G.P. Fortunato

Frammenti di inesistenza ed allegrie – G. Pio Fortunato

Pubblicato il 12 agosto 2025 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Giansalvo Pio Fortunato, Frammenti di inesistenza ed allegrie, Puntoacapo Editrice, 2025

Nota di lettura di Margherita Parrelli

Il testo parla e il poeta si fa parlato per mezzo del testo che testimonia il suo esserci, il suo essere nel mondo e del mondo. Giansalvo Pio Fortunato sta nel tempo delle cose e il suo sguardo temporale muove dalla tradizione, o meglio è nella tradizione classica del mito e religiosa della cristianità. Il suo essere tradizione non è un volgersi indietro ma un guardare in avanti, un tendere verso il futuro dalla prospettiva della pienezza del presente.
Non a caso a mio avviso, “Frammenti di inesistenza ed allegrie” ha inizio nel momento in cui l’esserci si manifesta: il tempo. La lirica d’apertura, “Odissee”, ha il tempo dell’andare a ritroso verso casa, prende inizio dall’apprendimento di una temporalità che è “un conto lunghissimo”, e disvela la condizione umana dell’ “essere stati / nel confino alla terra”, terra che immediatamente si tramuta in materia, proiettando il mito dell’Odissea nella dimensione moderna dell’universo, dell’immensità nella quale l’astrofisica ci ha gettati, nel futuro dunque, che è il nostro presente tanto quanto il passato.
Colpisce in questi primi versi l’uso delle proposizioni che sviluppano grammatiche alternative e conducono nel mezzo di paesaggi tanto inaspettati quanto insoliti, una caratteristica della scrittura del poeta. Si noti, infatti, che la materia non è specificazione del sostantivo confino, non si dice: il confino della materia, ma il confino alla materia, indicando la direzione verso cui il confino si volge.
L’odissea di cui racconta Giansalvo è quella della soglia, dell’essere stati sul confino e aver potuto guardare alla terra, che per antonomasia dichiarata è la materia, l’unica nostra possibilità di esistenza, l’unico luogo dove l’esistenza si dà.
Pochi versi a seguire il poeta diviene più esplicito e descrive l’esserci come un “cammino in bilico”, fatto di un “susseguirsi di strozzature / ed alchimie”, tipico del “passo d’uomo unico”. Questo esserci è caratterizzato sempre più chiaramente nei versi successivi come “odissee perpetue”, cioè come un’irrequietezza che è un mal di vita e arriva a tramutare l’istinto di sopravvivenza nel suo contrario: “nel rifiuto continuo di una certezza / l’istinto al non sopravvivere / la negazione del corpo”.
Nella parte seconda di questa prima intensa lirica, che prendo come esplicativa e rappresentativa della poetica e della versificazione propria di Giansalvo, fa il suo ingresso la paura, il senso di perdita estenuante che si impossessa dell’essere umano, lo fa precipitare nell’attrazione delle sirene, lo mette in fuga, senza che nulla lo leghi “all’albero maestro”.ùLa paura è qui perdita di sé, senza l’acquisizione del senso, della consapevolezza che conferisce l’angoscia heidggeriana, tanto che essa viene definita come “l’arte amara e trita” e rappresentata come un male incapace di vedere il male.
Così l’ascoltare il canto delle sirene ha una sua efficacia solo per chi si accontenta di rimanere nella superficie delle cose privandosi della consapevolezza: la paura “induce ai salvati solo/ per l’efficacia nel saper udire/ il margine buono delle sirene:/ è facile la fuga/ che scova la pietà del male,/ non vedendo il male.
Prosegue il poeta dichiarando: “quando saprò il segno di Itaca/ sarà troppo tardi, avrò iniziato/ le misurazioni che mi diranno casa/ ed il risultato, il limite pietoso,/ cresciuto nella volontà/ di non evadere più, sarà l’inizi/ della carneficina (…) saprò il tenero/ e l’aspro della scelta”.
In questi versi fa ingresso la consapevolezza della condizione umana, del suo essere tenera e aspra insieme, dalla quale deriva la capacità di non seguire il canto delle sirene e accedere alla pienezza della libertà, all’esperienza del limite pietoso come atto libero e volontario. Una pietà tutta cristiana nei confronti della limitatezza dell’esperienza umana esercitata da un atto volontario, quindi di libertà, di non evadere più dalla condizione propria dell’esistenza, dell’esserci nel tempo.
In questo passaggio mi sembra si possa rintracciare con chiarezza la profondità dello sguardo cristiano di Giansalvo e la sua capacità di congiungerlo a quello della cultura classica, ravvivando entrambe le tradizioni che vivono in lui, nel suo essere poeta del presente.
Questo primo esemplare componimento si conclude con la negazione del mito dell’odissea in quanto viaggio del ritorno: “le odissee (…) non ammettono ritorno”, sono il tempo dell’addio. La fine del mito del ritorno al passato, l’abbandono dell’addio come atto definitivo e inesorabile, consente di inglobare il passato nel presente, di trasformarlo in un più mite “arrivederci/ posto sulle anime semplici”; un arrivederci che getta un ponte verso il futuro e rende a sua volta il presente accogliente e aperto alla speranza, una speranza tutta cristiana.
Non è lettura semplice quella di “Frammenti di inesistenza ed allegrie”, a volte ci si può sentire persi, altre irritati da un logos che sembra negare l’acceso al movimento verso l’altro, altre ancora impossibilitati ad abbandonarsi alla lettura. Richiede invece attenzione, desiderio di fermarsi, capacità di penetrare lentamente la parola, non lasciandosi travolgere da una scrittura eloquente, ricca di immagini e traslitterazioni, potente nella forza del sentire e del concepire.

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