Cesare Vergati

Cesare Vergati vince una borsa di studio per un anno: USA (Diploma High School). Si laurea a Roma in Psicologia e in Filosofia. A Madrid e Barcellona studia letteratura spagnola. Frequenta per un anno la facoltà di Filosofia a Berlino. Studia e lavora a Parigi per più anni e consegue il dottorato in Filosofia e psicanalisi. A San Pietroburgo e a Mosca studia letteratura russa. Con ExCogita ha pubblicato nel 2004 il primo volume della Trilogia dell’Eco, A sorpresa, romanzo in poesia, e nel 2006 il secondo volume dal titolo Soldato a veli, romanzo in teatro. Entrambi i libri sono stati tradotti in russo da Alla Borisova.

(testo di Cesare Vergati)

Ogni eco è sogno,

è visione

Contrappunto primo

“ Da lontano i dettagli hanno la misura del superfluo.”

“E lungo quella salita lunga un eterno di ponte in legno argentato, e come ferreo, dall’odore inconsueto di cemento percorrevo quel lungo tratto di strada andando verso il su, lentamente tutto all’inizio e poi mi guardavo i miei pochi anni di vita in un lato verso il fondo della vastissima e profonda vallata ed avevo paura che qualcosa potesse accadermi così d’improvviso, sarei come caduto nel vuoto, mi sarei allora frantumato le ossa del corpo, il cranio ed il petto in uno scontro orribile e mortale laggiù lontano dall’alto del ponte, cosicché gli occhi pieni di un liquido miserabile in minute gocce per il caldo in un attimo già vapore, quegli stessi occhi annacquati guardavano, i miei, anche nell’altro lato di questo lunghissimo ma stretto ponte che va ripido a raggiungere un paese occupato da cani, gatti, gente poca, vecchia e qualche giovane di passaggio o bambino che attende l’ora di trasmigrare, per provare un opaco timore di smarrimento ed angoscia da darmi il vizio delle vertigini. Camminando lentamente in su credevo bene alzare la testa e irrobustire il torace, a norma di un guerriero spavaldo e temerario dunque, perché mi era nato il coraggio venire dal non osservare più, con macabra curiosità, l’immensa, vastissima valle che ora mi sembrava tenesse con pungoli d’acciaio, in perfetta sospensione il ponte in aria per non farlo mai rovinare al suolo in briciole di roccia.

Eppure il passo si faceva a forma di ritmo, a seguire una inconscia sincope, una leggera spezzatura voluta dei passi, come a voler naturalmente affannare il respiro, turgido il cuore, che seguiva emozionato il battito del cammino. Il sangue si riscaldava già sotto il sole veemente di fuoco e pur sentendo i sudori quali momentanei, giusti sollievi, i passi miei crescevano in gradevole sintonia il ritmo per cui al limite quasi doloroso e pienamente piacevole dei polmoni gonfi e sgonfi a dare al petto il su e giù proprio ad una intensa tensione dell’organismo, fisiologico, fino ad arrivare finalmente sulla cima di quel cosmo legnoso, e come ferreo, che vedevo soddisfatto di poter adesso allentare a mio piacimento la straordinaria eccitazione del mio corpo intero. Giravo con la testa lo sguardo intorno alle case basse, di pietra, certe diroccate, certe rifatte, certe con la sola finestra che guardava a nord con l’ossessione del padrone che difende il luogo dove vive rinchiuso sempre in casa, lo portavo in giro lungo le nuvole smorte dello stanco assonnato pomeriggio di provincia sul farsi delle ore quindici, lo accompagnavo infine sulle grandi pietre grigie e nere che stanno lì per muli e umani da condurre per la interminabile discesa, nel ventre di quell’ ammasso incomprensibile, disordinato, fatto a strati spigolosi di gobbe, minuscole colline, storpie nella geometria che si vede nel progressivo discendere, nell’animo quindi il senso finalmente di un rilassamento in compagnia di un ricordo da poco nato, il magnifico turbamento, familiare, tanto e tanto nei giorni che verranno, nei mesi che vedrò, nei giorni e nei mesi in cui saprò e non saprò quel che fare, dove andare, come vivere.

