Scrittura e Letture

Per conoscere Dante Strona

Pubblicato il 25 aprile 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Per conoscere DANTE STRONA,

Poesie sulla Resistenza, Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia, Varallo 2023

Nota di lettura di Laura Cantelmo

Raccogliere testimonianze dirette sulla Guerra di Liberazione come materiale vivo, intriso di sangue, di morte, ma anche di tensione al cambiamento e di palpiti felici, può servire a ravvivare i cuori e a indicare alle nuove generazioni un cammino difficile, ma fondamentale a costruire la società futura, quello dell’Utopia, della passione che dà senso alla vita. Un cammino come quello di coloro, che, spesso giovanissimi, in quel momento storico dominato dalla tragedia, scelsero di opporsi alla dittatura, ai disvalori, a una propaganda malsana, ben consapevoli del rischio mortale che correvano. Abbiamo letto, in molti della nostra generazione, quando ancora la narrazione di quel passato era incompleta, le lettere dei condannati a morte, i racconti della deportazione, i romanzi ispirati alla Lotta di Liberazione -testi che ci lasciavano ammirati ed allibiti per la forza d’animo e la determinazione di chi, conoscendo da vicino la tortura e la morte, sfidava la paura e il dolore con l’orgoglio di chi sa trovare una luce, pur nel buio profondo della tragedia.

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Non mi arrendo -Anna Maria Curci

Pubblicato il 21 aprile 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Non mi arrendo
Sulle due ultime raccolte di poesia di Anna Maria Curci

Luigi Cannillo

Potenza dei prefissi: avevo ricevuto e ho letto una dopo l’altra le due ultime raccolte di Anna Maria Curci, Opera incerta, L’arcolaio, 2020, e Insorte, Il convivio, 2022. Ho trovato subito suggestivo, per quanto magari “involontario”, il legame tra i due “in” presenti in entrambi i titoli: incerta – insorta. Nel primo caso a esprimere negazione, valore contrario; nel secondo piuttosto in senso rafforzativo. (Tra l’altro una “in” appariva già nel titolo della prima pubblicazione dell’autrice Inciampi e marcapiano…) Nelle due raccolte, ferme restando le caratteristiche che le contraddistinguono singolarmente, si possono trovare via via, considerando anche la variazione “im”, diverse altre forme di negazione, da “insonnia” a “impunite”, da “inattuale” a “imperdonabile”. Come per una inclinazione verso il no, un atteggiamento critico e dissidente nei confronti di ogni forma di imposizione, in una distanza critica che trova espressione nei versi. Come nel “Non mi arrendo” che conclude la poesia Vorrei restituirti: “Vorrei restituirti/ i giorni del marsupio/ di pettini a denti stretti/ di box e seggioloni/ lanciapappa,/ Fassbinder e von Trotta/ nella lingua dei sogni,/ i nostri, che hai dismesso.// Restituire è rendere?/ Restituzione è resa?// Non mi arrendo.”
Un filo conduttore tra le opere di Anna Maria Curci è stato tratteggiato da Giuseppe Martella in un suo intervento sul blog di Poetarum Silva individuando nelle più recenti opere dell’autrice “[…] una trilogia che verte sul tema di fondo della paideia (educazione, formazione, illuminazione) di una comunità che si identifica e cresce attraverso la traduzione reciproca di lingue e dialetti di luoghi diversi. Questa era infatti la funzione originaria della poesia, nelle rapsodie preomeriche, cui era affidata la trasmissione di una koinè e di un ethos in regime di comunicazione orale.” E infatti nel processo di formazione e di educazione personale sono fondamentali sia il desiderio di conoscenza che la formazione di una coscienza critica. Entrambi questi elementi sono eticamente fondanti della poesia di Anna Maria Curci, così come le forme di dissidenza alle quali ho inizialmente alluso.
Certo le due raccolte che sono oggetto di questa nota hanno anche caratteristiche proprie. Opera incerta riunisce testi scritti dal 2008 al 2019 suddivisi in quattro sezioni. Il titolo deriva da Vitruvio che definendo Opus incertum si riferisce al riunire e connettere elementi disuguali. Come afferma l’autrice nella sua nota iniziale, si tratta di “mettere insieme le diversità in vista di un’opera comune […] Sull’oggi brutale e dimentico si affaccia l’aggettivo “incerto” con l’interrogazione permanente posta dalla poesia”.
Il motivo conduttore tematico delle sezioni parte dalla forte impronta metaforico/allegorica di “Barcaiola”, poi si sviluppa nei riferimenti ai maestri nella sezione eponima e nella successiva “Mnemosyne “ nella quale la rievocazione si allarga alle figure famigliari fino alla ricomposizione finale nelle diverse tonalità di “Di tanto azzurro”. Fondante nella stesura e nella scrittura è una modalità che si può definire di attraversamento, come sottolinea Francesca Del Moro nella postfazione – e il concetto viene ripreso da Giuseppe Manitta nella nota di presentazione a Insorte. Si può trattare di un processo conoscitivo: “Siedi sull’altra riva e getti l’amo,/ Io traghetto.// Nella scalmiera remo/ bisbiglia con cadenza.// Lei, la tua mobile sostanza, smesse// le vesti torbide, mi accoglie.// Quando riprende il volo la speranza,/ cocciutamente sai che non è fuga.” Oppure di un percorso della memoria: “Additando quell’albero, sospeso,/ ti sei rassicurato del suo nome.// Di contrabbando, dietro a un fast food,/scorza e foglie incuranti del fritto/ schiudevano sornione il ricordo in agguato,// l’eucalipto piantato da mio padre/ per tutto il condominio. Fu una festa/ con il mare nel naso// e noi bambini, fieri.” Nella consapevolezza della propria presenza nella contemporaneità, della propria irriducibilità: “Non so se sono ancora la bambina che facevi volare nel mattino/ nitido e freddo al sole di dicembre.// La casa, poi il mio asilo e la tua scuola/ dove da trafelata ti mutavi,/ lingua madre diventava il francese.// So che di tanto azzurro mi rimane/ un fiocco, il cielo in testa e l’occhio desto,/ pegno d’incanto, balzo, testimone.”
Insorte non smentisce la fermezza e l’impegno della raccolta che la precede, anzi: i meccanismi anche formali diventano più serrati, gli enunciati più perentori. E ancora più significativo sembra diventare lo spazio lasciato alla riflessione e alla interpretazione di chi legge. Lo stesso titolo ha valore polisemico: oltre che come participio passato di “insorgere” (verbo comunque compatibile con lo spirito dell’autrice) se viene scomposto in due parole può sottolineare un riferimento destinale, un compito alto e nobile per la poesia.
Anche in questo libro troviamo una forte coscienza della storia contemporanea con le sue tragedie e ingiustizie ma sembra accentuarsi l’attrito delle contrapposizioni e dei conflitti. Non mancano gli slanci lirici, i riferimenti alla mitologia e alla classicità o al mondo naturale: “nell’angolo del verde che concerta/ ulivo cycas susino su trapunta/ di pratoline e veroniche discrete// proseguono le prove silenziose/ di un tripudio che tarda a venire/ sinfonia di un incanto distante// ha due temi e più note in contrasto/ senza termine e data è l’orrore/ senza termine e data è l’amore”.
Si tratta di riprendere “il filo e la parola” come nella poesia d’esordio della raccolta. Seguendo l’invito agostiniano alla lettura che dà il titolo all’ultima sezione: Tolle, lege: “Dietro i vetri i tuoi libri/ custodiscono pagine da aprire/ in tutti i tempi, dicono tolle, lege!// Dato per perso, è pur tenace il filo/ rincorso a capitomboli sventati./ Prende fiato e dal margine addita.” È Il filo della consapevolezza, che si diparte da una lunga tradizione, e alla fine della raccolta si ricongiunge con quello della prima poesia. Quel filo da un lato afferma la dignità del lavoro poetico, “la tela della poesia”, ma, più in generale, consente alla vita di farsi largo, nonostante tutto, a riaffermare una forma di speranza e di impegno.
Anche in questo auspicio, oltre che nel puntiglio e nelle manifestazioni di insubordinazione, sta il percorso comune delle due raccolte. Così in Opera incerta troviamo: “Così va l’azzurro oggi/ non cerco altre parole/ Si affacciano discrete/ se offrono riparo.// Sui sentieri interrotti/ non portano salvezza/ rabberciare non sanno./ Duetta l’ombra con la luce.” Oppure: “Posa la mano sul ghigno amaro/ la ruga appiana di constatazione./ Prenditi sottobraccio il riso/ saluta i sassi e cammina nel sole. E in Insorte: “Contro le spalle/ rimbalza la borraccia/ ritmo di passo.// Bussa la sete/ compagna di viandanza/ sperando ancora.” Passaggio quindi percorso, nella sete di conoscenza, di giustizia. Sete di parola.
Infine, ma non meno importante spicca l’omogeneità delle scelte stilistiche, come si diceva ribadite nella raccolta più recente: l’ordine nella disposizione del testo e la versificazione asciutta, con poesie scandite in sobri distici, terzine e quartine nelle quali i versi, da quinari a settenari, tendenzialmente non superano endecasillabi. Con il contrappunto delle rime, e assonanze, allitterazioni, neologismi, fino a gruppi nominali senza articolo. In un tono che sa arrivare a suggestioni liriche senza scivolare nella deriva del sentimentalismo.
Il rigore metrico-ritmico e lessicale non vuole essere formalismo o manierismo, ma rappresenta una scelta di stile tanto più perseguita quanto rigorosamente si presentano anche le varie tematiche. Le risposte cercate rispetto a quella “interrogazione permanente” devono essere sostanziali, sollecitate dalla stessa formazione etica e culturale di chi scrive. E, nel caso di Anna Maria Curci, anche dall’esperienza di insegnante, traduttrice, organizzatrice culturale e nella sua attività critica, in una paideia a vasto raggio che si sviluppa coerentemente, in attraversamento costante, anche nelle sue raccolte poetiche. : “[…]// C’è un tempo di usci chiusi,/ uno di porte aperte./ A metà strada indosso/ bizzarro giustacuore.”

