Versinguerra - Opinioni & Scenari
Seleziona un altro autore:
A  B  C  D  E  F  G  H  I   J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z

TIZIANO TERZANI
1- Il Sultano e San Francesco

Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri già grande e tu proponesti di scambiarci delle "Lettere da due mondi diversi": io dalla Cina dell'immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall'America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma è in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l'impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo.
Ti scrivo anche - e pubblicamente per questo - per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. Là morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana - la ragione; il meglio del cuore - la compassione.
Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. "Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia", scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all'indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui usò di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell'umanità, un'opera che sembra essere ancora di un'inquietante attualità.
Pensare quel che pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il problema è però che, grazie alla tua notorietà, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta.
Il nostro di ora è un momento di straordinaria importanza. L'orrore indicibile è appena cominciato, ma è ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. È un momento anche di enorme responsabilità perché certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti più bassi, ad aizzare la bestia dell'odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecità delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l'uccidere.
"Conquistare le passioni mi pare di gran lunga più difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me", scriveva nel 1925 quella bell'anima di Gandhi. Ed aggiungeva: "Finché l'uomo non si metterà di sua volontà all'ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sarà per lui alcuna salvezza".
E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non è nella tua rabbia accalorata, né nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela più accettabile, "Libertà duratura". O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo non c'è stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà nemmen questa.
Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d'aver davanti prima dell'11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di nulla, tanto meno all'inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta.
Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza - ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un'altra nostra e così via.
Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari "intelligente", di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui. Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologice - Stati Uniti in testa - d'impegnarsi solennemente con tutta l'umanità a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilità. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale - di per sé un'arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l'orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta.
In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werde n: ethische Politik von Sokrates bis Mozart ( L'arte di non essere governati: l'etica politica da Socrate a Mozart ). L'autore è Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all'Università di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff è che la politica, nella sua espressione più nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici più profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all'uomo la necessità di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civiltà. Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino - un marchio che è anche una protezione -, lo condanna all'esilio dove quello fonda la prima città. La vendetta non è degli uomini, spetta a Dio.
Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell'uomo occidentale perché col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro è servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilità della violenza che non raggiunge mai il suo fine.
Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore.
A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle "Tigri Tamil", votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di "Hamas" che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po' di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull'isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l'Imperatore. I kamikaze mi interessano perché vorrei capire che cosa li rende così disposti a quell'innaturale atto che è il suicidio e che cosa potrebbe fermarli. Quelli di noi a cui i figli - fortunatamente - sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l'ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio. Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali.
Niente nella storia umana è semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c'è raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, è il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell'evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L'attacco alle Torri Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non è l'atto di "una guerra di religione" degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è neppure "un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale", come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici.
Un vecchio accademico dell'Università di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse dà di questa storia una interpretazione completamente diversa. "Gli assassini suicidi dell'11 settembre non hanno attaccato l'America: hanno attaccato la politica estera americana", scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri - l'ultimo, Blowback , contraccolpo, uscito l'anno scorso (in Italia edito da Garzanti ndr ) ha del profetico - si tratterebbe appunto di un ennesimo "contraccolpo" al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell'Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo.
Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l'elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi.
Il "contraccolpo" dell'attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall'installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l'Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell'Islam.
Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana "a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico". Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati. Esatta o meno che sia l'analisi di Chalmers Johnson, è evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c'è, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi "amici", qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa è stata la trappola. L'occasione per uscirne è ora.
Perché non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perché non studiamo davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d'anni, tutte le possibili fonti alternative di energia? Ci eviteremmo così d'essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre più disastrosi "contraccolpi" che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l'Alaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche - tutti lo sanno - sono fra i petrolieri.
A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull'Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese è legato al fatto d'essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell'Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l'India e da lì nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall'Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli "orribili" talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a costruire quell'oleodotto attraverso l'Afghanistan. È dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l'imminente attacco contro l'Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti.
È per questo che nell'America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell'industria petrolifera con quelli dell'industria bellica - combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington - finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all'interno del paese, in ragione dell'emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie libertà che rendono l'America così particolare.
Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l'aggettivo "codardi", usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura di certi programmi e l'allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni.
L'aver diviso il mondo in maniera - mi pare - "talebana", fra "quelli che stanno con noi e quelli contro di noi", crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l'America ha già sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro.
Il tuo attacco, Oriana - anche a colpi di sputo - alle "cicale" ed agli intellettuali "del dubbio" va in quello stesso senso. Dubitare è una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere togliere l'aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d'aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande. In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace.
Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo "ufficiale" della politica e dell'establishment mediatico, c'è stata una disperante corsa alla ortodossia. È come se l'America ci mettesse già paura. Capita così di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan è un importante simbolo di quell'America che per due volte ci ha salvato. Ma non c'era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam?
Per i politici - me ne rendo conto - è un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor più l'angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici.
Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto "a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia", come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America.
Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore , ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori?
Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa è l'Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l'arabo, oltre ai tanti che già studiano l'inglese e magari il giapponese? Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia. Mi frulla in testa una frase di Toynbee: "Le opere di artisti e letterati hanno vita più lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi assieme".
Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per "gli altri", per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provò una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufragò e lui si salvò a malapena. Ci provò una seconda volta, ma si ammalò prima di arrivare e tornò indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l'assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati ("vide il male ed il peccato"), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraversò le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c'era ancora la Cnn - era il 1219 - perché sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell'incontro. Certo fu particolarissimo perché, dopo una chiacchierata che probabilmente andò avanti nella notte, al mattino il Sultano lasciò che San Francesco tornasse, incolume, all'accampamento dei crociati.
Mi diverte pensare che l'uno disse all'altro le sue ragioni, che San Francesco parlò di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d'accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: "Ama il prossimo tuo come te stesso". Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressività e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia.
Ma oggi? Non fermarla può voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all'orrore dell'olocausto atomico pose una bella domanda: "La sindrome da fine del mondo, l'alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l'uomo più umano?". A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere "No". Ma non possiamo rinunciare alla speranza.
"Mi dica, che cosa spinge l'uomo alla guerra?", chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. "È possibile dirigere l'evoluzione psichica dell'uomo in modo che egli diventi più capace di resistere alla psicosi dell'odio e della distruzione?" Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c'era da sperare: l'influsso di due fattori - un atteggiamento più civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire.
Giusto in tempo la morte risparmiò a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Non li risparmiò invece ad Einstein, che divenne però sempre più convinto della necessità del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all'umanità un ultimo appello per la sua sopravvivenza: "Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto".
Per difendersi, Oriana, non c'è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c'è bisogno d'ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni. M'è sempre piaciuta nei Jataka , le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha già i poteri della preveggenza, "vede" che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell'acqua ad affogare per salvare gli altri.
Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell'incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden?
"Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate", scrive in questi giorni dall'India agli americani, ovviamente a mo' di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose : una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell'esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse sì.
L'immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del "nemico" da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell'Afghanistan, ordina l'attacco alle Torri Gemelle; è l'ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla.
Dobbiamo però accettare che per altri il "terrorista" possa essere l'uomo d'affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il riso, muoiono di fame?
Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sarà difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare.
I governi occidentali oggi sono uniti nell'essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti. Molto meno convinti però sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio è diffuso così come è diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra. "Dateci qualcosa di più carino del capitalismo", diceva il cartello di un dimostrante in Germania. "Un mondo giusto non è mai NATO", c'era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Già. Un mondo "più giusto" è forse quel che noi tutti, ora più che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalità ed ispirato ad un po' più di moralità.
La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perché ora tornano comodi, è solo l'ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi. Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalità internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese più reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato né il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, né il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche
L'interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l'utilità del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sarà presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i "lavoretti sporchi" di liquidare qua e là nel mondo le persone che la Cia stessa metterà sulla sua lista nera. Eppure un giorno la politica dovrà ricongiungersi con l'etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze.
A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa città mi fa male e mi intristisce. Tutto è cambiato, tutto è involgarito. Ma la colpa non è dell'Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una città bottegaia, prostituita al turismo! È successo dappertutto. Firenze era bella quando era più piccola e più povera. Ora è un obbrobrio, ma non perché i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perché i filippini si riuniscono il giovedì in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione. È così perché anche Firenze s'è "globalizzata", perché non ha resistito all'assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato.
Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso è scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch'io non mi ci ritrovo più.
Per questo sto, anch'io ritirato, in una sorta di baita nell'Himalaya indiana dinanzi alle più divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo. La natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d'erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia.
Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte.

