Versinguerra
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ANNA
SANTORO
Lettera
Cara Luciana,
come te e come tante mi chiedo che senso abbia scrivere sulla guerra.
Ho firmato petizioni, pronunciamenti, prese di posizione, ho partecipato
a manifestazioni, cortei e letture di poesie contro la guerra, eccetera
eccetera, ma la sensazione di inutilità è troppo forte.
Certe volte vorrei scrivere ai giornali e alle tv: basta, non raccontate
più niente, non accetto questa farsa di partecipazione che attribuite
a chi vi segue, sostenendo di raccontarci i fatti per (nostro) diritto
di informazione, dando ad intendere che, volendo, noi contiamo. Non contiamo
nulla. Nessuno conta qualcosa e soprattutto nessuna. Se qualcuna di noi,
in questi anni, ha pensato che le donne avessero acquistato una svrenzola
di potere (lasciami usare questo termine - della mia lingua napoletana
- che indica con assoluta precisione il niente) in queste occasioni dovrebbe
ricredersi. Sì, per quello che riguarda gli studi e le ricerche,
le donne non hanno bisogno di legittimazioni esterne, ma in questi momenti
credo che avremmo dovuto (dovremmo) fare un passo successivo.
Certo è che il pensiero della differenza, le relazioni tra donne,
la forza di combattere (non dico di imporsi) per testimoniare un modo
altro di guardare e leggere il mondo, e la capacità di occupare
un spazio nostro, ma parte di questo mondo, in momenti come questo, mostrano
la sconfitta subita. Perché siamo nell'ambiguità di una
situazione che da una parte disprezza i canali ufficiali e dall'altro
non può non prendere atto che sono quelli a fare informazione,
a creare (in)coscienza e mentalità, a decidere anche per noi tutte.
Così, non usando spazi effettivamente altri (ma perché?),
non contiamo niente, non solo perché donne "importanti",
quelle che potrebbero e saprebbero spostare lo sguardo e offrire una lettura
diversa delle cose che accadono, forti di una autorità conquistata
e che dovrebbe essere ormai scontata (le poche eccezioni confermano la
regola dell'esclusione), non sono mai chiamate a parlare e a contare in
situazioni "pubbliche" (anche perché esse stesse si sentono
troppo fuori dalle combriccole dei salotti televisivi e dai forum dei
giornali, o, al contrario, perché (vedi tante politiche) sono totalmente
in linea con la visione "maschile"), ma soprattutto perché,
come dire?, non abbiamo insegnato niente. Non abbiamo inciso nella mentalità
corrente di una briciola.
E non abbiamo (avuto) voglia, capacità, forza di contare. Insomma,
avremmo potuto (potremmo?) creare una catena incredibile e visibilissima,
tra giornali, associazioni, università, avremmo potuto (potremmo?),
interrogarci con attenzione, pensare, pensare ai problemi e ai modi di
trattarli, avremmo potuto (potremmo?) inventarci un modo forte per la
rappresentazione e la comunicazione di essere "altre". E invece
Certo, le donne che ho letto o che ho visto in tv (tranne qualcuna) sono
state "diverse", ma non all'altezza di se stesse, del lavoro
svolto da tutte in questi anni, della situazione. Hanno detto ciò
che qualsiasi donna con un poco di buon senso avrebbe detto, ciò
che hanno già sostenuto nei secoli passati scrittrici e intellettuali,
ma è troppo poco. Eppure in questi anni il lavoro delle donne su
tematiche vaste e di fondo, come la guerra, il rapporto tra culture diverse,
la fame, lo sfruttamento delle donne e dei bambini, le violenze, gli interessi
economici di un sistema sempre più miope ed egoista, il terrorismo,
eccetera, è stato importante. Noi abbiamo pensato e prodotto pensiero.
Ci siamo interrogate sull'etica, ci siamo unite, scontrate, divise, accordate
e poi
E poi continuiamo a sentirci "fuori", a essere "fuori".
Ognuna, ciascuna, ha fatto la sua strada, e nella solitudine (di gruppetti
o individuale) non possiamo non avvertire la passione del silenzio, il
dolore dell'assenza. La delusione che noi stesse ci procuriamo.
Scusa, cara Luciana, forse mi chiedevi altro e altro dovrei riuscire a
dire. Altro penso certe volte, ma questo che sto scrivendo, lo avvertivo
già da prima delle emergenze di oggi e oggi si è concretizzato,
fatto chiaro, benché renda problematico riuscire a trovare parole,
a fare un ragionamento breve e coerente. Però mi serviva come preliminare,
perché è la riflessione che mi viene da fare, anche se cerco
di fermarmi sulla situazione attuale.