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Eden – Sergio Gallo

Pubblicato il 16 aprile 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Il dovere e il coraggio dell’utopia resistente
Adam Vaccaro

Sergio Gallo, Eden – Memorie di un cittadino sospeso, Ed. Sensibili alle foglie, 2022

Titolo e sottotitolo di questo libro di Sergio Gallo sono già linee di sensi cercati e svolte poi dalle trame del testo, analizzate e rese con profondità nella Prefazione di Paolo Gera: Natura resistente, umanità sospesa, l’Eden violato di Sergio Gallo. L’apporto offerto da Gera non rientra nei consueti stilemi di servizio editoriale, mosso com’è da un intreccio dichiarato di affettuosa e scrupolosa analisi tra lingua e visione, per cui diventa porta d’accesso preziosa per la lettura dei vari livelli di sensi e complessità del testo.
Gera ricorda in primo luogo che il libro nasce nella temperie drammatica dei due anni di Covid, “due anni pestilenziali”, non tanto e non solo per l’azione virale e le morti causate, ma per la gestione strumentale dei poteri mondiali dominanti, che ne hanno fatto occasione di un virus sociale utile a moltiplicazione di controlli autoritari, travestiti da protezione sanitaria, attraverso un bombardamento dei mass-media, mai prima messo in atto con altre epidemie, teso a moltiplicare paure, razionali e irrazionali, e quindi soggezione…
Due anni, sottolinea Gera, che hanno “trasformato i rapporti fra le persone, hanno eretto barriere inconcepibili e distanziamenti psicologici”, accentuato le disgregazioni sociali degli ultimi decenni di dominio ideologico del pensiero unico neoliberista, reso i cittadini più passivi, riducendo pertanto la sostanza di una democrazia sempre più ridotta a rito formale. Di qui l’importanza del suo rilievo: “Questo De Rerum Natura di Sergio Gallo non si conclude con la descrizione dell’epidemia mortale, come nell’originale lucreziano… L’indicazione data dal percorso dei versi” è “all’interno di ogni forma biologica”, capace di incarnare l’utopia resistente dell’Eden di un’umanità liberata, fondata non in un fideismo ottimistico, ingenuo o volontaristico, ma nelle dinamiche della fenomenologia vitale.

