Marco Bellini
“L’orizzonte che ci spetta”
Lietocolle, 2025
Nota di lettura di Margherita Parrelli
Vi è qualcosa nella poesia di Marco Bellini che contribuisce a fare del mondo un luogo meno sconosciuto e, se ci si lascia andare alla sua parola, se le permettiamo di parlarci, finanche confortevole, non comodo e accogliente, ma decisamente capace di rendere forte per il mezzo dello stare insieme, del condividere la sorte e l’appartenenza.
Non è uno sguardo tragico il suo, ma uno sguardo attento, accurato, commosso, che riesce a originare un movimento comune, a prendersi cura delle forme di vita che popolano l’ambiente.
Parimenti vivono nei versi di Bellini l’ontano, il rovo, il ciuffo di ortiche, il giornaletto porno perduto nel bosco e la cascina abbandonata, i grattacieli e i boschi, il bar del paese, l’averla, la vigna e il libro esemplare unico della biblioteca di Merate, il figlio in un amore che riconosce la reciprocità: “ti ho insegnato e così ho imparato/ a pensarti, a tenere quel filo che partiva/ da due punti sul pianeta/ (la mia presenza, la tua presenza)/ per incontrarsi in un luogo lontano”, il vecchio nel quale “ritorna primordiale il movimento della bocca” del succhiare per nutrirsi, “la Teresa che cammina ancora su quel lungomare/ sparpagliata”, il sogno dell’uomo che muore nel sonno poco dopo essere “rientrato mentre il campanile,/ infilato nella nebbia,/ prendeva a botte la mezzanotte”.
Il vivere insieme è un vivere tra pari e gli esseri viventi popolano i luoghi tanto quanto i luoghi popolano gli esseri viventi, ma questa uguaglianza tra le forme di vita non significa perdita del senso di responsabilità degli umani, azzeramento della coscienza, rimozione del pensiero-dato reale che la storia dell’homo sapiens sul pianeta ha un impatto sugli altri suoi pari.
“Dentro il catino degli anni abbiamo affidato
la nostra voce a Lucy che ha lasciato
la carne in Africa, al riposo di Ötzi
dentro il ghiaccio delle montagne. Sono lapilli antichi
gettati nella terra, franti nel rumore alto di un’onda
persi nel vento consumato. Sono lapilli antichi
gettati nella terra, franti nel rumore alto di un’onda
persi nel vento consumato. Sono lapilli
cadono e silenziosi fecondano il passato.
Siamo stati molte cose, abbiamo tracciato linee
unito punti sulla tela della storia
ascoltando il canto di mandibole perse
e utensili senza modernità.
Ora dovremmo scegliere meglio
quale strumento vogliamo essere e ricordare
che la versione storta della creazione
è nutrita dai gesti umani”.
Vi sono nei versi di Marco Bellini tracce inequivocabili di una frequentazione, da non far semplicemente risalire a un’appartenenza geografica in quanto scelta consapevole, di quella poesia che da Anceschi in poi si identifica, con tutte le dovute cautele che qualsiasi identificazione richiede, nella Linea lombarda. Intendendo con ciò quella “disposizione lombarda” a rapportarsi all’oggetto per il tramite dell’immagine così da costruire un rapporto tra soggetto e realtà nel presente, liberandosi da un approccio filosofico e allo stesso tempo da una visione neorealista. Così almeno ai suoi inizi. Ugualmente Bellini si iscrive in quella tradizione lombarda attraversata da una tensione etica e morale, che risale questa al periodo illuministico.
Vorrei infine notare come molte liriche abbiano al centro la rappresentazione di un oggetto che ha perso la sua funzionalità, da tale perdita scaturisce una poetica che direi del palesamento dell’essenza che sembra far vivere, sia pur non volutamente, il concetto heideggeriano dell’essere-per che caratterizza le cose, le quali proprio nella frattura si aprono, mostrano la dimensione ontologica, ovvero la loro appartenenza alla totalità, divenendo enti in sé. La fine della loro utilizzabilità svela il loro essere-in sé. Ma questo pur non essendo un’altra storia, porterebbe troppo lontano.
Così in Vite in riparazione: “Lo scatolone nell’angolo, cellulari rotti/ accatastati, schermi con cicatrici e poi/ le voci, si, le voci salgono l’aria, piano./ Lo scatolone come un girone, una punizione/ e le voci rimaste dentro, incastrate,/ le voci ancora vive da vite sfiatate: messaggi,/ chat, le foto di vacanza, qualche sms.”.
Ascolto, e sembra un confessionale, “Le voci/ una flebile litania per restare, dare traccia/ E’ il desiderio dei morti: superare la solitudine/ delle illusioni perdute tra i pezzi delle vite./ Fuori, sopra l’ingresso, l’insegna/ “Riparazioni computer e cellulari”/ è una bugia.”
Margherita Parrelli

Ringrazio Margherita per le preziose parole dedicate ai miei versi e Adam per la generosa ospitalità.
Marco