultura nel suo significato più ampio, antropologico, di sistema di relazioni tra gli uomini)”, che non lasci (anche gli intellettuali) ne “l’illusione romantica della propria incontaminata salute mentale; e l’altra, di andare verso le cose…Senza paura di sporcarsi le mani, come si diceva una volta, perché tanto le mani non rimangono pulite in nessun modo.”

Antonio Porta credeva nella forza delle cose e si richiamava con Luciano Anceschi alla comune concezione di poesia, “come qualcosa che vive nel pieno sviluppo (sia, ndr) delle relazioni interne che la riguardano”, sia “delle relazioni con le altre attività umane”.

Dunque, una “letteratura in cui tutto rientra, dalla filosofia alla scienza, dalla morale alla politica, dal costume allo sport”. Gli intellettuali “non possono certo sentirsi chiamati al ruolo un po’ ridicolo di ‘angeli salvatori’”. Ma è anche indubbio che “la loro formazione sparsa somiglia sempre più a pattuglie disperse nel deserto e il momento dello smarrimento ha coinciso proprio con l’abbandono dell’impegno politico.”

“Il discorso dell’impolitico, un tempo caro agli intellettuali della fallimentare separatezza, mi pare che oggi funzioni solo da alibi: di fatto il discorso va rovesciato:…la posizione ‘impolitica’…fa riferimento a una ‘politica’ che non può più reggere neppure a se stessa.” “Si deve dunque parlare di un ‘nuovo impegno’, di un pensiero che torna a essere forte e non si rassegna ad amministrare la posizione di rendita dell’osservatore distante e rassegnato dello status quo? La mia risposta è decisamente positiva.”

Parole del febbraio 1989! Che risuonano oggi ancora più adeguate. Per chi ha ovviamente testa e sensi per ascoltarle, e avverte la necessità di trasformare in opportunità la crisi e il vuoto attuale. Sono pochi e poco connessi e non fanno massa critica, capace di produrre il senso di un corpo sociale che resiste con parole e azioni. Resistenza perciò con quale senso? Un senso che tenga conto dei due drammatici cambiamenti epocali, subentrati o acutizzatisi proprio dopo il cruciale 1989: la fiducia nella provvidenza senza fine delle risorse della Terra è ormai pura follia, e Destra e Sinistra sono diventate solo due diverse declinazioni del pensiero unico, dominante e invisibile come l’aria. Di fronte a tale insieme di problemi materiali e culturali dov’è la presenza, il cuore e la testa di chi si occupa (a parole) di cultura? Tende a rimanere invisibile perché è anch’essa in gran parte all’interno di tale pensiero.

È questo il vuoto di fondo che andrebbe colmato. Spesso molta anche autorevole poesia contemporanea rimuove tali problemi, che chiedono di porre al centro la vita, e non il proprio testo-icona. Certo, non ci sono formule né garanzie, tuttavia “identificarsi con la vita implica identificarsi con tutti i suoi aspetti e dunque non solo con la primavera in fiore ma anche con i terremoti e, per quel che riguarda gli uomini, non solo con i loro amori e i loro sogni, ma anche con il male che infliggono agli altri, le ingiustizie che commettono, le guerre che scatenano”, dice ancora Magris (cit.). Il quale ricorda, con Platone, la radice della separatezza dell’arte (soggetto sacer, posto fuori) nella cultura occidentale, il suo crinale di campo a parte che incrocia sacralità e complessità, “proprio perché deve prescindere da giudizi morali”. Il che può renderla “complice dell’ingiustizia e delle violenze che regnano nel mondo”, facendo dimenticare che “Gli scrittori e gli artisti non sono un clero laico…né capiscono la vita e la politica necessariamente meglio di altri”, o che “La responsabilità verso il mondo riguarda ogni persona…poco importa se da avvocato, scrittore o barbiere.”

Entro tale contesto socioculturale, il paradosso necessario è che per essere presenti occorre essere inattuali (nel senso già di Nietzsche). L’alternativa non è tanto quella di essere orgogliosamente inutili (fuori cioè dalle logiche di mercato), ma di essere irrilevanti, inesistenti. Si finisce per recitare una presenza che non esiste, supponente e autocentrata quanto più manca di condivisioni e corrispondenze. L’articolo ricordato di Antonio Porta trae linfa da un nucleo di nodi duri ancora intatti nel contesto attuale, che – rispetto al 1989 – presenta dati di un degrado culturale e politico, ulteriore ed estremo. Ma ciò esalta ancor più le ragioni per ricreare il senso di un nuovo impegno culturale, capace di reinventare sensi e parole, quali etica, impegno, funzione sociale e civile di chi si occupa di cultura.