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Ricerche poetiche – Paolo Gera

Pubblicato il 2 aprile 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Nascita e cura della parola poetica
Ricerca delle articolazioni e dei suoi sensi biologici e sociali

Adam Vaccaro

Paolo Gera, Ricerche poetiche, puntoacapo Ed, 2021

“m m/ m m m/ ma ma/ ma ma ma ma ma/ smarrita// p p/ p p p p/ pa pa/ pa pa pa pa/ paura// t t/ t t t t/ te te/ te te te te/ terra// l l/ l l l l / la la la la la/ luce” (p.7). Pelurie verbali e balbettii, cui seguono alla pagina successiva: “sora paura/ si’ oscura/ allumini esta selva/ morte luce/ via terra/ vita porta significatione/ mi ritrovai sole”

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Reperti metropolitani – Mario M. Gabriele

Pubblicato il 27 marzo 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Moti d’Essere tra Tempo e Nulla
Entro gli orizzonti distopici contemporanei
Adam Vaccaro

Mario M. Gabriele, Reperti metropolitani, Gabdesign 2024

Continua, anche con questo libro, la personale circumnavigazione dell’orizzonte contemporaneo di Mario M. Gabriele, nell’arduo tentativo di cucire “echi più tesi a sommità che somma”, con un ossimorico “canzoniere-oratorio entro l’orizzonte distopico della totalità tempo-spaziale in cui stiamo vivendo”. Che fare e dire in tale contesto? Fu la mia domanda, posta nella recensione del precedente Red Carpet (Ed. Progetto Cultura, 2023, vedi a https://www.milanocosa.it/senza-categoria/red-carpet-di-mario-m-gabriele ). Domanda che Gabriele articola con vigore anche in questo libro nella sua Nota all’inizio e in IV di copertina: ”In questo stato di cose e di follia del potere, dove collochiamo la poesia?”
È una domanda cruciale, cui l’Autore – peraltro mio corregionale di Campobasso – risponde con questa ulteriore tessitura di poesia di una voce di lungo corso, che ha sviluppato una ricerca espressiva anomala rispetto a tante modalità attuali prevalenti, e forse anche per questo rimasta appartata, benché sia stata oggetto di attenzioni di rilievo.
Tra i suoi fondanti nuclei di senso c’è il Tempo, nomos posto con acuta intuizione talla base di una ricerca di pensiero critico rispetto ai degradi in atto, nella lucida coscienza che ogni identità collettiva è definita in primo luogo dalla percezione del tempo (basti pensare alle società più antiche anche oltre quelle greco-romane, a quella medioevale, alla società contadina e a quella industriale), radicalmente diversa entro i caratteri costitutivi, economici, sociali e culturali di ogni forma di Civiltà. La quale crea un sistema di valori che si affermano sempre come orizzonte migliore e non superabile, nel tempo presente e nel futuro.
È una affermazione ideologica che caratterizza anche l’assetto del capitalismo globalizzato in cui viviamo. Assetto di contraddizioni in termini, dati i suoi fondanti furiosi e incessanti cambiamenti, entro cui Gabriele articola versi, irsuti e privi di lucori glassati, a tratti con ritmi raptici. Forme con cui l’Autore traduce in primo luogo l’espropriazione del tempo vissuto dai soggetti singoli e collettivi nella dinamica di un tempo che non concede soste, H 24, come amano ripetere con orgoglio i suoi adepti più sussunti nella sua logica.
È una dinamica che sfocia in una ”hybris che, mentre rovescia in ottimismo idiota l’ironico avviso leopardiano di Magnifiche sorti e progressive, ci degrada in una crescente e inesorabile disgregazione.”, aggiungevo nella succitata recensione. Nella quale richiamavo anche qualche risposta data da Gabriele a Fausto Curi in una intervista del 2021, “Il Gruppo 63 e il manto di stelle sulla letteratura”. Alla domanda, “Cosa pensa del nuovo?, la sua risposta fu: “incrina le fondamenta di quello che gli preesiste…abolisce lo stanco presente e rende presente il futuro”. ”E la tradizione?”, cui rispondeva: “Esistiamo perché esiste la tradizione.: è la nostra madre. Il nuovo non può cancellarla. Deve solo integrarla e mutarla.”

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Futili arpeggi – Antonio Spagnuolo

Pubblicato il 26 marzo 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Arpeggi di resistenza vitale

Adam Vaccaro

Antonio Spagnuolo, Futili arpeggi, La Valle del Tempo, Napoli 2024
Vedi anche in
https://antonio-spagnuolo-poetry.blogspot.com/2024/03/segnalazione-volumi-antonio-spagnuolo_22.html