Da "Il Corriere della Sera", 08/10/2001





2- Il soldato di ventura e il medico afghano


PESHAWAR - Sono venuto in questa città di frontiera per essere più vicino alla guerra, per cercare di vederla coi miei occhi, di farmene una ragione; ma, come fossi saltato nella minestra per sapere se è salata o meno, ora ho l'impressione di affogarci dentro. Mi sento andare a fondo nel mare di follia umana che, con questa guerra, sembra non avere più limiti. Passano i giorni, ma non mi scrollo di dosso l'angoscia: l'angoscia di prevedere quel che succederà e di non poterlo evitare, l'angoscia di essere un rappresentante della più moderna, più ricca, più sofisticata civiltà del mondo ora impegnata a bombardare il Paese più primitivo e più povero della Terra; l'angoscia di appartenere alla razza più grassa e più sazia ora impegnata ad aggiungere nuovo dolore e miseria al già stracarico fardello di disperazione della gente più magra e più affamata del pianeta. C'è qualcosa di immorale, di sacrilego, ma anche di stupido - mi pare - in tutto questo. A tre settimane dall'inizio dei bombardamenti anglo-americani dell'Afghanistan la situazione mondiale è molto più tesa ed esplosiva di quanto lo fosse prima. I rapporti fra israeliani e palestinesi sono in fiamme, quelli fra Pakistan e India sono sul punto di rottura; l'intero mondo islamico è in agitazione e ogni regime moderato di quel mondo, dall'Egitto all'Uzbekistan, al Pakistan stesso, subisce la montante pressione dei gruppi fondamentalisti.
Nonostante tutti i missili, le bombe e le operazioni segretissime dei commandos , mostrateci in piccoli spezzoni del Pentagono, come per farci credere che la guerra è solo un videogame, i talebani sono ancora saldamente al potere, la simpatia nei loro confronti cresce all'interno dell'Afghanistan, mentre diminuisce invece in ogni angolo del mondo il senso della nostra sicurezza.
"Sei musulmano?", mi chiede un giovane quando mi fermo al bazar a mangiare una focaccia di pane azzimo.
"No".
"Allora che ci fai qui? Presto vi ammazzeremo tutti".
Attorno tutti ridono. Sorrido anch'io.
Lo chiamano Kissa Qani, il "bazar dei raccontastorie". Ancora una ventina d'anni fa, era uno degli ultimi, romantici crocevia dell'Asia pieno delle più varie mercanzie e varie genti. Ora è una sorta di camera a gas con l'aria irrespirabile per le esalazioni e le folle sempre più in mal arnese a causa dei tantissimi rifugiati e mendicanti. Fra le vecchie storie che ci si raccontavano c'era quella di Avitabile, un napoletano soldato di ventura arrivato qui a metà dell'Ottocento con un amico di Modena e diventato governatore di questa città. Per tenerla in pugno, ogni mattina all'ora di colazione faceva impiccare un paio di ladri dal minareto più alto della moschea e per decenni ai bambini di Peshawar è stato detto: "Se non sei buono, ti do ad Avitabile". Oggi le storie che si raccontano al bazar sono tutte sulla guerra americana.
Alcune, come quella secondo cui l'attacco a New York e Washington è stato opera dei servizi segreti di Tel Aviv - per questo nessun israeliano sarebbe andato a lavorare nelle Torri Gemelle l'11 settembre -, e quella secondo cui l'antrace per posta è una operazione della Cia per preparare psicologicamente gli americani a bombardare Saddam Hussein, sono già vecchie, ma continuano a circolare e soprattutto a essere credute. L'ultima è che gli americani si sarebbero resi conto che con le bombe non riescono a piegare l'Afghanistan e hanno ora deciso di lanciare sacchi pieni di dollari sulla gente. "Ogni missile costa due milioni di dollari. Ne hanno già tirati più di cento. Pensa: se avessero dato a noi tutti quei soldi, i talebani non sarebbero più al potere", dice un vecchio rifugiato afghano, ex comandante di un gruppo di mujaheddin anti-sovietici, venuto a sedersi accanto a me.
L'idea che gli americani son pieni di soldi e disposti a essere generosi con chi sia disposto a schierarsi dalla loro parte è diffusissima. Giorni fa alcune centinaia di capi religiosi e tribali della comunità afghana in esilio si sono riuniti in un grande anfiteatro nel centro di Peshawar per discutere del futuro dell'Afghanistan "dopo i talebani". Per ore e ore dei bei, barbutissimi signori - ottimi per i primi piani delle televisioni occidentali - si sono avvicendati al microfono a parlare di "pace e unità", ma nei loro discorsi non c'era alcuna passione, non c'era alcuna convinzione. "Son qui solo per registrare il loro nome e cercare di raccogliere fondi americani", diceva un vecchio amico, un intellettuale pakistano, di origine pashtun come quella gente. "Ognuno guarda l'altro chiedendosi "e tu quanto hai già avuto?". Quel che gli americani dimenticano è un nostro vecchio proverbio: un afghano si affitta, ma non si compra".
Per gli americani la riunione di Peshawar era il primo importante passo per quella che, sulla carta, pareva loro la ideale soluzione politica del problema afghano: far tornare il re Zahir Shah, installare a Kabul un governo in cui tutti fossero rappresentati - compresi alcuni capi talebani moderati - e mandare l'esercito del nuovo regime a caccia degli uomini di Al Qaeda, risparmiando così il lavoro e i rischi ai soldati della coalizione.
Ma le soluzioni sulla carta non sempre funzionano sul terreno, specie quando questo terreno è l'Afghanistan.
Già l'idea che il vecchio re del passato, in esilio a Roma da trent'anni, possa ora giocare un ruolo nel futuro del paese è una illusione di chi crede di poter rifare il mondo a tavolino, è una pretesa di quei diplomatici che non escono dalle loro stanze ad aria condizionata. Basta andare fra la gente per rendersi conto che il vecchio sovrano non gode di quel prestigio che le cancellerie occidentali - specie quella italiana - gli attribuiscono e che il suo non essersi mai fatto vedere, il suo non aver mai visitato un campo di rifugiati viene preso come una indicazione di indifferenza per la sofferenza del suo popolo. "Bastava che al tempo dell'invasione sovietica si fosse fatto fotografare con un fucile in mano ed avesse sparato un colpo in aria. Oggi lo rispetterebbero - dice l'amico - ... e poi, poteva almeno l'anno scorso essere andato in pellegrinaggio alla Mecca, il che, coi tempi che corrono, gli avrebbe dato un po' di rilievo anche dal punto di vista religioso".
