Versinguerra - Opinioni & Scenari
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GIACOMO GUIDETTI
Tra silenzi aristocratici e versi della cornacchia

Giungono da più parti su queste pagine e altrove (e ben vengano, naturalmente) critiche sull'opportunità di una operazione come Versinguerra; però curiosamente, più che sui suoi limiti, tendono piuttosto a concentrarsi sulla sua inutilità, se non addirittura sulla sua nocività. Vorrei esprimere quindi alcune mie considerazioni, prendendo come riferimento soprattutto (in quanto facilmente confrontabile) la lettera di Marco Giovenale pubblicata su "Opinioni e scenari 5". E' chiaro che una situazione così grave e complessa su numerosi fronti come quella attuale generi sconcerto e ponga pesanti interrogativi sul "che fare", per cui ogni posizione va presa seriamente in considerazione, senza preconcetti. Premetto quindi di non voler ritenere assolutamente come definitivi i miei giudizi (che spesso sono semplicemente quesiti aperti).
L'agire è un momento fondamentale per la formazione d'una coscienza (individuale e collettiva) più che il recepire. L'agire è anche intellettuale, ed anche scrivere in versi è una forma di azione, specialmente per chi crede di riuscire ad esprimersi più efficacemente in tale modo. Perché dovrebbe essere meglio non fare nulla o al massimo scrivere in prosa? La poesia deve quindi essere considerata solo arte gastronomica (usando un'espressione di Brecht)? Non è piuttosto proprio del "poeta del principe" fuggire quando si trova in bilico ed è costretto a svelarsi? Se è sufficiente fare "con onestà il proprio lavoro", perché dovrebbe essere disonesto trattare un tema come la guerra (magari anche solo esprimendo un sentimento di sgomento) piuttosto che struggersi per amori tormentati o crogiolarsi in estatiche contemplazioni? Il poeta è tale solo quando pensa agli affari suoi? E poi non è un po' come dire che esistono settori in cui "non si fa politica"?
Può darsi che tutto quanto circoli sia "ingenuo e retorico", ma questo è forse il segno che non si è pronti, per disabitudine, ad affrontare efficacemente temi così importanti, e allora potremmo almeno concedergli il valore di un rodaggio. Io credo che in questo momento sia piuttosto veramente fuori luogo proporre barriere di critica letteraria. Ed è fuori luogo anche l'affermare che qualcuno lo faccia "in attesa d'un pagamento dal direttore di rete". Ma andiamo! Egocentrismo, narcisismo, esibizionismo, tutto si può imputare ad un poeta ma non certo di attendersi un risultato economico. Mi sembra la riproposizione di quella vecchia insinuazione (di destra) "chi ti paga?", che veniva abbondantemente elargita a noi sessantottini.
Ben venga la proposta di allargare quanto più possibile gli spazi pubblici e di favorire gli incontri, ed anzi si può senz'altro cogliere in questa una critica costruttiva, sulla quale riflettere e soprattutto mobilitarsi. Però mi chiedo se nei luoghi pubblici non ci si esibisce lo stesso. L'esibizionismo è una componente intrinseca al processo di creazione artistica: un artista che non si esibisce non comunica. Inoltre non si capisce perché dovrebbe esserci antagonismo fra gli incontri fisici e quelli on-line: Internet è uno strumento di comunicazione, null'altro, ed è scontato che in un mondo capitalistico qualcuno lo possegga. Ma non è così anche con il telefono, con la radio, con la stampa? E si crede davvero che esistano spazi non privati? E poi cambia qualcosa se la comunicazione avviene fra pixel? O si vuole ribadire che "il medium è il messaggio" (asserzione che, benché di moda, è tuttora una tesi da dimostrare)?
Anche Internet può essere un luogo pubblico se usato in modo appropriato: perché non voler sfruttare una potenzialità che consente, ad esempio, di raggiungere posizioni lontane e isolate, dove può trovarsi chi non ha il privilegio di vivere in un grosso centro (come Roma o Milano) e quindi non può fisicamente incontrarsi? Attraverso Internet, che diventa semplicemente un'antologia in divenire, si fornisce anche una possibilità di ricezione non gerarchizzata (come invece sono, per forza di cose, le letture pubbliche, soggette a sequenze temporali e costrette nei luoghi di residenza), per cui ciascuno può decidere cosa leggere, quando leggere e, soprattutto, se leggere (sembra strano dirlo, ma non è affatto obbligatorio).
Ricompare, a mio parere, ciò che ha sempre creato insormontabili ostacoli nella formazione di qualsiasi movimento di opposizione: il settarismo (che da malattia infantile non curata s'è trasformato ormai in malattia senile), per cui si continuano a privilegiare le differenze interne ad uno schieramento piuttosto che quelle con l'avversario.
Ciò che frequentemente mi sembra non venga colto, di questa come di analoghe altre operazioni, è soprattutto il tentativo di rovesciare la generale condizione per cui il senso collettivo viene riconosciuto solo come passività (con gli individui uniformati e appiattiti nei soli ruoli di consumatori e spettatori). Non si tiene conto del valore dell'insieme che (matematicamente parlando) non è solo la somma dei suoi componenti, e in cui l'apporto di ogni persona (riportata al ruolo di attore) è fondamentale, però niente affatto determinante. E fra gli obbiettivi principali d'una operazione collettiva culturale (proprio in quanto passaggio o comunicazione) può esserci anche la costruzione di una mira utopica, intesa proprio come punto comune a cui tendere, senza la quale si può solo scivolare nel totale nichilismo. E almeno a questo può servire persino un miserabile testo d'un poeta narcisista e letterariamente incompetente. In mezzo alle macerie anche il verso della cornacchia è un magnifico segno di vita.
Sulla proposta alternativa di tacere (come ad esempio quella di Scanavini), faccio mio un verso di Eluard: "et je ne crains que l'ombre atroce du silence" ("e non temo che l'ombra atroce del silenzio"). Le proteste silenziose non sono mai servite ad altro che a mettere in pace la coscienza di coloro che vogliono continuare a starsene per i fatti loro. Mettersi fuori in nome di qualsiasi purismo vuol dire, secondo me, collocarsi in una posizione aristocratica (o, più precisamente, snob).
Comunque, se non vogliamo davvero peccare di ingenuità, dobbiamo tenere bene a mente che operazioni come questa (e anche tutte le altre in corso) possono servire solo a preparare un terreno sul quale, si spera, possa un domani nascere qualche pianticella (che, dato l'allargamento dei deserti, è comunque cosa non da poco), senza illudersi di scalfire in alcun modo significativo la condizione presente. Ogni minima energia va in ogni caso utilizzata: negli ultimi anni il fronte contro la guerra si è progressivamente assottigliato. E' chiaro che in ben altro modo bisognerebbe operare per sperare di sortire qualche effetto a tempi brevi, tenendo, ad esempio, ben presente che oggi il nostro vero idolo è la merce, ed è contro questo dio che andrebbe indirizzata una seria battaglia, assumendo di conseguenza davvero un atteggiamento "sottrattivo", ma per quegli aspetti della vita quotidiana che ci portano ad essere oggettivamente compartecipi (e in ciò accolgo in parte le riflessioni di Gio Ferri) dell'affermazione di quella supremazia che è la prima vera causa di questa come di tutte le guerre in corso.

05/12/2001

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