A ridosso del precedente, Riflessi e velature (stesso Editore, 2023, vedi una mia nota di lettura a http://antonio-spagnuolo-poetry.blogspot.com/2023/09/segnalazione-volumi-antonio-spagnuolo_17.html), anche questi Futili arpeggi proseguono l’incessante “instancabile e inconfondibile…parola disegno e musica della propria esperienza”, anima di uno stile, che incarna per me una non frequente autenticità e adiacenza tra Soggetto Storicoreale e Soggetto Scrivente.
Antonio Spagnuolo è tra gli autori di poesia contemporanea che non tradisce mai questo mandato etico ed estetico, di cui ho seguito con affetto e stima il lungo percorso attraverso i decenni della nostra conoscenza letteraria e personale. Anche in questa nuova tessitura testuale ritrovo quel “nucleo epifanico e filo rosso”, fedele al battito del suo cuore di novantenne fanciullo, capace di inventare ali con cui sfidare la forza di gravità e l’impietoso giogo imposti dalla natura, dalle tragedie e dai limiti umani.
Il titolo di questa raccolta è un ossimoro incistato nella coscienza di tali polarità, benché accettate con sapienza di umiltà socratica: sappiamo i nostri limiti, non ci raccontiamo illusioni di superamento, ma la vita è tale se moriremo da vivi, senza trascinarci tra maschere e finzioni che sfregiano la sua sacralità con ombre più consone alla sua fine che alla sua gloria.
I versi di Antonio, continuano a farsi sentinelle e artigli, anche se ricoperti di morbide carezze, necessari all’Autore per il suo canto vitale, che sorridendo insegna continuando a danzare sul crinale segreto della nascita e del moto delle vele della poesia, con gli arpeggi della sua “straordinaria freschezza e giovinezza emotiva” (vedi mia nota citata):
“Ho appreso il canto argentato della sera/ con la semplice follia delle mie nostalgie” (p11)
Sono i primi versi, una sorta di la che intona il loro arco teso.
Ma non è un arco che si appaga e aliena nelle onde illusorie di una pace cullata dal sospiro del tramonto. Sono feroci gli orizzonti di guerra disegnati dal presente, per cui, “Piena di fiamme la fusione scandita/ di madreperle, come l’inquietudine/ che il crollo ha segnato tra le mura,/ Chiedo sgomento per chi suona/ la sirena del flusso di odio / tra le caviglie fasciate dal gelo/ e sguardi allucinati di bambini.” (p.15)
Non è dunque un suono appagato di sé:
“Onda e vento balzerebbero contro/ nella rete tremolante delle note,/ a vaneggiare il messaggio che turba/ ogni delirio.” (p 19)
Il “Suono incrinato dalla sfrenata illusione/ che riecheggia tra le mie memorie” (p20), “come crudele artiglio che nella luce/…impasta sangue” (p.21), “Eppure era soltanto l’altro ieri/ che festeggiammo cinquanta anniversari”, mentre “incido vertebre invecchiate” (p.24).
C’è un entresci tra personale e orizzonte oscuro dell’attuale presente, in cui il primo si colora e scolora. Ma “Fare poesia è attingere chimere,/ ipotesi di azzardo e di speranze/ con ritmo serrato oltre il silenzio.” (p. 25).
Per cui non si smette di andare a caccia di svolte, aperture e riprese di vita: “Da un semplice azzurro rinascerà/ la timida speranza del prodigio” (p.51).
Memoria e corpo sono le fonti di conscio e inconscio che dettano parole: “Mordono la schiena le parole/ che sembrano lampeggi d’infinito/ fredde ad un senso di abbandono/ nel perfido congegno delle stelle.“ (p.76). L’Io è lucido e ridotto, ma trama vigile e necessaria alla complessità di sensi del testo poetico. Per cui, seppure “È giunto il tempo di chiudere i conteggi/ e affido il mio bagaglio di poeta/ all’illusione dell’eternità.”, e “Le virgole, i puntini e sospensioni/ che bloccavano spesso il mio sussurro/ pungono a piena pioggia nei ricordi,” (p.79), non facciamola diventare metafora di arreso salice piangente.
È questa la sollecitazione inscritta nell’ultimo testo della raccolta: “Se nella craniosezione del cerchio/ trovi un Pgreco affumicato alla brace/ stai pur certo che le tue illusioni/ avranno risultati eccezionali.” (p.81): uno squillo di splendida resistenza vitale.
Come scrissi a commento del libro precedente, il tempo accumulato non è vissuto da Antonio Spagnuolo come un ammasso privo di senso, sta solo a noi e alla nostra responsabilità farne fonte che continua a produrre suoni, a volte urla, di inni che riaffermano sensi proiettati a un Oltre e Altra Vita.
21 marzo 2024

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Rumore di fondo – Leila Falà

Pubblicato il 20 marzo 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Leila Falà Magnini, Rumore di fondo, puntoacapo, Pasturana (AL) 2023
Nota di lettura di Laura Cantelmo

