Versinguerra - Opinioni & Scenari
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MARCO GIOVENALE
Lettera aperta
Oggetto: presenza, critica

Quello che segue non è saggio né propriamente intervento, ma appena annotazione o principio di dialogo. Altre pagine più brevi ma meno fuggevoli sto preparando, per gli stessi temi. Chiedono più tempo. Questo è semmai un discorso senza metodo, forse leggero, per/tra compagni di cammino.
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Come tutti, ho meditato dall'11 settembre in poi su tutto quello che implica il tratto di storia che stiamo subendo, nei suoi legami (e strappi) con il linguaggio in generale, e in particolare con la scrittura - di versi e di prose (la critica è in qualche modo già altro). Vorrei fare una premessa e alcune (spero non troppo magniloquenti) considerazioni.

Premessa.
Sono nate molte iniziative intorno a questioni configurabili come "poesia contro la guerra", "scrittura e realtà", "politica e poesia", "opposizione in poesia", eccetera. Una fu quella ipotizzata - tra le giornate di Genova e l'inizio di settembre - da "Altri luoghi" e da Piero Cademartori, poi credo non rilanciata. Un'altra - o meglio una serie di altre - è quella innescata dal comunicato - condivisibile - del Sindacato Nazionale Scrittori, dopo l'11 settembre e dopo i proclami di bushladen. Penso a "Versinguerra", a cura di Adam Vaccaro. Aggiungo quella del Coordinamento "scrittori per la pace". Ne reinoltro in allegato la (valida) cartella di presentazione. Un'altra ancora è quella che, con l'appoggio del SNS Lazio e per iniziativa di Valerio Cruciani e sostegno di Massimo Giannotta, si realizzerà nei prossimi mesi a Roma.
Una ulteriore iniziativa è promossa da Alfredo Tamisari e dall'Associazione La Camera Chiara, per una tavola rotonda da tenersi l'1 dicembre alla Biblioteca Rionale Dergano-Bovisa (Milano).
Leggo poi - in queste ore - di "Poesia contro la guerra", ciclo di letture e incontri organizzato a Salerno dall'associazione Multimedia (ma... con la collaborazione/partecipazione del Ministero degli Affari Esteri!?) tra fine novembre e inizio dicembre.

Le considerazioni che sento di fare sono:

1.
Accolgo la critica generale esposta da Lelio Scanavini all'inizio di novembre e pubblicata in Versinguerra. La cito qui di seguito:
In questo tragico frangente, la cosa migliore che dovrebbero fare i poeti italiani e' quella di sospendere le loro ESIBIZIONI. Chi, per necessita' espressiva, scrivesse poesie ispirate ai noti avvenimenti, farebbe bene a tenerle chiuse nel cassetto, a futura memoria. Oppure si pensa che i poteri politici e militari e la società civile leggano le nostre poesie in rete? Come al solito ce le leggiamo tra noi. Ho la nausea!

(Diverse ma altrettanto affilate le critiche di Gio Ferri, che però qui per brevità non cito).

Se non ci confrontassimo lealmente con sintesi come questa di Scanavini, smetteremmo di esistere anche "tra noi" (che scriviamo); e veramente scrittura ed eventuale "parola comunicata" rischierebbero il curriculum puro, la partecipazione a punti, l'esserci-per-esserci, il baccano, soprattutto la retorica e l'addizione.
Tutto il Novecento dimostra (è ormai forse una specie di evidenza geometrica) la ingestibilità assoluta delle conseguenze del segno +. L'accumulazione che è del capitalismo è anche delle parole sulle parole. C'è perlomeno una complanarità - e somiglianza perfino grafica - tra flusso di mails e flusso di informazioni Mibtel. (E' paradossale dire questo all'interno di una mail, in più circolare, ma... lasciatemi articolare il ragionamento:)
Uno stile diverso, sottrattivo in scrittura e "fisico" nel senso della presenza politica, è qualcosa ancora da costruire, qualcosa che forse è sempre necessità. Intendo: sottrarre versi e versetti ed essere presenti fisicamente (anche con i testi, meglio se di analisi) dove si realizzano politica, dibattito, discussione. (Opposizione).
Mi rendo conto che è difficile non trasformare la sottrazione in avarizia, e la fisicità in presenzialismo, ma proprio su questo margine si gioca una larga parte della generale dignità degli scriventi - tutti - e di individui o gruppi che ragionano. Parlo di presenza riflettendo sulla giornata di manifestazioni di sabato 10 novembre qui a Roma, con poche migliaia di persone a piazza del Popolo, per lo show del presidente dell'azienda Italia; e invece 150mila persone alla Bocca della Verità, flussi interminabili di non-bytes, che sfilavano contro le guerre.
Questo dislivello tra show e manifestazione non solo è esistito (perlomeno) nonostante i successivi riduttivi spot a raffica delle tv, ma ci reinsegna una cosa: che può avere ancora connotati di necessità essere presenti; esserci. Stare in piazza HA qualche senso. (Se poi uno si porta dietro dei versi, bene). (Ma se la parola da dire è politica, non c'è miglior parola della addizione di SE', un sé politico, anche in QUESTA forma, che dice corporeamente al potere: "sottrai la mia persona dai registri; sono uno in meno dalla tua parte"). (Nonostante l'identità dell'opposizione abbia nella fattuale "moltiplicazione come frammentazione altissima" un indice di debolezza).

