CAPITALISMO CATASTROFICO

Pubblicato il 5 settembre 2012 su Saggi Società da Adam Vaccaro

Da MONTHLY REVIEW – Dicembre 2011

Capitalismo catastrofico

Nella critica al capitalismo una delle tematiche che si è andata sviluppando con toni allarmati riguarda sempre più l’impatto sull’ambiente causato da quello che orgogliosamente è stato rivendicato come controllo dell’uomo sulla natura. La sua importanza diventa ineludibile in tempi di global heating e di sconvolgenti variazioni climatiche. “Il capitalismo e l’accumulazione delle catastrofi “è il titolo di un saggio di John Bellamy Forster, che comprende una disamina del tema fornendo un interessante excursus storico della percezione della catastrofe provocata dalla”vendetta della natura”che dal secolo XIX i filosofi e gli scienziati di indirizzo marxiano hanno avvertito.

Foster non esita ad affrontare senza mezzi termini la drammaticità del problema con dovizia di documenti di carattere scientifico elaborati da illustri climatologi che danno conto dell’estrema gravità della situazione in cui versa il pianeta e dell’ultima chance di salvezza che viene offerta ai suoi abitanti.

Interessante notare come gli esperti valutino la fragilità del pianeta in stretta relazione con l’atteggiamento predatorio nei confronti della natura, speculare a quello che l’attuale sistema tiene nei rapporti con gli esseri umani.

Il tema non è nuovo a chi si occupa di marxismo, a chi è convinto che quella di Marx sia prima di tutto un’indicazione di metodo nell’individuare le possibilità di sopravvivenza dell’intero pianeta, dell’umanità e di una vita non ridotta a merce, ma rispettosa della dignità di ciascuno.

Il punto di partenza di questo indirizzo critico è la legge della “conservazione della catastrofe “ elaborata dallo storico William McNeill [1] essendo la catastrofe il prezzo che l’umanità paga in termini sempre maggiori, quanto più cresce la sua capacità di alterare e tenere sotto controllo la natura. Una critica che coinvolge necessariamente la responsabilità dello sviluppo scientifico e tecnologico nella condizione di “ultima possibilità di salvezza del genere umano “ cui è giunto il pianeta. E che implica la loro azione devastante nei riguardi dell’ambiente.

McNeill analizza l’intervento umano come storia di una irresponsabile leggerezza nell’utilizzo di saperi e di strumenti, che non tiene conto delle catastrofi che ne deriveranno in un futuro ormai non molto lontano.

Già Engels in Dialettica della natura (1870) dice: “Diveniamo ogni giorno più consapevoli delle leggi di natura e delle conseguenze remote della nostra interferenza su di loro .” Ma proprio le “conseguenze remote “ sono del tutto indifferenti al metodo di produzione capitalistico, essendo l’immediatezza dei risultati uno degli obiettivi primari del medesimo. E al contempo, in modo paradossale, si distruggono le condizioni stesse che consentono la produzione. Engels adduce come esempio l’incendio delle foreste a Cuba al fine di ottenere ceneri fertilizzanti per le remunerative coltivazioni di caffè, a loro volta esposte senza protezione alcuna alla furia delle piogge tropicali che finirono per spazzare via lo strato superficiale del terreno riducendolo a una distesa di sassi. Ciò che avvenne con le stesse modalità in Medio Oriente, Egitto, Mesopotamia, Grecia e Asia Minore, un tempo ricoperti da fitte foreste, l’abbattimento delle quali eliminò le sorgenti d’acqua ed ogni altra fonte di umidità causando le attuali condizioni di abbandono.

Colpisce dunque la miopia di tali procedimenti, l’assoluta indifferenza per le susseguenti conseguenze per il futuro dell’umanità e dell’intero pianeta.

Naturalisti come Horace Bénédict de Saussure (1740-99), Alexander vob Humbolt (1769-1859), Charles Darwin (1809-82) e diversi altri hanno riflettuto sulla capacità di devastazione manifestata durante l’espansione coloniale europea in territori allora sconosciuti, come i tropici, o inaccessibili come isole inesplorate e perfino sulle catene alpine .

