L’impronta del tempo

Pubblicato il 6 marzo 2011 su Saggi Poesia da Adam Vaccaro

L’impronta del tempo, Petr Halmay (*)

di Federico Federici

FULGORE

a Jiří Brabec

Fulgore giugnolino, catinelle, biciclette.

Un diamante di mosconi

in cortile tagliava lastre d’aria –

mio nonno con in mano l’orologio

e le lancette gattonavano da sé…

Farnetica in me

la ritrosia di quell’attimo.

Come se ticchettassi nelle sue bonarie mani,

di me stesso figlio e padre,

mentre dalla bocca della pompa

oltre il cancello tra le peonie continua a spruzzare una tiepida felicità.

Farnetica in me, ticchetta incessante,

come se fossi orecchio alla polvere del mio corpo

e in lontananza oltre il cancello

sbadiglia lo spazio come una belva.

La svalutazione dell’atto poetico, come atto volontario in grado di incidere nel mondo, è un tratto comune a buona parte della poesia, che ha radici nel rivolgimento culturale seguito alla caduta di antiche ideologie, in prossimità degli anni Ottanta e Novanta. Liberate dall’ambiguità della censura di principio, iniziano da Est a emergere voci nuove, consolidate da un percorso personale ben delineato, che avevano fatto propria quest’ansia già viva in Occidente, divise tra sconfinamenti dal forte sapore nostalgico per la figura novecentesca del poeta, e sarcastiche, autoritarie rivendicazioni proprio del valore della sua voce. Il nodo si stringe intorno alla reale possibilità di fare della parola non solo uno strumento di formazione estetica o morale condivisa, ma di autentica costruzione esistenziale. Cade l’idea del verso come modello/metro di riferimento, attraverso il quale misurare la realtà, e con ciò l’illusione che il linguaggio governi da una dimensione a sé il mondo, venendo meno la netta distinzione tra l’uno e l’altro.

Pur nei tratti del tutto riconoscibili di una biografia singolare, Petr Halmay, poeta e prosatore originario di Praga (1958), può essere collocato in questo contesto.

L’esperienza maturata nelle molte professioni (macchinista, magazziniere, uomo delle pulizie, insegnante, attrezzista falegname a teatro ecc.) affiora nei residui che popolano ambienti a lui quotidiani (quinte teatrali, magazzini, depositi), o comuni stanze, abitazioni spesso trasfigurate secondo la logica del teatro. Non si tratta mai di semplici riferimenti biografici, ma di citazioni in grado di attivare i meccanismi di un’efficace allegoria, che lentamente svela uomini, animali e cose sullo stesso piano, grottesche miniature di un teatrino meccanico o di un carillon. Lo sguardo è quello disincantato, talvolta affettuosamente metodico, di chi per abitudine monta e smonta a memoria le scenografie di uno spettacolo.

L’insistenza su questi temi (esemplari, in tal senso, testi come La fine del mondo o Fulgore) occorre nella costruzione di un doppio del mondo, in cui via via si diluisce il senso della realtà, sino a smarrirsi completamente. Il linguaggio non inventa parole nuove per tenere viva questa distinzione. Solo modulando gli aggettivi, o altre forme attributive, la si può ristabilire in «lampioni finti, bozzetti di parchi […]», o in un «cielo di cartapesta». L’aggettivo è spesso il punto di demarcazione tra oggettività e figura del verso. Di per sé i nomi (certi nomi) non avrebbero la forza di separare i mondi, ritraendosi, per natura, nel loro significato, estinguendolo nel suono, riparando in esso. L’elencazione allora li accomuna e l’io lirico percorre quei significati, andando tra gli estremi, come un pendolo completa la sua oscillazione. L’illusione marginale di un confine sussiste appena nello scambio forte tra i suoi termini, la vita e l’altro: «il piovasco applaude nella finestra aperta» o, ancor più elaborato intreccio, «come una battuta volgare / scorrono venature lungo le grandi finestre, / quando gocce grevi, gelide e scroscianti / si rovesciano sui muri del finto paradiso».

