Su “Geometrie scalene” di Laura Cantelmo

Pubblicato il 24 ottobre 2016 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

LE ARMONIE A VENIRE

Su Geometrie scalene di L. Cantelmo

Roberto Caracci

Una geometria scalena è una armonia discorde in cui la bella forma, la compiutezza, la misura ideale  delle cose o di una vita, non sono dati una volta per tutte ma devono essere conquistate. La stessa vita, per Laura Cantelmo, sembra essere come la lenta e accidentata conquista di una misura, una peripezia attraverso i lati diseguali dell’esperienza, alla ricerca di una quadratura del cerchio difficile come il raggiungimento della saggezza e di quella maturità che già per Shakespeare era tutto. Dinanzi alla complessità sfaccettata, frantumata e disomogenea del vissuto, il poeta non può che tracciare linee di rappresentazione sghembe, sbilenche (archiviata a forza la lotta/è in rotta questa vita sghemba…), scatti di foto in corsa affidati allo spazio-tempo e alla fortuna, segni di confine improbabili e provvisori come nella mappatura di un campo esposto alle intemperie dell’aperto e della storia di coloro che vi passano sopra. Spesso, come suggerisce Adam Vaccaro nell’introduzione, il modello di reazione a questa pressione del vissuto non può essere che quello dell’urlo, ma di un urlo- diremmo noi- che lotta non solo contro le bruttezze e le violenze della realtà presente, del paesaggio e della storia, anche per ritrovare un suo ritmo, una sua cadenza, e diventare canto, epos, racconto.

Quello della Cantelmo, è poeticamente uno sguardo da falco– come suggerisce la poesia introduttiva- uno sguardo che dall’alto plana e tende a demistificare, a smascherare, a spogliare di ipocrisia una realtà piena di  ‘dita acuminate’ di usurai e di misfatti. Effettivamente, sembra dire l’autrice, la storia per la nostra generazione non è andata come sognavamo che andasse.  E il sogno del falco-poeta denuncia la triste necessità per un poeta moderno- come per qualsiasi intellettuale onesto nell’anima- di fare i conti con una realtà cruda e spietata, per nulla poetica.

E già il paesaggio metropolitano di una metropolitana sembra appartenere più a un mondo infernale di ombre, di anime morte e sepolte, che alla vita diurna. E’ il ‘bosco sotterraneo’ che sostituisce un cielo di cemento al cielo solare dell’aperto. Come acqueforti, la Cantelmo disegna a contorni netti, forti, incisivi e taglienti, i paesaggi aspri e fieri di una Milano dalla ‘bellezza difficile e feconda’, dove la luce vera sembra provenire dalle tracce di artisti come il Bramante o il Leonardo dell’Ultima Cena, o dai presagi die vacanze finesettimanali che la facevano uscire da quel viluppo di tram in fondo al Monte Rosa, fin da Corvetto: desiderio di bellezza e di luce, di evasione e di mare.

La valle ricca di profumi/erosa dal lezzo delle stalle/rideva aperta come la vita/ai miei pensieri con l’allegria/di un’utilitaria che l’attraversava… (La vacanza)

Dove già l’amore per il viaggio, la fuga, la voglia di primavere extraurbane, accendono la nostalgia della poetessa, e la sua mai domata solarità. E testimone di questo stare a fronte di una natura sempre verde e di una civiltà sempre più antica e cementificata, è la vecchia immarcescibile quercia di Porta Ticinese, che sembra sfidare eroicamente l’arco Napoleonico di Marengo, ma anche nutrirsi con le sue radici delle vittime di quella guerra. Fratello di quella eroica quercia sembra essere il tiglio accanto alla chiesa spezzato  ‘al rigore dell’inverno’, dalle dita protese all’innocenza della luna. Ed entrambi gli alberi, la quercia solitaria e il tiglio spezzato, sembrano avere ‘occhi’ e guardare questo mondo che cambia, non sempre al meglio. A questo paesaggio urbano grigio e talvolta rassegnato all’ombra, dove le luci vanno trovate nelle opere, negli alberi superstiti, negli occhi dei bambini, si aggiunge non a caso anche quello agghiacciante del carcere di San Vittore,  tra porte ferraglie chiavi voci/pianti, mani intrecciate, contorte,/ spiate da anime frustrate, lupi/ ringhiosi nascosti oltre le grate.

Se il ‘qui’ è la metropoli, con le sue ombre, i suoi geli e i suoi sogni di luce, l’Altrove è protagonista della seconda sezione, intitiolata significativamente ‘Mari altrove’ e divisa in tre parti: Orbite accese, Orbite occluse, e Migrazioni. Gli esotici paesaggi dipinti dala Cantelmo in Orbite accese trasudano, oltre che di un plastico cromatismo e di un versificare quasi nomade, ventoso, anche di storia, di mito, e di suggestioni letterarie.  Tamerlano ed Erodoto in Samarcanda, le spiagge dello sbarco più famoso del 900 in Deaville, Normandia, il Leviatano e Scilla e Cariddi in Balene, le Arpie e l’inferno di Dante in Strofadi notturne. Domina qui il mare, con i suoi tesori di selvaggia libertà, di arte, storia e bellezza, e poi i suoi tramonti, i suoi cieli notturni trapunti di stelle, i suoi profumi. E’ questo forse il luogo della ‘vita autentica’ che fa da titolo ad una poesia, i cui ultimi versi recitano: La vita autentica, scarna ed essenziale/ che conosce l’umano.