2.
Credo debbano - nei prossimi mesi - crescere in considerazione di tutto ciò le iniziative di impegno frontale personale. Ecco perché mi convince quanto scritto dal Coordinamento "scrittori per la pace": perché parla di teatri, di luoghi pubblici. C'è - senz'altro - il rischio serio di sfiorare anche qui lo show, l'esibizione, l'ovazione lirica. Ma se chi organizza saprà gestire con cura - lo auguro davvero - gli interventi e le adesioni, azzerando applausi e moltiplicando intorno e nei teatri le realtà NON solo letterarie-artistiche, credo si lancerà un segnale necessariamente udibile.
Una prassi dignitosa è insomma quella di limitare l'accumulo di posta elettronica e canti sulla guerra. Non è (solo) online che si combatte contro le cose come stanno. È indispensabile usare la rete soprattutto per informare dove e quando intendiamo incontrarci, dove e quando (e con quali amplificatori) intendiamo pubblicamente dichiarare che, non ritenendo reale opposizione la violenza indiscriminata del terrorismo, non partecipiamo al coro del presidente Bush e del suo agitato clonino forzista.
Può essere battente, continua, la presenza di opposizione. Un sit-in può anche essere muto. Ma darsi, in questo modo, come cortina di no. Corpi reali che oppongono un no reale. È enfatico? Forse, però si tratta dell'unico grado di enfasi che emetta linguaggio visibile=politico. Ogni altro codice essendo copyright dei Ripetitori noti.

3.
Per le ragioni appena esposte, caro Valerio, sottraggo il testo poetico di cui ti parlavo (che del resto ha o avrà nel tempo altra sede di pubblicazione già fissata da molto) all'antologizzazione, sia in carta sia in rete. Rimane la mia disponibilità a stampare o diffondere questa stessa mail circolare, se lo desideri. (Perché, come vedi, è problematica nel suo voler funzionare da freccia rivolta all'esterno della carta e del video).
E c'è di più. Dal molto che finora ho letto online, sebbene non abbia - perché umanamente impossibile - visto tutto, constato che la qualità dei versi fin qui circolati un po' ovunque a proposito di guerra e pace è estremamente imbarazzante. La ragione è cristallina e sta tutta nelle parole ingenuità e retorica. Non potrei fare altro che rimandare a quanto dice appunto Lelio Scanavini.
(Confermo: sono davvero da sollecitare e moltiplicare gli interventi di critica e analisi e informazione. Diversi ne ho letti, e molti sono di spessore non indifferente. A questi darei sostegno, online e offline). Il rischio, per il poeta, vedo, è tuttora quello di trasformarsi in cortigiano della propria cattiva coscienza. In accumulatore di calchi di indignazioni.
Non più pagato dal principe, o non ancora pagato dal direttore di rete, l'auctor scalda motivi emotivi & voli amarissimi facendosi assoldare dal proprio senso di colpa verso i pugni che non sa più chiudere.
Se la generazione di "Officina" era in ritardo (crocianamente nonostante i proclami) sulla realtà, le varie generazioni che oggi parlano in versi della guerra sono in ritardo su quel ritardo, e non si ascoltano nemmeno tra loro. Le ragioni per sottrarre ORA il mio testo in versi (offrendo semmai questa critica in prosa) alla pubblicazione cartacea e online, sono le stesse che invece mi persuaderebbero a leggerlo in una eventuale e calibratissima MANIFESTAZIONE di autori (composita, magari: non di sola poesia) in teatro o altrove, come accennavo in precedenti messaggi.
Innanzitutto, si tratta di versi che "lateralmente" - voglio dire indirettamente - riguardano un conflitto
(quello del Kosovo, essendo il testo di settembre '99, sub D'Alema), dunque affidano al proprio linguaggio e struttura un valore di "lavoro su altre strutture-linguaggi"; inoltre sono versi che la voce deve incidere nell'ascolto di persone "in praesentia", non come pixel cancel-labili su uno schermo; infine constato che un lavoro di strutture su strutture (=il testo in versi di cui sopra), senza spettacolo e senza battimani, è l'urto secondario di un primo impatto che è dato dalla presenza, dall'esserci.