Lo svizzero de Saussure notava come il livello idrico dei laghi alpini si fosse ridotto dopo la deforestazione e il fotografo naturalista von Humbolt ebbe a osservare lo stesso fenomeno in un lago del Venezuela. Resta famosa la sua testimonianza: “Abbattendo gli alberi sui fianchi delle alture e dei monti l’uomo prepara allo stesso tempo due calamità per le generazioni future: necessità di carburante e scarsità d’acqua.”[2]

L’agronomo tedesco Fraas, osservando la desertificazione dei territori suddetti, notava: “Lo sviluppo culturale dell’uomo lascia dietro di sé il deserto”(1847).

Darwin e il suo contemporaneo Lyell si mostrano profondamente preoccupati dai cambiamenti climatici apportati dalla deforestazione nelle Barbados e in Giamaica. In particolare Lyell pone l’accento sugli effetti climatici del drenaggio di laghi e paludi. Lo stesso Darwin così descrive la deforestazione nell’isola di S.Elena dovuta all’introduzione delle capre fin dall’inizio dell’insediamento europeo nel 1502:

la maggior parte degli alberi esistenti… era ormai caduta, e i giovani alberi erano stati distrutti dalle capre che vagavano in libertà… La superficie boscosa forse all’inizio si estendeva per circa due mila acri ; attualmente non vi si trova più neppure un albero…il luogo è totalmente desertico…[3]

Marx ed Engels furono molto colpiti da queste testimonianze, cui applicarono il metodo storico che partiva dall’analisi del sistema capitalistico. In Dialettica della natura Engels metteva in risalto l’enorme sproporzione tra gli scopi iniziali e i risultati finali, la cui ragione stava nella società divisa in classi, dominata a sua volta da “effetti inattesi da parte di forze incontrollate”. Ancora una volta veniva messa in evidenza la irresponsabile leggerezza nella scelta dei mezzi scelti con l’unico scopo di raggiungere traguardi immediati.

Marx dedicò la sua analisi del disastro ecologico principalmente concentrandosi sulla “frattura del ciclo metabolico”, derivante dalla teoria di Liebig sullo sfruttamento estremo del suolo, dal quale l’agricoltura di tipo industriale estraeva fosforo, potassio e azoto per trasportarli in città, impoverendo tragicamente i terreni coltivabili, e causando una frattura nel ciclo metabolico che portava a un continuo bisogno di nutrimento artificiale del suolo.

Sorge spontaneo il ricordo dell’ottimismo delle “magnifiche sorti e progressive” di fine Ottocento e di quanto esso fosse lontano dalle sciagure che comportava il progresso di cui la borghesia andava fiera.

Marxisti, fabiani inglesi, il preraffaellita William Morris, e con orgoglio aggiungiamo anche Giacomo Leopardi, furono nettamente più lucidi sulla natura di quel progresso così come lo furono molti scienziati anglo-sassoni. E.Ray Lankester, membro della Royal Society, personalità di punta dei seguaci di Darwin insieme ad Huxley si batté contro l’offesa al pianeta da parte dello sfruttamento capitalista . Nell’articolo “The Effacement of Nature by Man “ scrisse:

Pochi hanno davvero idea di quanto l’uomo abbia stravolto la natura, le specie animali, le foreste e della desertificazione che ne è derivata, dei fiumi che ha inquinato…..apportando terribile danno a se stesso e agli altri esseri umani…e deliberatamente distruggendo intere aree dell’Asia centrale e del Nord Africa.[4]

Indicando lo spirito di rapina dell’economia capitalistica capace di rovinose distruzioni dell’ambiente, prima della Seconda guerra mondiale dallo scienziato materialista Tansley venne introdotto il concetto di “ecosistema”, in aperta polemica con la corrente ecologista di indirizzo idealista e razzista.. Si faceva così strada la necessità di un rapporto sostenibile con il pianeta e quindi della creazione di un sistema socioeconomico rispettoso degli aspetti più importanti della civiltà umana. Il che avrebbe comportato un cambiamento radicale dei metodi di produzione a favore di un sistema basato su di una pianificazione attenta alle conseguenze future.