Il primo pensiero che ho avuto quando, quel pomeriggio dell'11 settembre,
ho visto per caso in tv, la tragedia delle Torri, dopo l'emozione, la
paura, le lacrime, lo stordimento, è stato: dove siamo arrivati?
Lo diceva mia madre, e anche mia nonna, quando accadevano eventi terribili,
dalle minacce di guerra a fatti di cronaca nera: dove siamo arrivati!
Nelle loro parole, in queste parole, c'è la coscienza di essere
sempre parte di ciò che accade. Era saggia mia madre: sapeva che
il mondo non è fuori di noi, altro da noi: noi siamo nel mondo.
Quella sera, sono andata a guardare dalla mia finestra il Castello di
S. Martino, e ho immaginato che un aereo vi si andasse a schiantare, magari
in occasione di una festa, una manifestazione, un concerto. Ho pensato
se ci fosse stato mio figlio, amici, amiche. Ho immaginato la mia angoscia,
il mio terrore, la mia disperazione. E ho capito che avrei avuto il senso
della fine del mondo, non solo della mia vita: del mondo. Ho capito il
dolore delle americane e degli americani. E poi, dopo lo sgomento a pensare
le persone, i corpi che soffrivano, l'atrocità della perdita di
parenti e amici, mi sono sfilate avanti agli occhi le immagini di un mio
viaggio in America, anni fa, e poi libri, nomi di scrittrici e di poete,
di studiose, di scrittori e di poeti, films, musiche, che mi hanno insegnato
tantissime cose, che amo. E mi è venuto da pensare che, accanto
a tutti i motivi di profondo antagonismo nei confronti della politica
americana, dei miti americani, della incoltura americana, che ho sempre
avvertito, ci sono motivi di profondo amore e di debito di crescita intellettuale
e creativa.
E nei giorni seguenti, benché sia ormai una quasi vecchia signora
e dunque dovrei essere un po' smaliziata, mi sarei aspettata, da parte
di tutte di tutti, una sosta, un silenzio, un bisogno di approfondimento,
una analisi accorata, una rilettura di tutto ciò che si dà
per scontato anche nel proprio quotidiano, un cercare di andare al centro
della questione, al centro del punto di dolore e di angoscia, e poi un
mettere in comune esperienze, pensieri, saperi: me lo aspettavo da politici
e da politiche, da studiosi e da studiose, da artiste e da artisti, da
intellettuali, da amiche e da amici e invece è uscita fuori la
guerra. Fino a qualche anno fa nei nostri manuali scolastici di storia,
nell'ultimo capitolo, si leggevano le risoluzioni dell'ONU, la ferma decisione
di non arrivare più a guerre, perché le guerre sono inutili
e distruttive. Ma da dieci anni le cose sono cambiate anche da noi. Le
guerre non sono più lontane o appartenenti al passato, ma presenti,
vicine, possibili. La guerra è diventata un'opzione possibile.
La guerra è necessaria quando è un male minore, dicono.
Ma davvero? La mia risposta a chi dice: o sei con me o sei contro di me,
è che non accetto da parte di nessuno di porre i termini di una
questione. Sappiamo bene che, nella lettura (di un testo o di un testo-mondo),
non è indifferente il punto di vista, e soprattutto non è
indifferente il perché (per quale fine e per quale causa) si guarda
qualcosa. Di più: abbiamo imparato che questo "qualcosa"
(un testo, il mondo) non solo può essere guardato in modo diverso
a seconda dei punti di vista, o a seconda dei "criteri", della
"scala di valori", ma risulta esso stesso altro, a seconda di
chi e perché guarda .
Questa guerra, per me, è più assurda delle altre. E man
mano che cresce, cresce l'altra faccia non solo della politika, ma della
cultura americana-occidentale che io non amo e che mi fa ripensare questa
banalità di fissare le appartenenze. Nei film, nei romanzi, nella
musica americana, accanto e intrecciata alle cose che amo e che, lo ripeto,
mi hanno insegnato molto, c'è l'altra faccia che mi è lontana
mille miglia: c'è la pena di morte, c'è l'ottusa nozione
di supremazia e di centralità, c'è l'incapacità a
non reputarsi sempre i migliori, c'è la tracotanza, c'è
la scala di valori che mette in ogni caso al primo posto il Potere, il
danaro. Nei film, nelle telenovele, è ossessiva la ripetizione:
avrò tutto ciò che desidero. La violenza e la stupidità
di questa guerra fa così spostare sempre più la mia attenzione
dal punto di partenza (quell'eccidio disumano e gravissimo) su ciò
che ora si sta facendo. E sulla lettura così servile (perché
non dubitativa e dunque informativa) dei politici e dei mezzi di comunicazione,
che acquistano un potere eccessivo, irresponsabile.