4.
Ho sempre pensato che fosse sufficiente fare con onestà e passione il proprio lavoro, pubblicare, organizzare p. es. mostre che legassero testi e immagini, promuovendo iniziative sulla fotografia (anche politica), o leggendo e sostenendo una poesia anche TUTT'ALTRO che frontalmente "civile" o "impegnata", una poesia che - ad alta incandescenza di formalizzazione - dimostrasse, seguendo magari Fortini, che una rigorosa coerenza "di laboratorio" implica o addirittura genera (o dimostra perseguite) percettibili variazioni nel linguaggio e nel linguaggio-sguardo (ricevuto, ritrasmesso) di chi ci è intorno, dunque nella società, per tratti circoscritti, e così nella storia, minimamente.
Lo penso ancora, anche se all'interno di difficoltà e debolezze cresciute ovunque, per via della vittoria delle destre-destre, poi per via dei fatti di Genova, e infine dell'11 settembre, della guerra in Afghanistan.
Credo però che quel tipo di lavoro e impegno, chiamiamolo "culturale", pensato per le lunghe distanze, non possa fare a meno di un surplus etico collettivo e singolare di diminuzione del narcisismo.
Autoriduciamoci. Cerchiamo di comparire meno come poeti in politica. Mettiamo tra parentesi l'ego. NON credo nell'omeopatia: non si scaccia il Principe salendo da principini su podi elettronici o lirici-comiziali che parlano di guerra. Sottraiamo retorica. La presenza è altro. E facciamo, con rigore e vorrei dire con minima austerità, una scrittura (o) critica senza fanfare. E' un lavoro già politico, perché azione sul/nel parlare. Voce. Certo non può permettersi di essere manifattura casalinga: nel doppio senso di ingenua (irriflessa, retorica) e di chiusa tra quattro mura. Sintetizziamo? Cediamo all'esortazione? Ecco. Il corpo-prosa si esponga, fuori casa, insista nel dirsi ombra - ma con altre numerabile - di un'opposizione; il testo poetico lavori a se stesso come urto di secondo grado, ovvero conseguenza (non urgenza umida, affannata in do di petto) e tenti di schivare l'applauso, la foga-fuga verso il vertice di consenso.
Preferisco - sinceramente - una serie di incontri per leggere davvero l'altro (come tenteremo di fare da Odradek con Damiano Abeni e altri amici, dal 13 dicembre), o un modo di affrontare la poesia che parta dall'ASCOLTO (="Àkusma", con Giuliano Mesa e molti altri autori, già dal 20 novembre, ancora da Odradek). Soprattutto, non accorciamo né riduciamo l'impegno di capire, di criticare, di intervenire leggendo le cose, analizzandole. Molti versi che in questi ultimi due mesi sono stati scritti e diffusi sono brutti e vuoti non perché aridi siano i loro autori, bensì perché costoro hanno probabilmente ceduto alla facilità della (sedicente) sorgente piuttosto che al lavoro (faticoso) del geologo. Fare flusso è meno impegnativo che sondare la realtà, risalirla. Qualche lamento in rete è meno costoso che vincere scientemente la retorica o leggere poesie senza necessariamente pensarne un inquadramento (forzarle in un braciere) impegnato.
Su questo e su altro potremo senz'altro discutere, ancora.
Ciao, un abbraccio da Marco