Questa tecnica assume spesso i tratti di un vaudeville grotesque, secondo gli schemi propri di una messinscena, quando «nei vitrei cespugli di ribes nero / pascolano mio nonno, una capra, i polli e mia zia», o quando «in mezzo al bosco rilucente / mia zia, un cervo, mio cugino più piccolo / leccano una grande zolla di sale». Altrove, il distico «stelle come schegge di ornamenti natalizi / lampeggiano lungo la soffitta nella scatola sull’armadio» raccoglie in una dicitura sola il mondo “vero” e quello costruito.

In La fine del mondo, l’insistente ripetizione, appena variata in alcuni capoversi, del tema di una vaga primavera già iniziata «fuori», «da qualche parte», «lontano», «tempo fa», riporta forse alla memoria altre primavere dell’infanzia, forse addirittura Praga e il ’68, riandando ai repentini cambiamenti, di cui Halmay fu in qualche modo testimone, come se l’io continuamente volesse espellere dallo spazio il tempo, confinare le cose in una propria identità immobile. Dal mondo circoscritto in una stanza o in una casa si guarda fuori, dentro il mondo, come pupazzi da una scatola, che assume i tratti dolorosi e vulnerabili di un corpo: questa la sua fisicità, declinata in acuti intrisi di una forza primitiva «come se sopra rivoltassero il coltello nella piaga».

L’idea unificante di una prospettiva che accomuni tempo e spazio, affiora in calcolata malinconia da immagini remote che «[…] scompaiono all’orizzonte in lontananza. / Immagini, sensazioni, la propria storia – tutto».

Proprio l’ostinata separazione tra un mondo e un altro, colloca sovente la vita in un al di là, appena tangibile se presentata coi caratteri di un al di qua che non ha tempo, quindi storia: «vorresti sentirti ancora oltre questa porta? / Vorresti essere terribilmente vivo?!» Il diaframma trasparente, ma più spesso permeabile, quasi sempre è un vetro, un cancello, un muro sottilissimo, una porta, qualcosa di frantumabile, che non riesce mai a dividere completamente l’uno e l’altro, sino alla più ostica tautologia dello specchio.

L’irruzione del mondo di fuori è il collasso del mondo di dentro. La fine si prepara in un climax di visioni: prima le similitudini, poi le cose, gli odori, la filodiffusione dal piano di sotto, sino al gancio che solleva lampadari e armadi, scoprendo sui tavoli gigantesche lettere di gesso: è la creazione dei cieli e della terra. La storia è scritta e gli alfabeti sono le sue ossa. In un fragore «la corrente spaccò la porta»: così finisce il mondo, in una prospettiva eliotiana ribaltata. È più che spalancarsi d’occhi, o la vista che ritorna al termine del sonno, è nascita/morte consumata in un atto unico e drammatico, o, come si legge in altro testo, il risveglio non calcolato, ma «che ben sappiamo: / l’ondata che ci ha rigettato su questa magnifica riva / ci ha liberato per sempre da ogni illusione…».

Neppure il corpo riesce a sottrarsi a questa incapacità di separare una parte e l’altra, racchiudere un’interiorità invisibile ed esclusiva, anche se di corpi si dovrebbe piuttosto parlare, di involucri nei quali tenta di racchiudersi un Universo altro, come nella «[…] ridicola esilità del torace del cielo». Né il tempo, né lo spazio sembrano circoscrivibili secondo una diversa topologia vivente e, come un inquietante presagio, o un insistente scherzo, «le sveglie ticchettano dietro la porta sopra gli armadi».

Lo schema di queste introspezioni da un luogo all’altro, per mobili o per fragili barriere, agisce ovunque. In La creazione del mondo, un corpo si rivela all’altro, in trasparenza: «guardai fisso attraverso il busto di mia moglie, / attraverso il tronco di vetro / e vidi il fegato, lo stomaco e il midollo – / un embrione… e un figlio…». L’elencazione delle parti nominate, segrete ad altri occhi, diviene il dono unico dell’amore tra gli amanti, che sono insieme «le due prime e ultime persone – / non nate… morte… in vita…».