Cos’è il rumore di fondo, se non un trambusto indistinto, un’interferenza nel nostro silenzio interiore, che vorremmo eliminare per cogliere i messaggi che ci vengono indirizzati e che ci sfuggono? In questa sua recente raccolta, Rumore di fondo, Leila Falà di quel rumore avverte il fastidio, ma allo stesso tempo lo ascolta, cercando di individuarne qualche suono positivo. Ed il rumore di fondo si può sentire solo se intorno vi è solitudine e silenzio. Un silenzio agognato, pur trovandosi in compagnia, perché la socialità, che dovrebbe farci sentire meno soli, in alcune circostanze è più fastidiosa del silenzio stesso e diventa percezione di un’assenza. A quel punto, benché in contraddizione con sé stessi, si desidera stare soli. (“Raddoppia”)
Attraversa questa raccolta, di ispirazione profondamente umana e al contempo filosofica, l’intento di rappresentare una realtà straniante vissuta come gravosa e allo stesso tempo di alleggerirne il peso con uno spirito giocoso, che sa acutamente parlare di seri problemi del linguaggio, inteso come specchio della civiltà attuale. Traspare dai versi una percezione di solitudine e di sconcerto che a sua volta si fa rumore di fondo, quasi eco di una moltitudine di cui l’Autrice si sente parte, ma con la quale la relazione non è facile. Tanto che la tendenza al divertito uso delle parole, al suo prendersi gioco di certe posture intellettuali che coinvolgono ormai tutti, non funge da antidoto, ma suona come cambio di registro di fronte ai temi di profonda natura che vengono trattati.
Partendo dall’analisi della comunicazione sulla base della linguistica saussuriana, l’Autrice fa del messaggio, inteso come lettura dei diversi segni della comunicazione, lo strumento per analizzare sé stessa e il proprio modo di porsi rispetto ad esso, nella consapevolezza che la parola e le altre modalità comunicative sono messe in discussione allorché ci si rende conto che, invece di favorire lo scambio, esse provocano l’isolamento.
Non a caso, nell’epoca dominata dalla comunicazione, che dovrebbe prevedere l’interazione delle idee e delle esperienze tramite strumenti che vengono definiti social, si assiste al risultato opposto, all’affacciarsi sul vuoto. Quel vuoto che, mutuando la definizione data dalla fisica, con una metafora chiameremo pneumatico, entro cui c’è il nulla assoluto.
Nell’intera raccolta la composizione dei singoli testi ruota intorno a termini semanticamente affini – vuoto, solitudine, silenzio. Sotto la forma di un diario personale con l’abile utilizzo delle parole, per il quale l’Autrice trova spunto nella sua attività di attrice, oltre che di poeta, si avverte lo smarrimento di essere coinvolta nel meccanismo della modernità, del consumismo, dell’alienazione, oltre che della techne. Diabolicamente trascinati in una connessione che paradossalmente nega il proprio ruolo – cum /nectere – ci ritroviamo nell’isolamento. A tal punto che la parola, termine derivante dal latino medievale – parabula – si svuota della propria originale ricchezza polisemica per mutarsi in elemento stereotipato, quindi sterile.
Per l’Autrice accade il contrario quando scrive poesia, dove la parola è strumento da “trascinare di qua e di là/ per un significato così al di là/…/ lei esisteva già/ a prescindere. / Mio, quindi.” (Sintetica lezione di metapoetica intorno allo scrivere versi, quello che tecnicamente si chiama “slittamento semantico” mediante cui il poeta attinge alla lingua comune e al proprio inconscio, individuando e connotando la sua personale parola.) (“Certo”).
La poesia, pur consentendo discorsi profondi sul rapporto tra arte e realtà, può dunque divenire anche campo da gioco. Con un provocatorio guizzo surrealista ispirato al famoso quadro di Magritte, Falà si lancia in una divertente parodia: “Questa non è una poesia./ Non ne possiede il ritmo/ l’afflato di immenso/…/ non è che fumo di finzione/ eppure non è del tutto un gioco/ …/ E non è/ neanche una pipa.” (“Non una poesia”): un piccolo gioiello di umoristica riflessione sull’arte, questo colto richiamo sottolinea la propensione dell’Autrice ad alleggerire una discussione teorica con il ricorso all’ironia. Contrapposto a quel testo, un altro sembra affermare il contrario: “Questa invece è una poesia “ed è, in fondo, l’espressione di un dubbio che nella sostanza non si discosta molto dal testo precedente.
Può anche capitare che la lingua poetica si coaguli in una girandola di lemmi tratti dal linguaggio comune – la langue saussuriana – trasformandosi in una sequenza di calembours: “L’oca langue/ langue d’oc/ lingua d’oca/ batte qua e qua/ sguazza e gioca//…/ Lingua di piuma/ che O-de Saussur-ra/ e si fa fioca/” (“Langue”). Per ritornare poi nei ranghi del racconto di sé, dei difetti personali dell’Autrice, della società e delle sue storture, tra le quali il linguaggio vacuo e amorfo dell’informazione, che non sa usare il tono e la violenza adeguati alla gravità delle situazioni. “Sull’orlo di questo precipizio”, indica che quel linguaggio asettico è sintomo e conseguenza dell’ignavia politica intorno al dramma del cambiamento climatico e alle tragedie ambientali e umane che ne derivano con i suoi “venti di tragedia” (“Sull’orlo”).
Tuttavia, “a sopire il vuoto” e la solitudine aiutano gli oggetti che acquistiamo, con cui stipiamo le nostre case – “i nostri resti” – nei quali “sento il tuo tepore”. Si svela così il doppio ruolo del consumismo, la sua funzione ambigua e consolatoria al tempo stesso: la critica sociale si muta in confessione intorno al nostro bulimico rapporto con gli oggetti. (“Oggetti”). Traspare qui l’atteggiamento ambivalente nell’Autrice che viene riproposto più volte – l’accettazione, obtorto collo, di alcuni aspetti positivi di una realtà che razionalmente si disapprova.
Infatti, pur nella lucida consapevolezza della degenerazione civile e culturale, perfino i luoghi comuni triti e inconsistenti – “pensieri quotidiani stesi ad asciugare”– a volte finiscono per essere rassicuranti. Affermazioni come “il cielo è sempre azzurro/ l’amore resta blu”, nella loro banalità, non sembrano porre questioni che pretendono risposte. (“Banale”)
Ma permane, insistente, la percezione del vuoto nel quale l’Autrice si sente immersa, facendone parte a sua volta – “Io e il mio vuoto siamo un tutt’uno/ solidali/ e ci facciamo compagnia// O forse dovrei dire che ci facciamo assenza”. In questo caso, coerentemente con l’ambivalenza dei suoi giudizi, se ne avverte il lato doloroso: “pur essendo vuota, sono sovrappeso. // Eppure, ai più risulto trasparente” (“L’involucro”). Benché, perfino nella ricerca di persone affini, capiti di incontrare “abissi differenti” (“Similitudini”), nel rumore di fondo è possibile individuare un suono amico – il battito del cuore – che melanconicamente e dolcemente ci tiene compagnia. Un battito la cui eco pare raggiungere anche noi, avvolti dalla stessa solitudine.
Perfino la Storia, come passato e memoria, quando affidiamo i nostri commenti a laconici post sui social, perde la sua ragion d’essere nell’eterno presente in cui sprofondiamo, Eppure nella Storia Falà si è trovata a vivere felicemente, come dice un ricordo di rivolte giovanili e femministe “dentro gli zoccoli/ nella ruota rivoluzionaria delle gonne/ respiravamo nella lingua degli abbracci/…/…nei discorsi dei nostri maschi antichi/ a cui non avremmo più concesso il potere/ di nominare solo loro il mondo con le parole giuste.” (“Anni delle rivolte”). Un ricordo che sa di gioiosa libertà e di amara disillusione, poiché i maschi “Ancora risiedono, forti e in parte misteriosi”, proprio come dopo una rivoluzione “mutilata”.
In tanta parte della poesia che in questi tempi viene scritta si rintracciano i segni di una lacerazione, della crisi di una civiltà che coincide con la crisi del singolo e la determina. Esiste qualcosa di indicibile, qualcosa che ci è stato per sempre strappato e che ci fa sentire monchi. Lo ritroviamo in passaggi estremamente toccanti – non a caso – anche in una poeta profonda come Falà: “Permane al fondo di ogni cosa/ non detta. Appare. Scompare. / Manca. Come fondo di caffè. /Che sia una parte di te? /…/Manchi tu a te stessa, mentre/ manca lo sguardo dell’altro/ senza giudizio./…/ Mancava sempre, anche quando c’era./…/ ti porta altrove, forse anche / a un aperitivo dove lei non c’è. / Tu, neanche.” (“Manca”). Avere il coraggio di affermare apertamente l’esistenza di quell’ignoto non detto che manca, mentre cerchiamo in noi stessi la quadratura del cerchio – noi che, insieme all’Autrice, siamo ben lontani dall’Uomo Vitruviano di Leonardo e dalla sua fiducia umanistica – significa che abbiamo perso il nostro cerchio.
Ci si ritrova messi a nudo davanti al mondo nel sentirsi strettamente vicini a chiunque, come Leila Falà, si riconosce inerme di fronte a quella indefinibile ferita e a quell’oscura afasia. Non possiamo fare a meno di commuoverci davanti a tanta schietta umiltà, alla sincerità nel confessare le proprie piaghe e le proprie contraddizioni, che permeano questa raccolta poetica.