28/11/2001

Risposta di Adam Vaccaro

Caro Marco,
ho particolarmente gradito la tua lettera, perché ripercorre molti fili della matassa di riflessioni che ho provato a dipanare quando ho deciso di dare il via a Versinguerra. Non mi è mai interessato, per la coscienza dei rischi o dei risultati scontati e ininfluenti, fare una parata narcisistica di "versi e versetti" sulla, o contro, la guerra.
Di qui il titolo, che pur partendo dall'ambito espressivo, indica un grumo dinamico di ascolto e confronto entro un orlo e stato di guerra. Anche, come dici tu, con i versi, ma assolutamente non solo.
Di qui la sua impostazione su due gambe (Espressioni e Opinioni e scenari), nella speranza che una arricchisse l'altra e insieme portassero in un luogo meno alienato e passivo rispetto al turbinio in atto - senza alternative binarie, ma con sollecitazione ad aumentare l'efficacia e l'autonomia reciproche.
Di qui la qualificazione e l'ambizione di aprire un'area di confronto - un forum, come appunto recita il comunicato iniziale di Milanocosa - nella convinzione che questa fosse una primaria esigenza comune, di ognuno e di tutti.
L'obiettivo di fondo di Versinguerra era ed è quello di recuperare in primo luogo atteggiamento attivo, rispetto allo sconcerto, alle chiusure rassegnate e alla perdita di parola, innescati dalla catena di avvenimenti.
Anche la tua lettera fa questo, per cui rientra negli intenti perseguiti. Allo stesso modo, ho visto una provocazione reattiva, con un'utile sollecitazione a riflettere, anche in quelle di Lelio Scanavini e di Gio Ferri. Per inciso, la lettera di Scanavini era personale, ma gli ho proposto di farla circolare. E stesso obiettivo mi sono posto chiedendo all'amico Gio (di cui conoscevo l'atteggiamento e l'opinione) uno scritto.
La tua lettera tuttavia sollecita uno sviluppo di ricerca nella direzione della presenza. Presenza come ricerca di esserci, qui e ora. Esserci con un minimo di efficacia e rilevanza sociale, quindi politica. Che non si può fare solo con i versi. Ma neanche escludendoli a priori. Qui le nostre differenti conclusioni sul che fare rispetto alla situazione in atto, dentro e fuori di noi.
Che ci siano anche versetti, anche di autori non di èlite, senza preoccuparsi troppo di raccogliere solo il liquore prezioso di quelli di prima fila, usati come piume sul cappello, perché anche qui (vedi altre iniziative di riviste paludate, e…paludose) non c'è garanzia e riparo dal sapore dolciastro e melmoso.
Certo, scrivere per dare forma versificata a simili risultati tende a giustificare e rafforza indubbiamente le posizioni di coloro che consigliano di tacere, di aspettare e di frenare la logorrea sentimentale. Ma anche su questo ci andrei cauto. Per trovare una scintilla resistente bisogna provare a fare tanti falò, che solo nel confronto e nel tempo mostreranno se sono o meno fuochi di paglia.
Registriamo allora prima di tutto quello che c'è (con tutti i suoi limiti), mettendo come una sonda in esso, per verificare in quanti versi risuona in maniera adeguata la complessità di sensi e di intelligenza di quell'orlo. Occorre dirlo, concordo con te, pochi. Pochissimi i versi forti, che ti scuotono o cambiano qualcosa, che mettono in comune energia vitale e un po' di luce diversa su quello che stiamo vivendo. Pochi sfuggono alla melassa ininfluente, al pianto dolorante, alla scontata invocazione della pace, alla mozione del cuore, alla pietà per i morti ecc. Ma, chiedo, è una novità?
Risultati prevedibili, conoscendo un po' i limiti del barile, se tutto avesse avuto la pretesa di reggersi sulla mozione poetica. Dal punto di vista dell'efficacia sono state certamente più pesanti le parole in prosa di alcuni commentatori o giornalisti, come quelli inseriti in Versinguerra.
Ma l'obiettivo perseguito di raggiungere, attraverso un articolato confronto, luoghi e momenti capaci di restituire maggiore presenza nella complessità internazionale e nazionale, relativa specificamente a noi occidentali europei, era tanto avvertito che non a caso ho scelto di avviare la sezione Espressioni con il testo di Antonio Porta: Europa cavalca un toro nero, del 1958.
Un esempio di come la poesia possa essere presente, al di là di ogni impegno di maniera. Un esempio che fa riflettere su come, noi europei in particolare, tendiamo a rimanere alienati ed estranei (a noi stessi e al resto); che fa riflettere sul come riusciamo o non riusciamo a contrastare quella tendenza con qualsiasi medium o gesto scelto, sia esso scrittura o presenza fisica. L'una e l'altra possono rimanere alienati e virtuali. Non si tratta dunque di una scelta binaria, per cui mi fa piacere la tua sollecitazione a una complessità ben diversa.
Tutto questo implicherebbe un discorso molto lungo - che qui ovviamente non si può fare - sulle radici della nostra cultura, come si è costruita, come ci costruisce e quali limiti di libertà e di intelligenza tende a innescare in noi.