A parte il re, l'altro uomo su cui gli americani contavano per il loro gioco era Abdul Haq, uno dei più prestigiosi comandanti della resistenza anti-sovietica, tenutosi poi fuori dalla guerra civile che seguì. "Non è qui. E' andato in Afghanistan" si diceva durante la conferenza di Peshawar, alludendo ad una "missione" che sarebbe stata decisiva per il futuro. L'idea ovvia era che Abdul Haq, col suo prestigio e il suo grande ascendente sui tanti vecchi mujaheddin alleatisi coi talebani, avrebbe staccato dal regime del Mullah Omar alcuni comandanti regionali e avrebbe potuto marciare su Kabul alla testa di gruppi pashtun quando la capitale fosse stata presa dalla Alleanza del Nord, che i pashtun ed i pakistani non vogliono assolutamente vedere al potere
La "missione" di Abdul Haq non è durata a lungo. I talebani lo hanno seguito appena quello è entrato in Afghanistan, dopo alcuni giorni lo hanno catturato e nel giro di poche ore lo hanno giustiziato come un "traditore" assieme a due suoi seguaci. Gli americani con tutta la loro attrezzatura elettronica ed i loro super-elicotteri non sono riusciti a salvarlo.
Il presupposto di tutta questa manovra americana per una soluzione politica era comunque che il regime dei talebani si sfaldasse, che sotto la pressione delle bombe cominciassero le defezioni e che nel paese si creasse un vuoto di potere. Ma tutto questo non è successo. Anzi. Ogni indicazione è che i talebani sono ancora fermamente in carica. Catturano giornalisti occidentali che si avventurano oltre la frontiera e fanno sapere, per scoraggiare altri tentativi, di non avere più spazio, né cibo per detenerne altri. "Le varie inchieste sono in corso. Verranno tutti giudicati secondo la sharia, la legge coranica", dicono, come farebbe un qualsiasi stato sovrano. I talebani passano decreti, fanno comunicati per smentire notizie false e continuano a sfidare la strapotenza americana non cedendo terreno e promettendo morte agli afghani che si schierano con il nemico.
Non solo. Il fatto che i talebani siano ora attaccati da degli stranieri, fa sì che anche chi aveva poca o nessuna simpatia per il loro regime, ora si schiera dalla loro parte. "Quando un melone vede un altro melone, ne prende il colore", dicono i pashtun. Dinanzi agli stranieri, visti di nuovo come invasori, gli afghani diventano sempre più dello stesso colore.
Per gli americani, già sotto enorme pressione internazionale per la stupidità delle loro bombe intelligenti che continuano a cadere su gente inerme e di nuovo sui magazzini della Croce Rossa, la guerra aerea s'è rivelata un completo fallimento, quella politica uno smacco.
Avevano cominciato la campagna afghana dicendo di volere Osama Bin Laden, "vivo o morto", e hanno presto ripiegato sul voler catturare o uccidere il Mullah Omar, capo dei talebani, sperando che questo avrebbe fatto vacillare il regime, ma finora quel che son riusciti a fare, oltre a qualche centinaio di vittime civili, è terrorizzare la popolazione delle città già ridotte a macerie. Le Nazioni Unite calcolano che le bombe hanno fatto fuggire da Kandahar, Kabul e Jalalabad il 75% degli abitanti.
Questo vuol dire che almeno un milione e mezzo di persone sono ora senza tetto, si aggirano nelle montagne del paese e si aggiungono ai sei milioni che, sempre secondo le Nazioni Unite, erano già "a rischio" per mancanza di cibo e protezione prima dell'11 settembre.
"Quelli sono gli innocenti di cui dobbiamo occuparci - dice un funzionario internazionale -. Quelli che non hanno nulla a che fare col terrorismo, quelli che non leggono i giornali, che non guardano la Cnn. Molti di loro non sanno neppure che cosa è successo alle Torri Gemelle".
Quel che tutti sanno invece è che bombe, le bombe che giorno e notte distruggono, uccidono e scuotono la terra come in un costante terremoto, le bombe sganciate dagli aerei d'argento che piroettano nel cielo di lapislazzulo dell'Afghanistan, sono bombe inglesi e americane e questo coagula l'odio dei pashtun, degli afghani e più in generale dei musulmani contro gli stranieri. Ogni giorno di più l'ostilità è ovvia sulla faccia della gente.
Ero andato al bazar perché volevo vedere quanti avrebbero partecipato alla manifestazione pro-talebani che si tiene di routine nella vecchia Peshawar dopo la preghiera di mezzo giorno, ma l'amico pashtun mi aveva avvertito che il numero dei dimostranti non vuol dire ormai nulla. "I duri non marciano più, si arruolano. Vai nei villaggi", m'aveva detto.
L'ho fatto e per un giorno e una notte, in compagnia di due studenti universitari che in quella regione sembrava conoscessero tutti e tutto, ho gettato uno sguardo su un mondo la cui distanza dal nostro non è misurabile in chilometri, ma in secoli: un mondo che dobbiamo capire a fondo se vogliamo evitare la catastrofe che ci sta davanti.
La regione in cui sono stato è a due ore di macchina da Peshawar, a mezza strada dal confine afghano-pakistano. Per le popolazioni di qui la frontiera - anche quella stabilita a tavolino oltre cento anni fa da un funzionario inglese - non esiste.
Dall'una e dall'altra parte di quella innaturale divisione politica fra identiche montagne vive un'identica gente: i pashtun (detti anche pathan) che in Afghanistan sono la maggioranza, in Pakistan una minoranza. I pashtun, prima che afghani o pakistani, si sentono pashtun e il sogno di un Pashtunstan, uno stato che aggreghi tutti i pashtun non è mai completamente tramontato. I pashtun sono i temuti guerrieri dell'Afghanistan; sono loro che gli inglesi non riuscirono mai a sconfiggere. "Un pashtun ama il suo fucile più di suo figlio - dicevano dei loro nemici gli ufficiali di Sua Maestà -. Coraggiosi come leoni, selvaggi come gatti, ingenui come bambini". I talebani sono pashtun e quasi esclusivamente pashtun sono le zone in cui ora cadono le bombe americane. "Mio padre è sempre stato un liberale e un moderato, ma dopo i bombardamenti anche lui parla come un talebano e sostiene che non c'è alternativa alla jihad", diceva uno dei miei studenti, mentre lasciavamo Peshawar.
La strada correva fra piantagioni di canna da zucchero. In lontananza le prime montagne. Sui muri bianchi che dividono i campi, spiccavano grandi slogan dipinti di fresco. "La jihad è il dovere della nazione", "Un amico degli americani è un traditore", "La jihad durerà fino al giorno del giudizio". Il più strano era: "Il profeta ha ordinato la jihad contro l'India e l'America".
Nessuno qui si chiede se al tempo del Profeta, mille e quattrocento anni fa, l'India e l'America esistessero già. Ma è appunto questa accecante mistura di ignoranza e di fede a essere esplosiva ed a creare, attraverso la più semplicistica e fondamentalista versione dell'Islam, quella devozione alla guerra e alla morte con cui abbiamo deciso, forse un po' troppo avventatamente, di venirci a confrontare.