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Prima – Gabriella Cinti

Pubblicato il 20 febbraio 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

L’Origine e l’Oltre il presente
Adam Vaccaro
***

Gabriella Cinti, Prima, puntoacapo Ed, Pasturana (AL) 2022, pp. 122

Sono due i termini e polarità di senso che strutturano questo libro di Gabriella Cinti: Origine e Oltre. Origine con sensi che già sono intrecciati all’oltre, in quanto non riguarda l’origine del Soggetto Scrivente, ma la complessità costitutiva della vita, dalle sue forme elementari e minime a quelle più complesse, di cui è parte il percorso, umano, sociale e culturale dell’Autrice.
È una ricerca ambiziosa quanto affascinante, piena di domande sull’ignoto, che rimarrà ignoto, ma diventa materia di azione di un poièin che non si accontenta di giochi verbali, autoappagati e indifferenti al crescente accumulo di problemi insoluti nell’Altro da sé. Lo sguardo di Gabriella continua a tradurre in versi la sua ansia di conoscenza e di passione antropologica, entro una affettività che fa diventare presenze adiacenti anche evocazioni lontanissime: “Ninfa del Miocene/ chissà se piangevi?// Le viridate tue lacrime,./ il dolore scoperto nel sale sulle labbra, / a terra cadevano/ hai accolto così in te anche /il pianto delle tue sorelle di prima. // Trenta milioni di anni per assaporare/ il soffrire come un sapore…”.
È il primo testo del libro che trasmette ricchezza di sensi, preziosi quanto più navighiamo in un’ansa di storia che produce falsificazioni e indifferenze, orizzonti di ideologie e tecnologie transumane, deliri di poteri invasivi e poco visibili, liberazioni illusorie, impoverimenti umani ed economici, compresa la nostra capacità di comprensione e articolazione di senso:
“Bambina primate,/ cucciola di nostra forma./ Tra gli alberi batteva il tuo cuore,/ i tuoi denti sonori ritmavano il respiro/ in suoni di preparola.// E non so se piangevi,/ se capivi la musica della savana,/ la voce delle conifere,/ l’intelligenza del silenzio.// Ne so quanto te del mistero dei rami,/ delle foreste troppo spesso nemiche// Quanti milioni di anni/ ha la storia delle mie lacrime?” (pp.9-10)
Ma l’immaginazione del libro si spinge oltre l’arco di qualche milione di anni dell’antropocene sulla zattera terrestre. Un avvento che, con crescente impatto, fino al dominio trionfante contemporaneo, minaccia di ridurre questa zattera in rottami apocalittici: sarà questo lo sbocco inevitabile prima di un nuovo inizio di vita e di senso? O gli esseri umani riusciranno a ricostruire una speranza e un destino capace di invertire i rischi autodistruttivi attuali?
La passione e il viaggio inanellati da questo libro sono perciò tutt’altro che a testa indietro, dimentichi e deresponsabilizzati rispetto alle derive contemporanee. Il testo si inoltra nei moti del pendolo di oscillazioni millenarie, imperscrutabili e violente, e che nemmeno il supposto Dio creatore ha saputo costruire secondo logiche consone ai sogni di antropologie d’amore, francescane o di parallele utopie laiche.
Il libro dipana una sorta di cantico di incessanti domande che, pur rimanendo prive di risposte, per l’Autrice diventano motivo di ri-creazione e resistenza all’angoscia di un evanescente fantasma di umanesimo atteso, continuando a dargli forma e corpo con versi accesi e inarresi:
“Il mento nella mano/…/ busso alla chimica del cosmo,/ cerco luce di intelligenza astrale.” (p.13);
“Di questo viaggio – storia di ombre mutanti/ a cui dare voce – è il mio tempo” (p.77).
Il filo rosso è una instancabile ricerca di magia che ridà vita a momenti in cui “ubriachi di miele nella voce”, riusciamo a risalire come salmoni ossessi all’origine, a “risalire il tempo:/ lo stupore turchese dell’estasi.” (p.94), attraversando con visioni bambine le “Acrobazie delle specie” (p.95), in una Psicosfera (p.101) che “tra i gomiti dell’accadere”, ritrova “il pensiero della luce” (p-105), “briciole Pollicine” (p.104), “Di presenza in presenza/…/ amore ultravioletto// e incendio elettrico di rinascita.” (p.103).
L’alito cercato è il “Respiro biondo di rinascita” (p.108), bocca di Euglena, ultimo splendido testo, con cui Gabriella Cinti, chiude il cerchio con al centro il bisogno primario di conoscenza, vuoto assediato dal poièin, inappagato dalle false verità spacciate dal piccolo stantio orizzonte del presente. Il bisogno di aprire Altro e Oltre, perviene così a tale nome, Euglena,“(dal greco, ‘la buona pupilla’), fatta simbolo di luce di intelligenza, “per raggiungere il bandolo primo,// dove Coscienza/ palpitava di carne, di foglie,/ di anime ruotanti, di umani/ nascosti in sigle, nei primi organismi.” (p.113), “nel tuo mistero d’essere, Euglena” (p.114).
Luce di ansia immaginativa e passione trovano attimi placati in testi come “L’amor che move il sole e l’altre stelle” (p.12), tremante astanza del divino Faro, rincorsa di canoscenza, che non può essere fredda: “Il governo del due/ tra quark danzanti e inusitati/ a celebrare il primo moto,/ per onde, della materia”, “il coraggio dell’origine/ euforia delle cellule nell’urto primario”, “brulichio e disordine/ come l’amore ardente”, “nel tempo Uno del fuoco”, in cui “c’è sempre un bacio all’inizio della vita”.
Adam Vaccaro