L’eterogeneità dei fini e la necessità di una pianificazione ecologica razionale.

Con la crescente consapevolezza del ruolo distruttivo – fino ad essere catastrofico – nel rapporto del capitalismo con l’ambiente, gli scienziati di impostazione socialista e marxista si andavano vieppiù contrapponendo alla esaltazione dello sviluppo industriale come trionfo del dominio dell’uomo sulla natura. In realtà nulla era mai stato fatto per prevenire le catastrofi ambientali e, in definitiva, economiche.

Il materialismo dialettico di Marx ed Engels non poteva che porre l’accento sulla necessità di un cambiamento radicale di tipo rivoluzionario. Nel 1886 il filosofo e psicologo Wilhelm Wundt aveva chiamato“eterogeneità ( o eterogonia ) dei fini “ l’atteggiamento contraddittorio (vale a dire, gli effetti imprevisti se non negati sulla natura e sulla società, del genere “dopo di noi il diluvio”) tipico delle società dominate dall’egoismo [5].

E’ curioso come la critica di Wundt e la sua teoria dell’eterogeneità dei fini vengano oggi collegate con quella della “mano invisibile” secondo cui, come diceva Adam Smith, il capitalismo si autoregola e il perseguimento dell’avidità individuale porterebbe al bene dell’intera società. Da questa deriva l’assioma dell’”ordine spontaneo”, fondamentale nel moderno neo-liberismo, sulla cui base ciò che consegue ai comportamenti individuali non può che produrre equilibrio sociale, quasi per volontà divina.

Essendo evidenti i risultati dell’atteggiamento fin qui descritto da parte del capitalismo, dopo che essi sono stati negati, ci si è in alcuni casi abbandonati alla disperazione (l’atteggiamento più pericoloso per Foster) invocando non la fine del capitalismo, bensì un “capitalismo sostenibile” (Al Gore, Paul Hawken e altri), dando per scontato che l’attuale sistema è il migliore e più efficiente possibile e che si autorigenererà grazie alla “mano invisibile”.

Di fronte a una possibile razionalizzazione dell’intervento umano sulla natura, Engels osserva che essa risulta impraticabile nell’attuale sistema ed è quindi realizzabile solo rivoluzionando l’ordine socio-economico. Il che è ben evidente nei vani tentativi di ristabilire l’equilibrio ecologico con sistemi d’irrigazione nelle zone desertificate, con la protezione di specie animali in via d’estinzione, ricorrendo a fertilizzanti sul suolo impoverito. L’effetto si è dimostrato pessimo: le acque risultano infestate da alghe, seria minaccia per i pesci e per l’intera fauna acquatica. Come dice Naomi Klein nel suo Disaster Capitalism, in un regime nel quale l’inizio e la fine di ogni cosa è l’accumulazione capitalistica è impossibile concepire un rapporto sostenibile con l’ambiente.

Ribellione e capitalismo planetario

Il tempo presente è contraddistinto non più dalla “conservazione della catastrofe”, cioè dall’irresponsabile atteggiamento dell’uomo verso la natura, ma addirittura da un’intensificazione della medesima, ossia da una “accumulazione della catastrofe”: nel giro di due generazioni l’equilibrio biochimico dell’intero pianeta è stato del tutto stravolto e la resistenza ad ammettere la gravità di ciò rappresenta il principale problema.

La scienza ci dice chiaramente che stiamo superando i limiti, come dimostrano, ad esempio, le alterazioni climatiche, il riscaldamento globale il cui aumento produce un eccesso di vapori caldi e dunque precipitazioni violente, tempeste ed alluvioni.