"Quando uno dei nostri salta su una mina o viene dilaniato da una bomba, prendiamo i pezzi che restano, i brandelli di carne, le ossa rotte, mettiamo tutto nella stoffa di un turbante e seppelliamo quel fagotto lì, nella terra. Noi sappiamo morire, ma gli americani? Gli inglesi? Sanno morire così?". Dal fondo della stanza un altro uomo barbuto, ricordandosi da dove, presentandomi, ho detto di venire, apre un giornale in Urdu e ad alta voce legge una breve notizia in cui si dice che anche l'Italia si è offerta di mandare navi e soldati e il mio interlocutore personalizza la sua sfida: "...e voi italiani allora? Siete pronti a morire così? Perché anche voi venite qui a uccidere la nostra gente, a distruggere le nostre moschee? Che direste se noi venissimo a distruggere le vostre chiese, se venissimo a radere al suolo il vostro Vaticano?". Siamo in una sorta di rudimentalissimo ambulatorio in un villaggio a qualche decina di chilometri dal confine afghano. Negli scaffali polverosi ci sono delle polverose medicine; al muro una bandiera verde e nera con al centro un sole in cui è scritto "Jihad". Attorno al "dottore" che mi parla si sono riuniti una decina di giovani: alcuni sono veterani della guerra, altri ci stanno per andare. Uno è appena tornato dal fronte e racconta dei bombardamenti.
Dice che gli americani sono codardi perché sparano dal cielo, scappano e non osano combattere faccia a faccia. Dice che il Pakistan impedisce ai profughi di entrare nel paese e che tanti civili, feriti nei bombardamenti di Jalalabad, muoiono ora dall'altra parte del confine per mancanza delle più semplici cure.
L'atmosfera è tesa. Qui, ancora più che al bazar, tutti sono assolutamente convinti che quella in corso è una grande congiura-crociata dell'Occidente per distruggere l'Islam, che l'Afghanistan è solo il primo obbiettivo e che l'unico modo di resistere è per tutto il mondo islamico di rispondere all'appello per la guerra santa. "Vengano pure gli americani, così ci potremo procurare delle buone scarpe, togliendole ai cadaveri - dice uno dei giovani - a voi la guerra costa tantissimo. A noi nulla. Non sconfiggerete mai l'Islam".
Come non rendersi conto che per combattere il terrorismo siamo venuti a uccidere innanzitutto degli innocenti e con ciò ad aizzare ancor più un cane che giaceva? Come non vedere che abbiamo fatto un passo nella direzione sbagliata, che siamo entrati in una palude di sabbie mobili e che con ogni altro passo finiremo solo per allontanarci sempre di più dalla via di uscita? Dopo la conversazione con i fanatici della jihad, quella fra me e me è continuata per il resto della notte, passata insonne a tenermi lontano le zanzare. Certo che non è invidiabile una società come quella che produce dei ragazzi così ottusi e disposti a morire. Ma lo è forse la nostra? Lo è quella americana? Che accanto agli eroici pompieri di Manhattan, produce anche gente come il bombarolo di Oklahoma City, gli attentatori alle cliniche abortiste e forse anche quelli che - il sospetto cresce - mettono l'antrace nelle buste spedite a mezzo mondo? Quella su cui avevo appena gettato uno sguardo era una società carica d'odio. Ma è da meno la nostra che ora, per vendetta o magari davvero per mettere le mani sulle riserve naturali dell'Asia Centrale, bombarda un paese che vent'anni di guerra han già ridotto ad una immensa rovina? Possibile che per proteggere il nostro modo di vivere, si debbano fare milioni di rifugiati, si debbano far morire donne e bambini? Per favore, vuole spiegarmi qualcuno esperto in definizioni, che differenza c'è fra l'innocenza di un bambino morto nel World Trade Center e quella di uno morto sotto le bombe a Kabul? La verità è che quelli di New York, sono i "nostri" bambini, quelli di Kabul invece, come gli altri centomila bambini afgani che, secondo l'Unicef, moriranno quest'inverno se non arrivano subito dei rifornimenti, sono i bambini "loro". E quei bambini loro non ci interessano più. Non si può ogni sera, all'ora di cena, vedere sullo schermo della tv di casa un piccolo moccioso afghano che aspetta di avere una pagnotta. Lo si è già visto tante volte; non fa più spettacolo. Anche a questa guerra ci siamo già abituati. Non fa più notizia e i giornali richiamano i loro corrispondenti, le televisioni riducono i loro staff, tagliano sui collegamenti via satellite dai tetti degli alberghi a cinque stelle di Islamabad. Il circo va altrove, cerca altre storie, l'attenzione è già stata anche troppa.
Eppure l'Afghanistan ci perseguiterà perché è la cartina di tornasole della nostra immoralità, delle nostre pretese di civiltà, della nostra incapacità di capire che la violenza genera solo violenza e che solo una forza di pace e non la forza della armi può risolvere il problema che ci sta dinanzi.
"Le guerre cominciano nella mente degli uomini ed è nella mente degli uomini che bisogna costruire la difesa della pace", dice il preambolo della costituzione dell'Unesco. Perché non provare a cercare nelle nostre menti una soluzione che non sia quella brutale e banale di altre bombe e di altri morti? Abbiamo sviluppato una grande conoscenza, ma non appunto quella della nostra mente, e ancor meno quella della nostra coscienza, mi dicevo insonne tentando sempre di scacciare le zanzare.
La notte è fortunatamente breve. Alle quattro la voce metallica di un altoparlante comincia a salmodiare dall'alto di un minareto vicino; altre rispondono in lontananza. Partiamo.
Nella hall dell'albergo dove arrivo a fare colazione è già accesa la televisione. La prima notizia, all'alba, non è più la guerra in Afghanistan, ma l'annuncio fatto a Washington del "più grande contratto di forniture belliche nella storia del mondo".
Il Pentagono ha deciso di affidare alla Lockheed Martin la costruzione della nuova generazione di sofisticatissimi aerei da caccia: 3.000 pezzi per un valore iniziale di 200 miliardi di dollari. Gli aerei entreranno in funzione nel 2012.
Per bombardare chi? Mi chiedo. Penso ai ragazzini della madrassa che nel 2012 avranno giusto vent'anni e mi torna in mente una frase dell'invasato "dottore": "Se gli americani vogliono combatterci per quattro anni, noi siamo pronti, se vogliono farlo per 40 anni siamo pronti. Per 400, siamo pronti".
E noi ? Questo è davvero il momento di capire che la storia si ripete e che ogni volta il prezzo sale.