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La Mia Milano – Angelo Gaccione

Pubblicato il 11 febbraio 2024 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Il cuore e la storia resistenti di Milano
Adam Vaccaro

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 Vedi anche su Rivista “Odissea”: Adam Vaccaro. Il cuore e la storia “Odissea”:

https://libertariam.blogspot.com/2024/02/il-cuore-e-la-storia-di-adam-vaccaro.html

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Angelo Gaccione, La mia Milano, Meravigli Ed. 2023, pp. 222, € 17.

Bisogna avere un grande cuore, al pari di quello che si vuole aprire e riaccendere, per poterlo raccontare e farne corpo di questo libro di Angelo Gaccione. Cuore, beninteso, non come melassa sentimentale, ma come centro vitale di intelligenza che sa andare in profondità, per risalire col sorriso trionfante di un sub con in mano una perla che brilla nelle sue mani. Un frutto di lavorio lungo, attraverso il tempo e lo spazio, immagine di bellezza, perché sintesi di quella nostra illusione di prendere nelle mani la totalità della vita, che solo le oasi d’amore ci regalano, dopo lunghi attraversamenti di sabbie aride.
Stiamo percorrendo un tratto di storia, che disegna orizzonti illusoriamente aperti tra dune desertiche, che ci accecano e ci seccano le labbra, tradendo promesse risolutive delle somme di ansie, pericoli, ignominie e orrori che costellano sempre più le linee del contesto. Questo libro di Angelo Gaccione diventa così una sorprendente, salutare macchia verde dei rari ristori cercati e trovati.
E che questa oasi abbia il nome di Milano è un regalo inatteso, vivendo e respirando nella sua crescente foresta di problemi irrisolti e cemento. Ma è l’amore che sa scovare tutte le ragioni per glorificare e fare Luogo di un orizzonte che tende a esaltare connotati di un nonluogo metropolitano.
La carrellata nel tempo e nello spazio, che Angelo inanella va a caccia di tutte le tracce ed evidenze, non solo architettoniche, che resistono e smentiscono tali tendenze, come testimoni testardi presenti ai delitti commessi, ma che riaffermano ragioni di un passato che ostinatamente vuole essere pedana di un salto verso un futuro disegnato entro un’altra prospettiva.
È una sfida che sfama il nostro bisogno di coniugare bellezza, quale incrocio antropologico di dignità operosa ed etica, che fece meritare a Milano l’appellativo di Capitale morale, prima di vederlo rovesciare in morale del capitale, con il trionfo, a partire dagli anni ’80, del neoliberismo globalizzato e del dominio finanziario su tutte le attività umane.
Gaccione racconta la sua vicenda personale, quando arrivò a Milano dalla Calabria alla fine degli anni ’60, col sogno di una nuova vita in quella che allora era ancora una città, nemmeno tanto grande, col suo Monumento di marmo al centro di un fervore di vita e una Madonnina d’oro in cima. I terroni che arrivavano vi trovavano sensi di comunità unita a una sacralità della vita, seppure con nomi e forme diverse da quelle delle proprie origini. Chi vi arrivava (anch’io ne feci approdo dal Molise, dieci anni prima) trovava modi di rinascere dopo il trauma del trapianto, perché Milano – come tutte le altre realtà urbane, piccole e grandi, era ancora una realtà-città, che proiettava nell’animo di chi vi viveva una sua identità, con segni di storia, memoria, arte e civitas, trasmessa da evidenze di luoghi del sacro e luoghi amministrativi, quali segni-simboli che componevano. una immagine finita dell’infinito.

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Nelle vene del mondo – Donato Di Poce

Pubblicato il 18 gennaio 2024 su Recensioni e Segnalazioni da Adam Vaccaro

Donato di Poce, Nelle vene del mondo, I Quaderni del Bardo ed., Sannicola (LE) 2023