Il mare diventa invece mostro, dolore e tomba nella sottosezione intitolata Orbite occluse: è il mare-bara,  vasto e mortale, dei migranti. La poesia della Cantelmo qui acquisisce un piglio civile, già implicito nelle liriche precedenti, ma ora forte e graffiante. Si va dal dramma della guerra in Siria alle tragedie di Gaza e della Palestina, dalla guerra in Serbia alla strage di Capaci. Le immagini sono fluide e plastiche, ma anche selvagge e talvolta urlate. La rabbia contenuta del poeta fa tremare l’impalcatura dell’equilibrio della forma. Le geometrie delle parole sono sempre più scalene. Non manca un omaggio a Carlo Giuliani, morto durante gli scontri del G8 a Genova nel lontano eppure vicinissimo 2001.

Ancora più fermo e drammatico si fa l’impegno civile della poesia della Cantelmo nelle tre liriche della sottosezione Migrazioni, dove la tragedia dei migranti assume accenti epici e la pietas dischiude le porte alla amara condanna

Di tanta disperazione chiederemo/ragione al soccorso peloso/che dai loro covi offrono coloro/che hanno sconvolto in piena/ coscienza il volto del pianeta.

Note musicali e vaporose di nostalgia, o di disillusione storica,  risuonano invece nell’ultima sezione del libro ‘Anse d’amore’. Non a caso la poesia che apre la  sezione riguarda l’ultima eclisse di sole vissuta in Occidente. In Musica perduta è la vita stessa che ‘si disfa per assenza/ per carenza d’amore’. La musica, scrive l’autrice riferendosi a un destinatario preciso, non scandisce più il dolore. Le note volano alto ed evaporano come la vita. Forse l’armonia o un’idea di armonia è al tramonto. Si respira qui, attraverso i paesaggi stessi (come quello di Memoria d’Alta Langa’) un senso di disillusione che è anche storica, epocale.

Chiedevamo lumi alla storia/la bellezza del sogno trascinò vita/ il sestante…

La nostalgia è anche quella dell’amore, un improvviso cercare abbracciare/ombre di desiderio inappagato/che avvampa tra reliquie di bellezza/ nel tepore del corpo…

Ma si tratta soprattutto di quel desiderio che la natura fa sbocciare in primavera, quella voglia di risveglio con le gemme di felicità/ incastonate entro strappi di vita’/ in viluppi di more

Ma alla volatilità degli anni, occorre rispondere con la dignità e di Gramsci e Gobetti- aggiunge la poetessa in una lirica dedicata a Federico- utile per camminare eretti.

Il linguaggio poetico della Cantelmo resta pittorico e plastico, anche quando rivisita liricamente luoghi pieni di arte e di storia, di mito e leggenda, come Otranto.

Ciò che emerge nelle ultime poesie del libro è una sorta di leggerezza ventosa, di delicatezza vaporosa, anche se venate da note di ramificato dolore.

Nel calore di luglio si rincorrevano/

Fermandosi per dare fiato alle mote/estati, dicendo: è solo un gioco

L’inganno sottaciuto rovesciava/ le carte e il tavolino- il miele dei baci/ dissolveva gli stami nel giardino./ Nelle anse del sole il fiore cedeva/ la sua bellezza al pungiglione/con l’acuto dolore di una croce.

Leggera e insieme struggente è anche la gioia effimera dello splendore che si sfalda nell’incanto dei “Ciliegi a Tokio”

Poi, tra note di neo-classicismo mitologico, dalla figura di Leda a quella di Penelope, ecco tornare quel filo di dolore che accompagna, oltre che le elaborazioni dei lutti di amici cari, anche le felicità perdute.

Curvato sull’abisso parevi indifferente./Ti guardavo muta. Da tempo la parola taceva/

Il pensiero solo volava./ Raccolsi felicità perdute, per scaldarmi tenace alla loro luce.

Tutte le gamme, da quella corrosiva e demistificante della poesia etico-civile, a quella lirica e nostalgica dell’amore, percorrono il volumetto di Laura Cantelmo, le cui liriche hanno la plastica musicalità di foglie annotate come spartiti e abbandonate al vento, o al lettore, complice con  l’autrice dello stupore talvolta esacerbato talvolta fanciullesco per  le sghembe geometrie del vivere, tutte assetate di una armonia a venire.

Roberto Caracci

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