Da "Il Corriere della Sera", 31/10/2001



3- Il profeta guerriero e quel tè nel bazar


QUETTA (Pakistan) - Scrivo queste righe da una modesta locanda affacciata sul grande bazar della città dove una medioevale folla di uomini barbuti e inturbantati, avvolti nella moderna foschia azzurrognola delle esalazioni di autobus e motorini, si mescola a ciuchi, cavalli, barrocci e carretti. La frontiera afgana è a un centinaio di chilometri e questa città, acquattata in una conca di spigolose, brulle mon tagne grigio-rosa, è una delle spiagge sulle quali si abbattono le onde della guerra vicina lasciandosi dietro i soliti resti umani del naufragio: i profughi, gli orfani, i feriti, i mendicanti.

Non si fanno due passi senza essere accostati da mani s carne e supplicanti, da sguardi vuoti di donne dietro il burqa. Sono riuscito a trovare una camera qui perché il «turista» americano che la occupava è partito una mattina per l' Afghanistan e non è più tornato. La prima versione della sua scomparsa è stata che i talebani lo avevano arrestato e impiccato come agente Cia. Un'altra che è stato ucciso in uno scontro a fuoco.

I talebani hanno semplicemente detto che il cadavere e ra all' ospedale di Kandahar e chi voleva poteva andare a prenderselo. Nessuno l'ha fatto e il padrone della locanda ha riaffittato la stanza. Secondo lui l'americano si faceva chiamare maggiore, parlava una paio di lingue locali e mostrava bei rotoli di dollari. Chi sa chi era davvero e come sono andate le cose. Anc he di una piccola storia così è ormai diventato impossibile stabilire i fatti.

Già, i fatti. Tutta la vita ci son corso dietro convinto che lì - nei fatti accertati e sicuri - avrei trovato una qualche verità. Ora, a 63 anni, dinanzi a questa guerra appena cominciata e con l' inquietante presentimento di quel che seguirà, mi pare che i fatti sono solo un' apparenza e che la verità dentro di loro è al massimo come una bambola russa: appena la si apre se ne trova una più piccola ed ancora una più piccola, ed ancora una più piccola fino a che si resta con un minuscolo seme.

Frastornati dai dettagli di tanti fatti perdiamo sempre di più il senso dell' insieme. A che serve essere informati ora per ora sulla caduta di Mazar-i-Sharif e di Kabul qu ando queste ci sono presentate come «vittorie» e non ci rendiamo conto che, come umanità, stiamo comunque subendo alcune terribili sconfitte: quella di ricorrere ancora alla guerra come soluzione dei conflitti e quella di rifiutare la nonviolenza com e la più grande prova di forza.

E' un vecchio detto che in tutte le guerre la verità è la prima a morire. In questa, la verità non ha fatto neppure in tempo a nascere. Spie, informatori, millantatori e mestatori pullulano ormai ovunque, specie in una città di frontiera come questa, ma il loro ruolo è diventato marginale. Quelli che davvero contano in questa guerra sono gli spin doctor, gli esperti in comunicazioni, gli addetti alle pubbliche relazioni. Sono loro ad offuscare il fondo di inutilit à di questa guerra e ad impedire così all' opinione pubblica del mondo, specie quella dell' Europa, di prendere una posizione morale e creativa in proposito.

Un gruppo di questi scienziati-illusionisti è appena venuto da Washington a stabilirsi ad Is lamabad per «gestire» le centinaia di giornalisti stranieri ora in Pakistan; un superesperto del ristretto gruppo che fino a ieri lavorava alla Casa Bianca è andato a stabilirsi al numero 10 di Downing Street per aiutare Tony Blair nel suo ruolo di imbonitore americano, quasi fosse lui e non Colin Powell il Segretario di Stato. La verità di questa guerra sembra essere così indicibile che ha costantemente bisogno di essere impacchettata, di essere «gestita», di essere oggetto di una astuta campag na di marketing. Ma così è diventato il nostro mondo: la pubblicità ha preso il posto della letteratura, gli slogan ci colpiscono ormai più della poesia e dei suoi versi.

L'unico modo di resistere è ostinarsi a pensare con la propria testa e sopratt utto a sentire col proprio cuore. Due settimane fa ho lasciato Peshawar ed in compagnia dei miei due studenti di medicina, incontrati per caso, mi son messo in viaggio per il Pakistan. L'idea era di prendere la temperatura di questo «paese dei puri» (questo vuol dire Pakistan), nato nel 1947 dalla spartizione dell' Impero inglese in India per dare una patria ai musulmani, ed ora in prima linea di un conflitto in cui una delle tante poste è la sua stessa sopravvivenza.

L'idea era di vedere da v icino le conseguenze della guerra in Afghanistan di cui gli americani continuano a dire che «è solo la prima fase», per capire cosa succederà al resto del mondo - il nostro mondo, il mondo di tutti - quando questa guerra da qui si sposterà verosimilm ente in Iraq, in Somalia, in Sudan, forse in Siria, in Libano e chi sa ancora dove. Sono più di 60 i paesi in cui, secondo Washington, si annidano i terroristi e chi non collaborerà con gli Stati Uniti a snidarli sarà considerato un nemico. Possibile che in Europa si siano levate così poche voci contro questa rigidità, quasi suicida, dell'America? Possibile che l'Europa sia stata, dopo la verità, l'altra grande vittima di questa guerra?

In questo viaggio, per evitare la trappola dei percorsi obbligati, predisposti dagli imbonitori, e quella degli alberghi di lusso, ormai tutti adibiti a tenere occupata la «stampa internazionale» con le quotidiane conferenze stampa, i comunicati e le interpretazioni di ex ministri e generali in pensione, abbiamo deciso di star lontani da tutto ciò che è ufficiale e di seguire la logica di quell' unico filo che a volte può essere davvero magico: il caso.

Così, passando da un incontro casuale a un altro, abbiamo fatto centinaia di chilometri da un ango lo all' altro del paese, abbiamo parlato con decine di persone, abbiamo assistito al più grande raduno di musulmani del mondo - se si esclude quello dei pellegrini alla Mecca - ed alla fine abbiamo provocato un ordine di arresto nei nostri confronti da parte del ministro degli Interni del Baluchistan che ha sguinzagliato i suoi commando, per venirci a ripescare nella cittadina di Chaman, sulla linea di confine con l'Afghanistan, dove c'eravamo illusi di passare, inosservati, la notte.

Il tutto è cominciato in una casa da tè di quell' affascinante centro della vecchia Peshawar che ancora è il Bazar dei racconta-storie. Seduto, accanto a noi, sulla stuoia di paglia lisa e polverosa a bere kawa - un infuso di foglie non fermentate - da picco li bricchi smaltati, neri di sporco e di ammaccature, stava un uomo sui trent'anni con una barba foltissima e lo sguardo stranamente dolce e fermo. Ci siamo guardati; ci siamo parlati ed il pomeriggio è passato in un soffio con tutti gli altri avven tori presto in cerchio a seguire, coinvoltissimi, la nostra conversazione.

Non so se tutto quel che Abu Hanifah mi ha raccontato era vero, ma, da una serie di controlli fatti poi con l'aiuto dei miei studenti, penso lo fosse. Diceva di essere nato « 35 o 37 anni fa» nella provincia di Ghazni in Afghanistan, di essere il comandante di 250 talebani, di aver combattuto contro gli indiani in Kashmir, di essere stato richiamato in Afghanistan dopo l'inizio dei bombardamenti e di essere arrivato la s era prima in Pakistan con un piccolo gruppo dei suoi per una missione.

Gli ho chiesto tutto quel che uno vorrebbe sapere dei talebani e le sue risposte erano pronte, precise e politicamente informate come quelle un tempo di un commissario politico cinese o vietcong. Diceva che le bombe e i missili non fanno loro paura («i gusci dei Cruise già vengono usati per fare dei minareti»), che la guerra comincerà sul serio solo quando le truppe americane scenderanno a terra e che i talebani non potranno mai essere completamente eliminati dall'Afghanistan perché «taleb vuol dire uno che ha studiato in una madrassa e in ogni famiglia afghana c'è ormai uno come me».

Diceva che anche la possibile morte del mullah Omar, ora il capo dei talebani, non ca mbierà nulla; il consiglio supremo dai saggi, la Shura, «è fatta di mille mullah Omar ed ognuno di loro può succedergli». Diceva che ogni città, ogni villaggio ha una struttura locale che rappresenta la Shura e che quella resterà in piedi e sarà la v era autorità per la popolazione anche quando i talebani, in certe fasi della guerra, dovessero essere costretti a cedere terreno ai nemici per poi tornare ad attaccarli. Forse si illudeva, ma sembrava convintissimo.