Quante volte qualcuno tra ragazzi miei amici diceva l’estasi della discesa dopo l’esaltante viaggio lungo il ponte lunghissimo. Sulla collinetta, sgorbio di questa verde natura, di terra gommosa e piante, alberi posti nei luoghi, di piano in piano scorretti nelle posizioni, a tema di intreccio bizzarro, linee curve, lo scherzo disegnato da uno scolaro fannullone, ghirigoro indecente per me che sedevo senza conforto. Come su delle spine. E il tempo da tutti lati veniva con il suo soffice, delicato brezzare, mite seppur a momenti con quasi impercepibili, rapide a sparire, raffiche spigolose sul viso, da dirmi il sapore delizioso di minuscoli svanenti pungichii. Come distinguere, impossibile, la moltitudine innominabile delle foglie, lontane gli occhi dell’uomo a riva dall’orizzonte, filigrana insensata alla mente, se non lasciando perdere, necessariamente lo sforzo, quello di un binocolo nella messa a fuoco, ed invece di fronte a tanta ricchezza intangibile, di conseguenza superflua a me, se non variare con il capo gli occhi sulle grandi cose, visibili ed imponenti del panorama. Di nuovo parti di terra che di colpo cercavano un disgraziato sprofondamento fin giù, laddove sospiravo guardando di aver la pelle salva, alberi giganteschi di cui intuivo unicamente il peso sulle mie spalle, ne sarei morto per troppa immaginazione, colline disadorne di tutte erbe ed animali, brutte quali la pelle svigorita ed essiccata del serpente, e due collinette fatte dalla natura del gusto primario dell’armonia, delle belle forme, che a lungo, lunghissimo cercavo per riposare e sognare.

Per me stavo però bene nelle mani leggermente umide poggiate a sostenermi, per non troppo soffrire lo scomodo, che lisciavo stessi dando carezze o strappando di tanto in tanto più fili d’erba, da metterne un paio sotto i denti, dissetando così la voglia di un contatto fisico, anche fosse stato saltuario ma quanto benefico. Chiaramente pensavo vero il forte calore delle guance, il rossore loro magnificamente inestinguibile. Per Saverio c’era il gioco delle nuvole. Atteso per ripetere il mio intenso desiderio. L’adolescente è compagno di strada della nuvola. Par excellence. Ed io tenevo moltissimo a questo gioco splendido, caldo come i raggi di un sole che luce alle ore sedici.

(Da Ragazzo a pendolo. Romanzo in musica – Trilogia dell’eco, Volume terzo)

La “Trilogia dell’eco”: indica il senso della eco che si rivela, eguale a se stessa, all’infinito, senza mai affievolirsi. Lo stile in prosa poetica, in espressione fortemente materica, corporea, fisica, si avvale della iterazione, che rafforza la musicalità dei testi, dell’ellissi, tale da mettere in valore l’ essenzialità delle parole, e di altre figure retoriche, atte a favorire una struttura rigorosa dei testi.

Il primo volume “A sorpresa: Romanzo in poesia “Excogita editore narra in forma metaforica, in prima persona femminile, gli amori intensi di una donna, che crea per sé una personale concezione del mondo, vivendo puranche esperienze estreme, in forza di una maggiore libertà di azione e pensiero.

Il secondo volume “Soldato a veli. Romnzo in teatro.” Excogita editore narra in forma simbolica, (in unità di azione, luogo e tempo),  la storia allucinata di un soldato, che traversa un bosco pieno d’orrori, in guerra, e porta in mente ed in petto un terribile paradosso: raggiungere la meta agognata, laddove farà la guardia unicamente in luogo di pace, di assoluto silenzio, di completo vuoto.

2 marzo 2009 presso il “Teatro della memoria”: riduzione teatrale del testo “Soldato a veli. Romanzo in teatro” di Fabrizio Caleffi.

Nel terzo volume “Ragazzo a pendolo: romanzo in musica” Excogita editore, confluiscono gli archetipi (presenti nei due romanzi precedenti): dell’amore e della guerra e narra, in forma allegorica, le esperienze contraddittorie di un adolescente in tormento ovvero in grande gioia, che si sente drammaticamente combattuto da opposte tendenze.

Sinossi “Faust o l’inconverso”

“ Faust o l’inconverso”, primo volume del “ Trittico d’ombra”, Excogita Editore 2009, scritto in prosa poetica, narra, con afflato visionario, la dura esistenza della vita di un mendicante, costretto a subire violenze e umiliazioni dall’ ambiente di estrema miseria in cui vive.

Si deve guardare non solamente dalle immancabili avversità insite nella condizione di indigenza nella quale quotidianamente si trova, ma deve altresì, ossessivamente, difendersi dagli assalti di un uomo, benestante e soddisfatto di sé, il quale, sotto le apparenze di una affettata bontà, intende invece, ossessivamente, vincere l’istintiva resistenza del mendico, il fine di voler inculcare nell’avversario, nel più intimo della di lui natura, la propria visione del mondo, con la promessa ultima d’offrire al miserabile una vita migliore.

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