Nota di lettura di Laura Cantelmo

Nella vasta bibliografia di Donato di Poce, ricca di raccolte poetiche, di aforismi e di saggi sull’Arte e sulla Letteratura, questo recente volume delinea, come si conviene a un’autoantologia, il ritratto dell’artista, evidenziando le predilezioni creative e di ricerca dell’Autore ed enucleando i principi di poetica elaborati lungo il suo percorso di scrittura e di esperienza umana.
L’arco di tempo copre una curva non indifferente: 2000-2022, partendo dai giovanili testi di argomento amoroso e giocosamente erotico, nei quali si intrecciano, fondendosi, la ricerca della parola e della verità del discorso poetico, che sono i principi di riferimento di questo Poeta. L’autenticità del linguaggio, a suo parere, deve di necessità evitare orfismi e parole innamorate-modalità ormai un po’ usurate che nei decenni precedenti avevano dominato la scena letteraria nel nostro paese, senza mai scomparire del tutto.
Rivelatori sono i primi versi del testo d’inizio, Orizzonte d’attesa: “Nell’orizzonte d’attesa/ restano le parole che non trovo/ mentre nella mia terra perdo il respiro/e schegge d’oscura passione/ dilegua il mio cuore/ e quel che taccio/ ha sempre il sapore dell’incanto”. L’apparizione di una figura sublimata di donna collega i testi alla tradizione allegorica medievale della lirica d’amore – “…Te nei borghi persa/ annidata nel cappottino rosa” – rappresentando l’indagine sul linguaggio e i meccanismi dell’ispirazione poetica: ”Se tu mi baci/ le ciglia della vita si aprono”.
Il pensiero viene sempre filtrato dalla corporeità e dalle emozioni, come nel poema L’origine du monde (2004), altro esplicito esempio di poesia erotica, dove il corpo è protagonista dei “miei esercizi d’amore”, mentre “nell’anima lievita la visione del corpo/ E io sono l’angelo d’amore/ Che raccoglie le gocce del piacere”. Echi della poesia medievale, ma persino del Cantico dei Cantici risuonano nei giochi d’amore, rappresentati con un realismo che allude, non a caso, al dedicatario del poemetto, il pittore francese Courbet, al suo realismo immune da ridondanti simbolismi. L’esplosione ludica del piacere si carica qui di un vitalismo che ben raffigura tutte le sfumature e le richieste del sogno, del desiderio e dei tormenti amorosi.
L’ambiguità tra la tematica dell’amore fisico e quella della fatica dell’espressione poetica – “desideri incompiuti” – riaffiora in modo più evidente ne Il gorgo dei desideri (2004):” Le poesie sono pietre posate sull’anima” afferma il Poeta nell’attesa, finché qualcosa si muove dentro di lui:” Ora sento, c’è la parola/non è ancora fatta lingua/” “E venne il giorno infine/…/ Dal cuore uscivano parole nuove/ ed io non sapevo parlare.”
Il principio oraziano “Ut pictura poesis”, fondamento della sua indagine linguistica e del realismo descrittivo, è frutto dell’intreccio dei suoi interessi pittorici e letterari. Eleggendolo a norma, il Poeta lo sceglie anche come titolo di una raccolta di ritratti di poete e di poeti, nella cui personalità artistica spesso lui stesso si rispecchia: “E non so spiegare/ Perché i tuoi segni/ Toccano le pareti della mia anima”, dice rivolgendosi a Mario Benedetti (Ut Pictura poesis, 2016).
Ė nell’aprirsi alla realtà esterna, alla memoria e al male del mondo che Di Poce approda a una fase di maturità e di consapevolezza civile sulle orme di P.P. Pasolini e di Enrico Mattei, come modelli di opposizione al potere: “Noi cercheremo/Quella verità che sgorga dal vero/E quella poesia che fa sognare/Un nuovo mondo e un nuovo futuro./ Noi combatteremo l’orgia dei poteri” (Lampi di verità, 2017).
Già nel poemetto sul dramma del Muro di Berlino, Lungo la East Side Gallery (2008/2009), alternando toni lirici ed epici, la narrazione ripercorreva con profonda commozione la storia di violenza e di dolore di “migliaia di spiriti liberi/…/ Durante il tentativo di fuga/ che non era una fuga/Ma un ritorno alla vita”. La denuncia della brutale divisione del cuore di una città come Berlino e della Germania stessa coinvolgeva tutti i muri eretti nel mondo come espressione di odio. A ciò si univa il pericolo della cancellazione della memoria o della sua banalizzazione nella volgarità dei souvenirs destinati a orde di” turisti chiassosi, irriverenti e indifferenti/ Che calpestano le tracce del muro/ E non sanno che i muri sono loro.”. Non stupirà che persino nell’aspirazione alla libertà il Poeta si esprima qui in termini erotici: “E cercherò come un seno da accarezzare/ I germogli di vita che crescono/ Ai bordi della Storia.”
La poetica si va poi consolidando, come già detto, grazie all’analisi di altri linguaggi – la Pittura e il Teatro: “Bisogna uscire dal Sé/Dal proprio buio/Dalla propria assenza”, recita un verso nella raccolta dedicata alla controversa personalità di Carmelo Bene, L’altro dire (2020). In un tempo di diffusa autoreferenzialità la ricerca di un “altro dire” significa: “Uscire dalle trappole del proprio genio/ Dalle trame del quotidiano/Scardinare le porte del proprio buio/…/ E camminare sul mare del proprio vuoto.” per approdare a un’ aperta speranza: “Cercare un altro dire/Oltre le rovine del tempo/Dove c’è un tempo nuovo da vivere/…/Io l’ho visto nascere/…/Negli occhi stellati dei bambini/…/C’è stato il tempo degli eroi/…/Ma ora è giunto il tempo dei giusti”. Il linguaggio profondamente emotivo palesa l’amore per il sogno e per l’utopia seguendo un percorso articolato che si è andato arricchendo nel tempo e lungo il quale gli interessi intellettuali si affiancano sempre più a temi civili (v. “Binario 21” sulle deportazioni nei lager nazisti) e a riflessioni filosofiche sulle profondità della psiche di altri Autori e Autrici contemporanei, tra cui anche la milanese Alda Merini. Sorge da qui l’interrogazione pressante sul valore etico della Poesia e dell’Arte che resta al centro della sua scrittura.
Ed è smascherando con critiche acute e salaci il falso impegno e la disonestà di molti operatori e di sedicenti intellettuali nell’ambito della letteratura di consumo (“I Poetocrati”, in La poesia è un diamante grezzo, 2022), che con spietato sarcasmo Di Poce fustiga i falsi amici, gli opportunisti, i calunniatori e gli invidiosi, riconoscibili in una burlesca lista di proscrizione redatta con nomi di fantasia.
La coerenza verso i principi finora esposti valorizza la sua personalità di saggista e sostiene la sua ricerca poetica.
Milano, gennaio 2024

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