L'impressione che ho avuto di quell'uomo non era quella di un fanatico ignorante, imbevuto di superstizione come i giovani jihadi che avevo incontrato nei villaggi fuori Peshawar. Quelli credevano che le bombe americane sarebbero state fermate da miracolose mani che al momento gius to apparivano in cielo. Erano ottusi, indottrinati all'odio. Lui no. Sapeva che le armi degli americani sono «formidabili», ma diceva che alla fine dei conti l'arma più potente è quella della fede. Era riflessivo, informato sulle cose del mondo, co sciente. Più che un miliziano, mi pareva un monaco d'un ordine combattente, come da noi un tempo, forse, erano i Templari.

Ho chiesto a Abu Hanifah come era possibile per lui andare e venire in Pakistan, un paese prima legatissimo ai talebani, ma or a schierato contro di loro ed alleato degli Stati Uniti. Come era possibile per lui, ora «il nemico» della guerra contro il terrorismo essere lì, in una città pakistana, a prendere apertamente il tè con me? Ha riso lui ed han riso tutti quelli che av evamo attorno. Questa è la realtà: nonostante l' ufficiale rovesciamento di fronte e la drammatica presa di posizione del generale Musharraf a favore di Washington, il Pakistan resta nel fondo estremamente ambivalente nei confronti della guerra.

Il governo di Islamabad sa che i pashtun, sia quelli che vivono in Afghanistan sia quelli che vivono in Pakistan, si considerano una unica nazione e che il rischio di antagonizzarli è una guerra civile lungo i duemila chilometri della frontiera. Il rischio crescerà se l'Afghanistan verrà praticamente diviso in due con l'Alleanza del Nord in controllo di Kabul e delle regioni settentrionali, comunque abitate da non-pashtun, ed i talebani in controllo del Sud. Islamabad sa che, nonostante le recenti epurazioni volute da Washington, l'intero apparato statale pakistano, specie quello delle Forze Armate, è pieno di elementi che coi talebani sono legati a doppio filo: li hanno concepiti, li hanno tenuti a battesimo e ne condividono l'ideologia e la fede religiosa.

Non è certo un caso che la notte stessa in cui il generale Musharraf, su pressione degli americani, annunciò la rimozione del capo dei suoi servizi segreti, un incendio distrusse tutti i dossier riguardanti i talebani, le storie de i loro capi, le carte delle loro postazioni, delle loro caverne. Se gli americani avessero messo le mani su quei documenti la loro caccia a Osama Bin Laden ed al mullah Omar sarebbe stata molto più semplice. Inoltre Musharraf sa che la guerra america na in Afghanistan ha creato una grande simpatia per i talebani e che il mito di Bin Laden, «eroe dei poveri oppressi», «simbolo della rivolta musulmana contro l'arroganza della superpotenza infedele», si sta diffondendo fra le masse e potrebbe rivol gersi in ogni momento contro di lui, già descritto dai fondamentalisti come un kaffir, un infedele, uno che «mangia dollari americani». Il semplice fatto di aver sfidato gli Stati Uniti fa di Bin Laden un eroe popolare.

Dovunque sono stato in queste due settimane ho visto i suoi poster nelle rivendite dei giornali, la sua faccia sul retro degli autobus, dei trisciò, sui vetri delle macchine private, appiccicata ai carretti dei gelatai ambulanti. Le cassette coi suoi discorsi sono in tutti i baza r. Persino nei circoli della borghesia più agiata, quella che manda i figli a studiare in America, che ha legami economici con gli Stati Uniti e che appoggia il presidente Musharraf perché, «con la pistola americana puntata alla testa, non aveva altr a scelta», ho sentito espressioni di odio anti-americano inconcepibili solo alcuni mesi fa. «Ormai c' è un piccolo Osama in ognuno di noi», mi spiegava, senza alcuna ironia, una elegante, ingioiellata signora della buona società di Lahore, durante un a cena. Era stato Abu Hanifah a farmi andare a Lahore. Mi aveva spiegato che la sua «missione» in Pakistan era di partecipare all' annuale riunione dei tablighi jamat e così l' ho seguito. Impressionante.

A 30 chilometri da Lahore, in una piana chiam ata Raiwind, per tre giorni, oltre un milione di uomini (non ho visto una singola donna) venuti da ogni angolo del Pakistan e da varie parti del mondo si sono ritrovati all' ombra di immensi teloni bianchi; assieme, in una costante nuvola di polvere gialla sollevata dal vento, hanno pregato cinque volte al giorno, hanno ascoltato i discorsi degli anziani ed hanno riaffermato quell' incredibile legame di fratellanza musulmana che per noi occidentali è a volte difficile da capire, abituati come si amo a pensare sempre più al «mio» e sempre meno al «nostro».

I tablighi sono una strana, disciplinata e potente organizzazione. Formalmente sono dei missionari islamici dedicati non alla conversione degli infedeli, ma alla riforma in senso spirituale dei musulmani «caduti sotto l'influsso del materialismo occidentale». Ogni membro dell' organizzazione dedica, gratuitamente, quattro mesi all' anno a quest'opera di missione. A piccoli gruppi, senza mai leggere i giornali e mai guardare la televi sione per non distrarsi, viaggiano nel paese, vivono nei villaggi più remoti e re-insegnano alla gente «la originaria via di Allah».

Con questo hanno una estesa rete di contatti ed una grande influenza, non solo in Pakistan, ma ormai in varie parti d el mondo in cui sono presenti. Il loro segreto è che restano nell' ombra. I tablighi non cercano pubblicità, non vogliono che si scriva di loro, non permettono di essere fotografati, filmati ed i loro capi non danno interviste. I tablighi sostengono di essere per la nonviolenza, di non voler fare politica e non vanno per questo confusi coi fondamentalisti dei partiti islamici estremisti che qui manifestano contro il governo ed appoggiano apertamente Osama ed i talebani.

Eppure, passando ore ed o re in quella immensa, disciplinata congrega di uomini, tutti col loro berretto bianco o un turbante in testa a snocciolare i loro rosari, mi è parso ovvio che, nonostante tutte le apparenti differenze, c'è fra i tablighi, Osama ed i talebani una obi ettiva coincidenza di interessi ed una implicita solidarietà. E questa va capita perché, per estensione, coinvolge ogni musulmano in ogni parte del mondo. Osama ha innanzitutto un obiettivo politico: la liberazione dei luoghi sacri dell' Islam dalla presenza degli infedeli e dalla dinastia ora regnante, definita da lui corrotta. In altre parole, Osama vorrebbe prendere il potere in Arabia Saudita.

Il suo secondo obiettivo è riportare quel paese, i cui sudditi qui in Pakistan ad esempio sono popo larmente conosciuti come «sesso ed alcool», ad una forma di Islam più puro e spirituale. Siccome vede gli Stati Uniti come i protettori dell'attuale regime saudita ed i corruttori del mondo islamico in genere, Osama ha dichiarato la sua jihad. Con l 'aspetto politico di tutto questo i tablighi hanno poco o nulla a che fare. Molto invece con l' aspetto religioso. Anche loro vogliono tornare ad un Islam più spirituale. Ed in questo simpatizzano di fondo con Osama ed i talebani.