Nel 1930 John Maynard Keynes, nel saggio “Le possibilità economiche dei nostri nipoti” affermava che la menzogna insita nella teoria della “mano invisibile”di Adam Smith avrebbe potuto essere sostenuta soltanto per altre due generazioni, dopo di che l’enorme ricchezza accumulata sarebbe servita a porre riparo ai danni compiuti e si sarebbe così potuto rivelare la mendacia della dottrina di Smith.

Poiché il capitalismo ha dimostrato di essere “accumulatore di catastrofi”, per Foster non resta altro che tendere al suo sovvertimento : quel tempo previsto da Keynes temiamo stia ormai per scadere.

Laura Cantelmo


[1] William H. McNeill, The Global Condition, Princeton University Press, Princeton 1992

[2] Alexander von Humboldt, Personal Narratives of Travels to the Equinotial Regions of America. During the Years 1799-1804, London 1852, p.9-10.

[3] Charles Darwin, Journal of Researches into the Geology of the Various Countries Visited During Voyage of the H.S.M. Beagle, New York 1906.

[4] E.Ray Lankester, Science From an Easy Chair, New York, 1913

[5] Wilhelm Wundt, Ethics, New York 1907

Vedi anche su www.overleft.it


4 comments

  1. Lelio ha detto:

    Nel 1716 Darwin non poteva descrivere la deforestazione. Non era ancora nato.
    Humbolt era un naturalista e non un fotografo.

  2. Laura Cantelmo ha detto:

    L’articolo di cui ho cercato di fornire una relazione è stato redatto dal Prof. John B. Foster, sociologo profondamente interessato dai problemi ecologici. e quindi inequivocabilmente esperto
    Certamente Foster non può aver scritto degli svarioni. Ricorrendo per brevità a qualche forma ellittica, diciamo, e dando per scontato che chi legge Monthly Review non è un illetterato, riferendosi a Darwin riporta le riflessioni del medesimo sugli effetti della deforestazione che erano sotto i suoi occhi nei viaggi da lui compiuti. Per quanto riguarda Humboldt, noto naturalista, penso Foster abbia voluto mettere in evidenza l’eccezionalità della sua documentazione fotografica, una vera rarità a quel tempo.

  3. Redazione ha detto:

    Caro Lelio, posso dire che la serietà, sia della fonte primaria che della redattrice dell’articolo, non potevano consentire errori grossolani come quelli da te segnalati.
    Rilevo, infatti, che poche righe sopra la sua citazione, Darwin, insieme a von Humboldt ed altri, sono qualificati come naturalisti, con relative date di nascita e morte. Credo insomma che il testo consenta di dedurre che, se Darwin stava ricordando uno degli infiniti esempi dello scempio insensato della natura da parte degli interessi privati, von Humboldt era un naturalista dotato anche di macchina fotografica. Devo però ringraziare la rilettura sollecitata dal tuo rilievo, perché mi ha consentito di rettificare due refusi, resistenti quanto i disastri dell’umana insensatezza.
    Adam

  4. sebastiano granieri ha detto:

    granieri
    Nei paralegomeni della batracomiomachia Leopardi ben descrive l’urgenza e la inutilita del “definire” la cornice e il contesto di cui alla comunicazione-contenuto.
    Ritenendomi esperto nella reingegnerizzazione dei processi (cognitivi) di conoscenza ritengo utile una distinzione: ignoranza (non acculturata) vs conoscenza.
    E: ignoranza fortemente acculturata vs metodologia del conoscere;
    Il sistema di difesa del (castello di conoscenze dell’ ignoranza) è tetragono al cambiamento verso il conoscere, grave quindi quando l’ignoranza è tale, più grave quando si vogliano usare “strumenti” migliorativi del conoscere, finalizzandoli ad uso (inconsapevolmente) peggiorativo.
    Per es. Se il boscaiolo taglia un ramo dall’ albero è del tutto “inquadrabile”, se taglia il ramo dell’ albero su cui si è seduti, allora risulta un salto… Inquadrabile solo in un altro sistema di riferimento. (…).

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