One comment

  1. Rosemary ha detto:

    in L’Unità, 10 gennaio 1989

    Intervento
    Intellettuali, aiutate quei poveri politici «bocciati» in cultura

    Ieri Maria Laura Rodotà ci ha spiritosamente informati da Washington delle “lampadine”, simbolo di intelligenza e cultura, che il mensile americano “M”, che si rivolge “all’uomo civilizzato”, ha attribuito a uomini politici e personaggi di rilievo. Enorme il divario di valutazione tra la lampadina e mezzo attribuita al presidente del Consiglio De Mita e le tre lampadine e mezzo per Gianni Agnelli e le tre per Carlo De Benedetti.
    Anche sull’ultimo numero de “L’Espresso” ci sono le pagelle, riservate ai soli ministri del governo italiano e i voti sono stati assegnati in casa, da cento parlamentari. Pure in questo caso la superiore preparazione culturale ha avuto la meglio: otto a Giulio Andreotti, 7 meno a Giuliano Vassalli e 3 alla Bono Parrino, del Beni Culturali, e questo 3 suona come una beffa.
    Ecco, al di là del gioco, che è pur sempre una cosa seria, si può agevolmente rilevare un comune denominatore in questo imprevisto ritorno ai banchi di scuola riservato a chi si considerava arrivato, affermato: il fatto che la partita politica si gioca sempre di più sul piano culturale, in tutto il mondo. e le lampadine o i voti scolastici sono il sintomo significativo di un disagio diffuso e di una volontà di giudizio critico che a poco a poco ricomincia a farsi strada, proprio nel momento in cui tutti i giochi sembravano fatti e il potere conquistato definitivamente da moderati ancorché incolti pasticcioni.
    Ma così non è. Furio Colombo in un suo recente intervento ci ha spiegato, con la consueta chiarezza, che negli Usa, paese che noi consideriamo molto rozzo sul piano dei rapporti tra politica e cultura, qualcosa sta profondamente cambiando. I problemi sono stati tolti dalle mani dei vari Rambo perché si è capito che la complessità contemporanea va affrontata con una flessibilità e una disponibilità assolute, altrimenti si determina il temibilissimo «effetto boomerang” e il problema irrisolto scoppia tra le mani di chi credeva di essersene liberato con un gesto ottusamente decisionista.
    Molti, anche da noi, sono ormai convinti che il futuro della politica sarà sempre meno tecnico e sempre più culturale. Non è infatti neppure pensabile che i massimi imprenditori privati possono essere valutati come marcatamente più intelligenti di chi alla politica, cioè alla società nel suo insieme, dedica le proprie risorse umane e intellettuali. Che lo si voglia riconoscere o meno, la supremazia illimitata del privato equivarrebbe a un ritorno alla legge della foresta, nel brutale trionfo di un mercato senza più freni e indicazioni al di fuori della piatta logica del profitto fine a se stesso.
    Come è stato fatto notare, l’ideologia del mercato è la più forte che ci sia, la più rigida, brutale e disumana, anche se viene spacciata per assenza di ideologie. Dunque una società non può basarsi su di essa. Dunque l’importanza della politica deve crescere insieme all’importanza del mercato. Di conseguenza l’apporto della cultura di una nazione dovrà risultare sempre più essenziale per disegnare il progetto di una società nuova, che utilizza, per finalizzarle, le molteplici energie del nostro tempo.
    Si innesca qui, con chiarezza, la necessità di pensare un rapporto nuovo tra intellettuali e partiti politici, in quell’area soprattutto che possiamo e dobbiamo chiamare “di sinistra”. Se la partita è culturale e politica insieme, come si è detto, allora questo rapporto diventa ogni giorno più significativo e sempre più urgente cercare di mettere a fuoco obiettivi comuni e linee operative. Si dice, per esempio, che la stampa sarà il “campo di battaglia” per la politica dei prossimi anni. Ora è impensabile che tutta la stampa possa essere controllata. Anzi notiamo che si fanno più forti i segnali di un ritorno alla dignità intellettuale piena e all’impegno etico e civile. Basterebbe l’esempio di Norberto Bobbio, con il suo splendido discorso sul diritti dell’uomo pronunciato all’inaugurazione della nuova biblioteca della Camera dei deputati e ancor più con il suo forte e libero intervento sul caso Alfa-Lancia e Fiat proprio sul quotidiano torinese “La Stampa”.
    Se uno spazio per Intervenire c’è ancora, mi rifiuto di pensare che gli Intellettuali Italiani siano ridotti a livello di debolezza mentale del povero don Abbondio, che il coraggio sapeva dire che cos’è ma non se lo sapeva dare. Certo, lo spazio che si trova o si conquista non basta nella prospettiva che abbiamo indicato; su questo punto diventa essenziale il ruolo di tutta la sinistra e il nuovo corso del Pci diventa pure decisivo. Occorre pensare a strutture diverse, a rapporti continui per un libero confronto su problemi concreti. Sono molti, ne sono convinto, gli intellettuali pronti a impegnarsi per sbloccare una situazione politica, sociale e culturale asfittica e miope, ma gli strumenti per delineare e costruire questo futuro non sono stati ancora messi a punto. Antonio Porta

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