Ma c'è di più. I tablighi, come molti altri elementi non necessariamente fanatici ed estremisti dell' universo islamico, hanno una più generica e più esistenziale aspirazione: quella semplicemente di condurre un' esistenza diversa dalla nostra, di vivere secondo altr i principi, di stare fuori dai meccanismi internazionali che loro vedono dominati da leggi e valori di stampo esclusivamente occidentale.

Da "Il Corriere della Sera", 15/11/2001


4- L’ospedale dei disperati e il talebano con il computer

QUETTA (Pakistan) - Nelle conversazioni con tanti e diversi tipi di musulmani in Pakistan ho notato un continuo riferimento a una sorta di violenza di cui molti dicono ora di sentirsi vittime. La causa? Il confronto con l'Occidente. A torto o a ragione, molti percepiscono la globalizzazione come uno strumento della nostra «civiltà atea e materialistica» che, appunto attraverso l'espansione dei mercati, diventa sempre più ricca e più forte a scapito del loro mondo. Con una certa paranoia anche i musulmani più colti di questo Paese vedono in ogni mossa dell'Occidente, compreso il conferimento del premio Nobel della letteratura a V.S. Naipaul, un attacco all'Islam. Da qui la reazione difensiva e il ricorrere all'Islam come a un rifugio. La religione diventa l'arma ideologica contro la modernità, vista come occidentalizzazione. Per questo anche i moderati come i tablighi, senza voler essere jihadi , finiscono per simpatizzare con i talebani e con Osama.


Questo è il problema che abbiamo dinanzi: un problema che non si risolve con le bombe, che non si risolve andando in giro per il mondo a rovesciare regimi che non ci piacciono per rimpiazzarli con vecchi re in esilio o coalizioni di convenienza messe assieme in qualche lontana capitale.
Osama può anche venir stanato dall'Afghanistan; i talebani possono anche essere sgominati e ridotti ad una forza annidata nelle montagne ad alimentare una nuova guerriglia, ma il problema di fondo resta. Le bombe non fanno che renderlo più virulento.

A noi può parere strano, ma c'è oggi nel mondo un crescente numero di gente che non aspira ad essere come noi, che non insegue i nostri sogni, che non ha le nostre aspettative e i nostri desideri. Un commerciante di tessuti di 60 anni, incontrato al raduno dei missionari tablighi me lo ha detto con grande semplicità: «Non vogliamo vivere come voi, non vogliamo vedere la vostra televisione, i vostri film. Non vogliamo la vostra libertà. Vogliamo che la nostra società sia retta dalla sharia , la legge coranica, che la nostra economia non sia determinata dalla legge del profitto.

Quando io alla fine di una giornata ho già venduto abbastanza per il mio fabbisogno, il prossimo cliente che viene da me, lo mando a comprare dal mio vicino che ho visto non ha venduto nulla», mi ha detto. Mi son guardato attorno. E se tutta quella enorme massa di uomini - l'ultimo giorno si dice fossero un milione e mezzo - la pensasse davvero come lui?

Ero curioso. Nella folla avevo perso le tracce di Abu Hanifah, ed ho chiesto a quel commerciante se potevo andarlo a trovare a casa sua. Mi ha dato l'indirizzo. Veniva da Chaman, una cittadina sulla linea di confine esattamente a mezza strada fra Quetta, capitale del Baluchistan pakistano, e Kandahar, il centro spirituale del Mullah Omar in Afghanistan. Chaman è praticamente chiusa agli stranieri e l'unico modo di andarci è in un convoglio scortato dalla polizia e con un permesso speciale rilasciato a Quetta. È così che sono finito in questa locanda.

Facendo la prima passeggiata per orientarmi, ho scoperto che ero vicino all'ospedale della città dove ogni giorno arrivano i feriti civili dei bombardamenti americani su Kandahar. E lì ho conosciuto «Abdul Wasey, 10 anni, afghano, vittima di missile Cruise, gamba fratturata», come dice un cartello scritto a mano ed attaccato al muro scortecciato dietro il suo letto sporco e polveroso. È pallidissimo e magro come un'acciuga. Un mattone legato con una corda al suo calcagno penzola dal fondo del letto per tenergli immobile la gamba ingessata. L'altra, solo pelle ed ossa, è come il palo di una granata.

Abdul giocava a cricket con i suoi amici in un prato quando sono stati colpiti. Gli altri sette son morti. Il padre l'ha portato qui con un fratello di 14 anni che ora gli tiene compagnia. Lui è tornato in Afghanistan. L'ospedale è pieno. Ogni letto è una storia, ma ho sentito che la mia curiosità non era benvenuta. E poi a che serve saperne di più? A che serve sapere che i missili Cruise che hanno ammazzato gli amici di Abdul, stroncato la gamba a lui e fatto tutti i disgraziati che giacciono immobili e muti in questo sudicio ospedale di provincia, raggiunto come una grande speranza alla fine di una giornata di viaggio, sono caduti dove son caduti a causa di una «errata impostazione del computer»? Quei missili dovremmo semplicemente smettere di produrli.

Il convoglio per Chaman parte da Quetta, a volte sì a volte no, la mattina alle dieci. L'idea è di portare un gruppetto di giornalisti autorizzati al posto di frontiera, farli restare al massimo un paio d'ore e poi riportarli a Quetta. I pakistani non vogliono rendere troppo pubblici i tanti traffici che avvengono a quel confine e si dice che incoraggino i ragazzini dei campi profughi a prendere a sassate i visitatori per tenerli lontani. Odio questo tipo di visite guidate e, appena messo piede a Chaman, coi miei due studenti, ci siamo dileguati. La popolazione era ostile e non ce l'abbiamo fatta a raggiungere la casa del nostro mercante di stoffe. Ci ha salvati una delle piccole ambulanze di Abdul Saddar Edhi, il «santo» di Karachi, che vanno oltre la frontiera a prendere i feriti.

Nel pomeriggio sono riuscito ad incontrare una delegazione di talebani a cui ho consegnato una richiesta di visitare Kandahar il giorno dopo, ma non ho potuto passare la notte a Chaman. La polizia ci ha trovati e, dopo qualche calcio ai miei studenti ed un po' di diplomazia da parte mia, siamo stati rilasciati.

Anche lì il caso ci ha dato una mano. Stavamo tornando a Quetta, seguiti a vista da una jeep carica di commando, quando la nostra macchina, proprio in cima al passo di Khojak, ha forato concedendomi una sosta d'una decina di minuti e con ciò una grandiosa, indimenticabile visione dell'Afghanistan e della assurdità di quel che l'Occidente, con l'America in testa, cerca di farci. Il sole era appena tramontato ed una mezza luna diafana cominciava ad argentarsi nel cielo di pastello sopra una distesa di montagne. A volte rosa, a volte violette o color ocra, brulle, eppure vive, erano come le onde di un oceano congelato dall'eternità.

Su una vetta vicina, una decina di camionisti avevano disteso i loro tappetini da preghiera sulla polvere e come ritagli neri di carta contro quell'immensità si inchinavano ritmicamente verso Occidente, sapendo che altri milioni di musulmani in quello stesso momento facevano nella stessa direzione gli stessi gesti con lo stesso pensiero diretto allo stesso, indescrivibile dio che li tiene tutti uniti in una comunione che a noi ormai sfugge.