Per una prima grossolana conclusione su quello che cerco di dire riprendo brevemente la ferita dell'11 settembre e della reazione di guerra globale americano-occidentale.
Ognuno di noi - qui intendo noi occidentali europei - ha vissuto l'evento tragico in una catena emotiva di sconcerto, prima, di partecipazione dolorosa, poi. Seguita dai tentativi di ognuno, a partire dal suo bagaglio di conoscenze e convinzioni, di razionalizzare e ragionare su quello che stava accadendo. Ma tutto attraverso il filtro del tubo catodico. Tutto vissuto in gran parte come evento mediatico, virtuale, che tende ad aumentare il senso di estraniazione e di passività.
Eventi tragici tra-dotti per noi da fiumi di immagini e parole. Esperienze già vissute negli ultimi dieci anni. Questa volta con un senso in più di globalità e di evidenza di un gong apocalittico. L'involucro complessivo fatto di immagini lattiginose e catrame di parole tende - prevalentemente - a produrre effetti di chiusura alienata, con sensi di angoscia e impotenza che si esaltano reciprocamente.
Agli estremi di questo lago nero che tende (al di là dei sondaggi) a risucchiare la maggioranza, le posizioni degli schierati visibili: da un lato coloro che condividono le scelte di guerra dei governi occidentali e loro alleati subordinati; dall'altro le proteste dei pacifisti. Chi si sente al centro del lago vede con atteggiamenti di distacco, di indifferenza o di critica queste posizioni, come svolazzi di mosche ininfluenti e ideologiche.
Tuttavia ogni guerra è fatta anche di battaglioni ideologici contrapposti. Il problema del che fare si pone dunque per coloro che si sentono attratti da quel lago di impotenza critica, che non viene trascinato né in idiote esaltazioni di guerra, né in sfilate di protesta, ripetizione di migliaia di sfilate che, con l'occhio retroverso, sono servite a poco più che a dire "io c'ero". Il disincanto critico acquisito può però servire oggi a tarare interventi e iniziative, non dà alcuna giustificazione alla rinuncia e alla chiusura, alla conclusione che è meglio abbandonare, rovesciare il tavolo, e non fare nulla. Questo è almeno quello che penso io.
Il problema è in che forma. Qui e ora, entro quest'orlo, internazionale di guerra, e nazionale di regime telebano. In cui la sinistra parlamentare è appiattita e incapace di ogni minima opposizione rispetto alla deriva in corso - salvo a mettersi in parata dentro qualche manifestazione contro la guerra, dopo aver votato in parlamento a favore della stessa. Salvo opporre poco più che innocue interrogazioni alla deriva di illegalità legalizzata, di arroganza intollerante di chi ha in mano i soldi (sporchi o puliti, poco importa), di cancellazione della memoria (recente la proposta di Alleanza Nazionale di cancellare la ricorrenza del 25 aprile) di grotteschi patriottismi.

Per concludere, non condivido né l'atteggiamento di chi dice, stiamo zitti, non scriviamo o chiudiamo eventualmente nel cassetto ciò che il vizio e l'incontinenza emotiva fa scrivere. Né l'ingenuità di chi pensa che mettere insieme un po' di righe spezzate possa influire sugli andamenti tragici della storia.
Confido invece nella possibilità che le persone possano scambiarsi emozioni e pensieri, costruendo reti critiche e autocritiche, da cui trarre energie per proseguire nel corpo a corpo con la vita. Per questo, pur nelle differenze, condivido e accolgo la tua sollecitazione e quella degli amici incontrati nello sviluppo di questa esperienza (da Anna Santoro di Napoli a Valeria Patera del Coordinamento "scrittori per la pace", a altri esponenti del Sindacato Scrittori di Roma), volta a pervenire insieme a manifestazioni visibili tra Roma e Milano.
Ho già avuto modo di precisare che preferirei non usare il termine manifestazione. Abbiamo esperienza di lunghi anni in cui ogni manifestazione era come una liberazione di stomaco, ugualmente virtuale come tanti bit che circolano nel latte di Internet. Ogni volta tutti a casa e chiuso. Preferisco parlare di rete che rimane tra persone che vogliono ritrovarsi periodicamente per continuare a confrontarsi.
Scusami di queste note, certamente affrettate e non organiche, aperte come sono a ricercare sviluppi.
Con un abbraccio, Adam Vaccaro

01/12/01

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