Non so cosa intenda Bush quando dice (e Berlusconi, il governo, l'opposizione,
gli intellettuali, eccetera, ripetono): vinceremo. Vinceremo chi? Quando?
Bin Laden? I Talibani? Gli Stati attorno? E se, a parte la questione del
terrorismo, fosse davvero l'altra metà del mondo a odiare il mondo
occidentale? Vinceremo quando saranno distrutti tutti quelli che non amano
l'America e l'Occidente? E nel frattempo anche "noi" saremo
distrutti da questo conflitto che va allargandosi e incrudelendosi. Colpisce
la stupidità di chi parla così e di chi non chiede risposte
chiare. La vedo, assieme all'ipocrisia, per esempio, sui visi e nelle
parole dei politici nei salotti tv: pur sottolineando tutti la svolta
epocale avvenuta con l'11 settembre e le catastrofi prevedibili, che crescono
di giorno in giorno, stanno lì a bisticciarsi su sciocchezze, a
fare le "facce" serie e coraggiose, responsabili. Insomma, siamo
di fronte ad una svolta epocale eppure questi signori non cambiano metodo
di ragionamento e di comportamento.
Ma forse "vinceremo" significa: quando si saranno chiariti e
spartiti gli interessi di tutti i partecipanti? Questo spiegherebbe il
cinismo e la calma dei politici. Significa che è nei conti, che
era nei conti una "sistematina" in quei paesi (e nei nostri)
dopo che governi messi lì e foraggiati dall'Occidente, all'Occidente
non vanno più bene. In questo caso l'11 settembre è stata
l'occasione di qualcosa che al solo immaginarla viene davvero la pelle
d'oca. Io non ho la capacità, non ho i saperi per mettere insieme
considerazioni e notizie: dagli affari che, grazie alla guerra, fanno
le industrie d'armi (ma anche quelle che provvederanno alla ricostruzione),
a ciò che nel frattempo sta avvenendo nei vari paesi, grazie alla
guerra: nel nostro, per esempio, ma anche in America, stanno passando
leggi che in tempi "normali" forse non sarebbero passate. Allora
questa guerra è un gioco, come tutte le altre guerre, fatto in
nome di qualcosa per qualcosa a cui non si dà nome, perché
è più cinico e immorale del termine "guerra"?
Insomma: sarà catastrofe o accordi strappati con il sistema più
disumano. In entrambi i casi, noi, cara Luciana, che facciamo?
Niente, perciò tacciamo. Ma la cosa sarà lunga e non si
gioca solo (!!!!) in un ristretto territorio lontano, su bambini e donne
lontane: si gioca sul futuro del mondo che non riuscirà mai più
a chiudere questa ferita. Ne uscirà trasformato in ogni caso. O
perché a pezzi, ovunque, o perché in un nuovo discutibilissimo
ordine, che non si potrà più discutere perché nella
mentalità corrente saranno passate concezioni molto gravi. Per
esempio che si può buttare la bomba atomica "se ci si è
costretti", per esempio che in fondo civili e militari corrono gli
stessi rischi, per esempio che l'Italia deve smettere di essere poco seria
e poco presente e deve "assumere le sue responsabilità fino
in fondo", eccetera eccetera.
Tacciamo perché ci è tolto anche il dolore per le vittime
delle Torri. Tacciamo perché ci rendiamo conto che in tanti anni
non siamo riuscite a scalfire la cultura maschile, il potere maschile,
l'immagine che di sé ha il maschile come centro assoluto, soggetto
indiscutibile. La cultura femminile insegna, grazie alla lunga esperienza,
a essere soggetto e oggetto, centrali e laterali, ad accogliere e relazionarsi.