Anche in questo caso, il tempo è espulso in una figura dalle sembianze umane, come se la morte fisica riuscisse appena a espellerne dal corpo il seme: «alla porta del cortile il tempo si spegneva come una persona». Cessata la misura dei minuti, delle settimane, dei secoli, il mattino, come ogni primavera, s’illumina in un altrove, nel limite non calcolabile del mondo. E per oltrepassarlo, Halmay ricorre a progressioni semantiche frequenti, ora avvicina, ora tenta di separare di nuovo i mondi, accumulando i tratti distintivi di quelle cose «che cercano di dire / tutto anche al posto nostro», escono poco dall’ombra, per condividere il destino di una realtà inaudita, al suono di un battente, che quasi non si scorge muoversi alla porta.

Gli occhi, la bocca, le orecchie sono stimmate di questa perforabilità dei mondi, buchi dai quali ci si scopre e sporge sull’abisso nero, attraverso i quali scola «un’irreale sostanza di vuoto», che tiene «separati in eterno dall’essenza delle cose […]» gli uomini e gli animali. In entrambi si agitano identici gli istinti, i sentimenti, ma l’essenza ultima è nascosta da una sostanza spessa, come una pelle che completi la finitudine del corpo.

In La creazione del mondo I, incombe una figura sconosciuta, se non per essere nella casa dei Novák. Governa una scacchiera dove tutto è spento, un mondo al buio, dal quale con metodo sottrae e ripone in ordine alle scatole le pedine cadute: gli uomini? gli eroi? Qui la creazione appare nel suo negativo, per sottrazione silenziosa, immagine di morte scrupolosa e metodica: ogni creazione chiede prima in sé la distruzione.

Il sangue è un altro tema ricorrente, a volte associato a orride visioni «[…] giorno dopo giorno trasuda dal soffitto / ci gocciola in testa», o «con la bocca piena, spaccata a sangue», medicate subito da slanci di smisurata bellezza: «una stella cadente adunava / animali, / alberi, elementi» come in un presepe, e rifacendo il verso alla figura di prima, torna il tema dei gesti meticolosi. In altri casi è un medium in grado di conferire sembianza umana alle cose «la diafana mammella della notte, sventrata dal coltello di una stella, sanguina luce tersa».

Isolate, appaiono figure in transito nel mondo, che sono i nati e i non nati. E questo transito è insieme la nascita e la morte in solitudine, su cui frequente è l’insistenza all’interno di uno stesso testo, come in Fulgore: «per un po’ brillammo / nel cortile insanguinato», che anticipa quel grido ripetuto mentre «[…] nel liquido amniotico della notte, / continuavamo a venire al mondo». Il pianto è quello fragoroso della nascita e quello basso, lamentoso della notte/morte. Altrove, in Non nato, questo effetto è reso in modo più sottile e arcano, nel figlio che «[…] nei vestiti quieti del nonno / piange già, scalcia dietro il muro sottilissimo». Tra corpo e mondo il tratto è quasi impercettibile, ma in ogni punto dello spazio sussiste già il destino regolato da uno stesso tempo. Chi nasce in realtà è già nato e morto attraverso il varco, che proprio la morte lasciò aperto e «prima di approdare su questo litorale / sembra sia trascorsa tutta la nostra vita», e la ragione non cura il dolore.

Lo stile, pure letto in filigrana in traduzione, mostra una ricerca tecnica e raffinata delle parole, con lo scopo di tessere una trama fine nel linguaggio, di filtrare, ove già non può completamente separare, alcuni elementi dell’esperienza: «[…] il lampo del biacco nell’erba», «quando nei lampioni si convelle la carne cruda del fulgore», o ancora «continuiamo a percorrere la vecchia via / e lei è ancora alla porta del bagno pubblico – / formidabile cromotipia, / che ci costò tutta la giovinezza». Gli scarti nelle immagini sono guizzi, punti stretti, che cuciono in un’unica visione lontanissimi contesti, mentre «macchie grandi, belle, scarlatte / ci fiammeggiano sulle ali / su campi d’orzo, di girasoli, di rape».

Il verso non è mai termine ultimo di raffronto col reale o misura variabile di esso. Diviene anzi fenomeno e dato oggettivo da indagare in una lingua che quasi non si scopre. È vibrante corda la voce, ma la parola cui aspira rimane lì qualcosa d’altro, pura, altrove.

Federico Federici

(*) Petr Halmay, L’impronta del tempo, ediz. del Foglio Clandestino, GAM – Rudiano, giugno 2007, trad. di A. Parente.

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