Ripensavo alla mia ultima domenica a Firenze, dopo l'11 settembre, quando ho fatto il giro delle chiese giusto per sentire cosa vi si diceva. Niente. Una grande delusione. Da San Miniato, a Santo Spirito, a Santa Maria Novella tutti i sacerdoti leggevano lo stesso passo del Vangelo, tutti facevano gli stessi generici discorsi, senza un solo riferimento alla vita di oggi, ai problemi e alle angosce della gente per quel che sta succedendo nel mondo. Qui in Pakistan ogni venerdì le moschee tuonano, a volte delirano, ma con ciò legano i fedeli, dando loro qualcosa, magari di sbagliato, a cui pensare, a cui dedicarsi. Da noi la Chiesa preferisce ancora tacere, invece che rompere i ranghi dell'ortodossia politica e far sentire con fermezza una sua voce di pace.

Guardavo la sequenza infinita delle montagne scurirsi rapidamente e mi chiedevo come potranno mai gli americani trovare in quel labirinto lunare la caverna in cui si nasconde Osama. Si dice che ce ne siamo almeno 8.000, ognuna con tunnel lunghi a volte chilometri, con varie entrate, con vari livelli. Ed anche se lo trovano? La guerra, così come è stata annunciata, non finirà qui.

Pensata da quel passo fra le montagne l'Europa mi pareva lontanissima, così come sono certo che quel che succede qui pare lontano all'Europa. Eppure non è così. Quel che avviene in Afghanistan è vicinissimo, ci riguarda. Non solo perché la caduta di Kabul è tutt'altro che la soluzione ai problemi dell'Afghanistan, ma perché l'Afghanistan «è solo la prima fase». L'Iraq, la Somalia, il Sudan sono molto più vicini.

Che faremo quando Bush vorrà andare a bombardare là? Abbiamo fatto i conti con i musulmani che vivono fra di noi e che ora possono essere indifferenti alla guerra in Afghanistan, ma meno quando verranno bombardate le loro case? Vogliamo anche noi partecipare alle uccisioni di stile israeliano di tutti quelli che la Cia deciderà di mettere sulle sue liste nere?

Sarebbe molto più saggio - mi pare - che ora l'Europa dissentisse e che, invece di lasciare i suoi vari governi a fare singolarmente la loro parte di «satelliti» di Washington, si esprimesse con una sola voce ed aiutasse, da vera amica ed alleata, l'America a trovare una via d'uscita dalla trappola afghana. Giorni fa un giornale in lingua Urdu argomentava convincentemente che i vari paesi che ora in un modo o in un altro incoraggiano gli americani ad impegnarsi in Afghanistan, in fondo lo fanno sperando che gli americani ci si impantanino e che la loro credibilità di grande potenza venga messa in discussione. Iran, Cina, Russia ed al limite lo stesso Pakistan, hanno buone ragioni di risentimento contro gli Stati Uniti e grandi preoccupazioni per questa nuova presenza militare americana nel cuore dell'Asia Centrale. L'Europa non è in alcun modo in questa posizione.

Allo stesso modo però l'Europa non può essere del tutto indifferente alla possibilità che gli Stati Uniti perseguano, dietro il paravento di questa guerra internazionale al terrorismo, un progetto tutto loro per la realizzazione di un nuovo ordine mondiale che persegua esclusivamente l'interesse nazionale americano.

Il gruppo ora al potere a Washington, formato principalmente da veterani della Guerra Fredda, con in testa il Segretario alla Difesa Rumsfeld, fa pensare che questa tentazione possa essere reale. È quel gruppo, legato fra l'altro agli interessi dell'industria bellica, che ha da sempre contestato i trattati per la limitazione degli armamenti ed ora ne chiede l'abrogazione; è quel gruppo che ha sostenuto la necessità della superiorità nucleare americana ed ha in passato detto che le armi atomiche son fatte per essere usate e non per restare per sempre ferme nei silos.

Con la fine della Guerra Fredda e la scomparsa di una vera minaccia, quell'America ha visto con preoccupazione il ridursi progressivo della spesa militare Usa ed ha fatto di tutto per identificare un nuovo nemico che giustificasse il rottamaggio dei vecchi armamenti e la produzione di tutta una serie di nuovi sistemi bellici «intelligenti» per il campo di battaglia tecnologico del ventunesimo secolo. Un primo candidato a questo ruolo di «nemico» è stata la Corea del Nord, finché non si è scoperto che il paese moriva letteralmente di fame ed era molto improbabile che si mettesse a sfidare la potenza americana. Poi è stata la volta della Cina, ma è risultato difficile sostenere che Pechino potesse minacciare più che l'isola di Taiwan, visto che non ha ancora neppure un bombardiere a lungo raggio. A questo punto è spuntata l'ipotesi dell'Islam, «nemico» contro cui difendersi nell'appena inventato «scontro di civiltà».

Il massacro dell'11 settembre ha reso quel nemico estremamente credibile ed ha permesso all'America di varare tutta una politica che sarebbe stata altrimenti inaccettabile. Il nemico è stato ora identificato nei «terroristi» ed il processo di demonizzazione nei confronti di quelli che Washington definisce tali è cominciato. I primi a farne le spese sono stati i talebani ex mujaheddin ed Osama Bin Laden creature loro stesse, non va dimenticato, dell'America quando questa aveva bisogno di loro per combattere l'Unione Sovietica.

L'Europa non può seguire, senza una pausa di riflessione, l'America su questa strada. L'Europa deve rifarsi alla propria storia, alla propria esperienza di diversità al fine di trovare la forza per un dialogo e non per uno scontro di civiltà.

La grandezza delle culture è anche nella loro permeabilità. Basta non affrontarsi a colpi di aerei carichi di civili innocenti e di bombe sganciate, seppur per sbaglio, su chi non è responsabile di nulla. Anche dei fondamentalisti islamici come i talebani possono, pur a loro modo, cambiare. Fossero stati riconosciuti come il governo legittimo dell'Afghanistan nel 1996 quando presero il potere, forse le statue di Bamyan sarebbero ancora al loro posto e forse ad Osama Bin Laden non sarebbe stato steso il tappeto rosso. Anche i talebani vivono nel mondo e debbono, a loro modo, adattarvisi.

Quando sono andato al consolato afghano di Quetta per sollecitare la mia domanda del visto per Kandahar, il diplomatico talebano che mi ha ricevuto aveva sulla scrivania un bel, moderno computer. Forse guardava in Internet le ultime notizie sul suo paese per indovinare quanto ancora sarebbe rimasto al suo posto, ora che Kabul è caduta.

Tornando alla locanda, mi fermo all'ospedale a salutare Abdul Wasey. Il corridoio è affollato di afghani appena arrivati con nuovi feriti. Nel letto accanto a quello di Abdul c'è ora un uomo sulla cinquantina col ventre squarciato da una scheggia. Mi vede entrare e dare ad Abdul due cose che ho portato. Raccoglie faticosamente il fiato ed urla: «Prima vieni a bombardarci, poi a portarci i biscotti. Vergogna».

Non so cosa fare. Cerco dentro di me delle giustificazioni, delle parole da dire. Poi penso ai soldati francesi, tedeschi ed italiani che presto si uniranno a questa guerra e mi rendo conto che, alla fine di una vita in cui ho sempre visto feriti e morti fatti da altri, mi toccherà ancora a vedere, in questo ospedale o altrove, le vittime delle mie bombe, delle mie pallottole. E mi vergogno davvero.

Da "Il Corriere della Sera", 16/11/2001

Versinguerra - Opinioni & Scenari
Seleziona un altro autore:
A  B  C  D  E  F  G  H  I   J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z