E' spostando di qualche grado il mio sguardo, che capisco come sia vero
ma anche relativo il pensiero di donne occidentali (e di sicura condizione
economica): ora non ho più sicurezze, prima mi sentivo sicura,
eccetera
Le donne afgane, ma anche tante di tanti altri paesi, inclusa
l'America o l'Italia, non si sono mai sentite sicure, sicure per i propri
figli, per il futuro né per il presente. Ci sono donne e uomini
e bambine e bambini che non hanno mai conosciuto la vita "normale".
Nella ridda di parole televisive, ci è toccato anche ascoltare
che in fondo la guerra che si fa è per le donne, che, poverine,
sotto i talebani hanno una vita misera. Ci è toccato ascoltare
come personaggi che non voglio nemmeno nominare siano preoccupati per
questo (al contrario di altri che pensano che ben gli sta, alle donne:
basta ribellarsi. Come se non la sapessimo lunga su dittature, fondamentalismi,
violenze su donne e bambini - e anche su uomini -, su organizzazioni criminali,
poteri accentratori, ingiustizie, abissi di differenza tra ricchi e poveri,
sull'ambiguità del termine "cultura", eccetera eccetera).
Ascoltare questi compunti gaglioffi raccontare di quelle "povere
donne", zitte ad aspettare il liberatore, o anche, ignare, contente
della propria condizione. Ma dove erano, dove guardavano, cosa vedevano,
questi signori, quando con fatica, attraverso carceri, condanne, ma anche
vittorie sono state portate avanti le battaglie delle donne contro governi
sostenuti per motivi politici ed economici da quegli stessi signori?
Sostegno quelle donne l'hanno ricevuto da altre donne, dei paesi occidentali,
che con pudore e attenzione, mettendo in discussione il proprio modo "occidentale",
hanno cercato di avvicinarsi a problematiche difficili. Associazioni di
donne, o singole persone, si sono messe in relazione con donne di altre
culture, hanno ascoltato e posto domande, hanno cercato di capire, si
sono interrogate, hanno immaginato insieme possibilità di sviluppo
altre dalle dominanti. E hanno capito che ciò che tentavano scrittrici,
professioniste, intellettuali, associazioni di donne, nei paesi che le
opprimeva, era l'unica rivoluzione (culturale, economica, politica) in
grado di trasformare dall'interno una cultura, così come avevano
fatto (come pensavano di aver fatto) loro (noi) con la nostra.
Quelle lotte erano e sono la risposta a chi si chiede come coniugare il
desiderio di estendere i criteri di "libertà e di democrazia"
con il rispetto per una cultura altra. Le donne di questa cultura altra
hanno, in certi paesi, esattamente sfidato il difficile compito di portare
avanti la trasformazione della propria (ma maschile) cultura, e l'occidente,
i politici e gli intellettuali, avrebbero dovuto capire che era quello
l'attacco più forte al fondamentalismo e che bisognava sostenerlo.
Ma non l'hanno fatto. L'azione di queste donne, da parte di quei poteri
occidentali che ancora stentano ad evolvere se stessi, non è stata
assunta come possibilità di cambiamento. Perché non la vedevano?
Non la conoscevano? Non la capivano? Già: non la vedevano, non
la conoscevano, non la capivano. E la temevano. Ma tacciamo anche per
altri motivi che sono appunto quelli che vorrei discutere qui.
A rischio di sembrare ingenua dico che la strada che ha preso la nostra
cultura non mi piace, e non mi piace l'idea che possiamo farci poco o
niente. Dico che, al di là delle semplificazioni, i problemi ci
sono e gravi e le donne devono e possono essere all'altezza di riesaminare
e riproporre un'etica complessiva e anche battaglie concrete. Dico che
dovremmo riattraversare i nostri comportamenti, accogliere la forza ma
anche il disagio di tante di noi. Il dolore e l'accoglienza dello stesso
disagio può essere, se elaborato opportunamente, strumento di crescita,
e le tragedie che stiamo vivendo, se fermate prima che portino al disastro
totale, potrebbero essere occasione, per ciascuna di noi per ripensare
non solo il cammino delle nazioni e gli assetti politici, ma anche se
stessa. Dico che di tante donne che frequento, con le quali ho molto in
comune, mi spaventa la fuga nella propria piccola fissa identità
(con l'illusione che non sia in relazione con il resto: ma non ci hanno
insegnato che persino il battere delle ali di una farfalla può
causare un terremoto?), che corre il rischio di diventare chiusura, impedimento
alla crescita di tutte, e mi spaventa, anche, l'abitudine radicata di
tagliare corto, di ripetere concetti o semplici parole d'ordine che in
realtà non danno forma al proprio profondo desiderio.
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