L’ECONOMIA DEI MORTI

Pubblicato il 9 luglio 2014 su Resoconti Esperienze da Adam Vaccaro

I morti vivono in un momento di costruzione senza tempo che ricomincia di continuo.

La costruzione è lo stato dell’universo in un istante qualsiasi.

John Berger

L’ECONOMIA DEI MORTI.

di Patrizia Gioia

Una mattina di luglio a Milano.

Un buon caffè in pasticceria sotto casa e quattro passi verso il Cimitero Monumentale,

per portare un profumato lilium bianco a chi è già arrivato.

Lentamente, assaporo l’aria domenicale di Milano, che nulla ha dei quotidiani mortiferi sfiati automobilistici, ma solo fiati di indicibili presenze, leggere brezze d’odor di gelsomino, qualche tram che passa, qualche passante che sosta su una panchina col giornale in mano.

Una preghiera nella piccola cappella dove si celebra la Messa, poi, senza una meta, cammino.

Mi trovo così nel luogo ove riposano i milanesi illustri, molti gli uomini e le donne di spettacolo;

vedo la piccola statua marmorea di Giovannino D’Anzi, a cui la “Madunina” sarà sempre grata;

la lapide al muro di Giorgio Gaber, marionetta smilza e snodata che parlava di partecipazione e libertà, quella del poeta Duilio Tessa, che abbiamo portato a teatro con le sue poesie e le canzoni

di Enzo Jannacci, “duu s’ciopàa” che cantavano la periferia, quegli ultimi che saranno i primi, e ancora trovo ove riposano Giorgio Strehler, Paolo Grassi, Alda Merini, e molti, molti altri.

Una volta li seppellivano fuori porta questi poveri teatranti, uomini e donne che lasciavano tutto

per passione, perchè avevano tutto in quella passione.

Ma da soli i vivi sono incompleti.

Così, camminando in silenzio tra me e me, penso: ma cosa significa “spettacolo” ?

Cosa significa essere attori? Calcare il palcoscenico? Non è forse vivere?

Io che avrei voluto da sempre essere attrice, ma che i fatti della vita mi hanno portata

ad altra creatività.

E si sa che la creatività è quel che muove l’essere umano, la passione, il sacro fuoco del dentro,

quel daimon che spinge e vuole essere quello che è da sempre dentro noi.

Sappiamo ancora queste cose? Ancora ci facciamo domande su chi siamo, dove andiamo?

Oggi che tutto è fretta, parole spezzate, relazioni inesistenti, sentimenti repressi, sesso

come se si facesse benzina.

Il camposanto è un luogo magico per me; non mi sento mai sola come spesso accade fuori

dal “suo campo”; presenze s’alzano continuamente con la loro essenziale voce, energie alate camminano al mio fianco, intensità di parole non vane.

Giovani visi mi parlano da fotografie di ceramica in bianco e nero, sogni spezzati?

Come poter dire? Meglio non avere risposte, sempre più grande il Mistero che ci circonda e

che qui ha la sua casa, e il profumo dei fiori ha un’intensità rara, una mistura intensa dove puzza

e profumo si sposano, qui tutto ha le sue nozze, il giorno, la notte, la vita, la morte.

Qui il pianto offre possibilità di trasformazione.

Improvvisamente una giovane ragazza mi avvicina: “Signora, se vuole accomodarsi, tra poco inizia lo spettacolo. Momenti messi insieme dai giovani attori del Piccolo Teatro di Milano”

“Dove ? chiedo stupita e anche un po’ spaventata da questa irruzione .”

“ Nel famedio, alle undici si inizia”.

Improvvisamente il Campo Santo assume una valenza differente, le anime si animano e si fanno

più vive di certi vivi. Aliti di vento mi sfiorano come dita leggere, foglie cadono dondolando,

petali di fiori come unghie colorate di infinite delicate mani muovono l’acqua della fontanella

che argentina canta.

Qui la vita vive ! mi dico, vive di una pienezza che abbiamo esiliato, vive di quel poco che serve

a farci gioiosi, chè la felicità, dice il Poeta, come ogni cosa felice cade, ma la gioia, ah! la gioia fiorisce in noi.

Abbiamo spezzato la nostra inter-in-dipendenza con i morti, ora pensiamo a loro come agli eliminati, anzi, ancor peggio, cerchiamo di eliminarci da vivi.

Scaduti e da rottamare, ci togliamo il lavoro, ci imprigioniamo dietro un compiuter o dentro diabolici centri commerciali, ci esiliamo negli ospizi, ci condanniamo a morire in nessun luogo.

Una fila di sedie rosse mi attende, mi siedo e tre giovani iniziano a raccontarmi la storia della mia Milano e delle sue 5 giornate, una “liberazione “ dall’oppressore, dove ognuno, ogni milanese ha contribuito con i tavoli e le sedie della sua casa, la Cancelleria con i cumuli della carta bollata, il Teatro alla Scala con tutte le sue scenografie, e sarti, calzolai, musicisti, droghieri con quello che avevano.

Ecco come erano le barricate milanesi in quei giorni di insurrezione, una fratellanza solidale,

nessun conto se io avevo più di te, “qui tutto serve” si diceva e si tirava giù dai solai quel

che mai si s’ha d’avere, un via vai di donne e bambini, tutta carne e sangue nostro, fatto di giorni

e giorni dove si arriva a dire: BASTA, non ci sto più al tiranno, che anche ci avrà dato buone cose, ma non sono le nostre !

E il tiranno se ne va, ma non per sempre.

Come ancora non sapere che non ci sono vincitori, come ancora non vedere che siamo tutti poveri diavoli con un Dio dentro che ci sta ancora a sentire e ogni giorno chiede: ma tu, tu mi senti?!

S’apre altro sipario e arriviamo alla seconda guerra mondiale, finita e due giovani, uno di ventotto anni, Paolo Grassi e uno di ventisei Giorgio Strelher, che su quelle macerie si incontrano.

Amano il teatro, quello che io chiamo militanza non armata, parole che ci spogliano, che ci fanno nudi e ci mostrano la caricatura di quello che siamo diventati.

E questi due cercano un luogo ove essere EUTOPIA ( un luogo possibile che c’è, se noi lo facciamo possibile ! e insieme si può ).

E lo trovano in via Rovello, dove urla di ingiustizia ancora echeggiavano.

Giorgio sta dentro questo luogo quattro ore, in silenzio e da solo.

Poi esce e chiama al telefono Aldo: “ se tu ci stai, io ci sto”.

E così EUTOPIA ha casa e nome: il Piccolo Teatro di via Rovello nasce .

E a questi due si affianca la Ninchi, il femminile che armonizza.

Il futuro è la costruzione a cui partecipa tutta l’immaginazione, quella dei vivi e dei morti,

senza separazione alcuna.

Finalmente mi tolgo il mio preservativo culturale ! spogliata dalle mie paure e dai miei pregiudizi, sento…sento che il CampoSanto è vivo e vuol vivere con me; i morti non sono qui, occorre

solo un altro orecchio…dove la pupilla è il cuore.

Liberamente ispirato a le “dodici tesi sull’economia dei morti “di John Berger

postfazione al libro fotografico di Simone Casetta : Fanno finta di non esserci

i semi della gioia

www.spaziostudio.net

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