Versinguerra
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UMBERTO
GALIMBERTI
1- Togliamo i paraocchi ai valori dell'Occidente
Dopo il crollo delle due torri di Manhattan l'Occidente
ha improvvisamente riscoperto i suoi valori. Li ha riconosciuti nella
libertà e nella democrazia, che ha faticosamente guadagnato nel
corso della sua storia e, compatto, si sta disponendo a combattere il
terrorismo islamico, il fondamentalismo e il fanatismo, individuati come
minaccia per il futuro della propria civiltà. Così ridisegnato
il quadro, si sa chi è il nemico e presumibilmente quali sono le
cose da fare, che sono poi quelle che si sono sempre fatte quando il nemico
è stato individuato. Questa logica è vecchia quanto il mondo,
ma forse oggi non è più utilizzabile, se vale l'ipotesi
che forse il "nemico" non è l'espressione di una cultura
altra che si contrappone all'Occidente, ma può essere generato
dalla cultura e dalla pratica stessa dell'Occidente, i cui valori sono
sì la libertà e la democrazia, ma solo come "derivati"
di altri valori ben più fondanti che sono la ricchezza economica
e la potenza tecnica. Se questi crollano anche libertà e democrazia
vanno alla deriva, come noi europei abbiamo visto negli anni tenebrosi
dell'esperienza nazista. Colpendo i simboli della ricchezza economica
e dell'apparato tecnico-militare, i terroristi hanno messo in evidenza
quali sono i veri fondamenti dei nostri valori, incrinati i quali, inevitabilmente
si ridurranno anche per noi gli spazi di libertà, i margini di
sicurezza e speriamo non anche gli spazi di democrazia. A questo punto
dobbiamo incominciare a pensare non tanto a come individuare il nemico
che, fuori dall'Occidente ci minaccia, quanto a quel nesso che rende la
nostra libertà e la nostra democrazia "dipendenti" dal
benessere economico, la cui crescita, che sembra debba essere senza limiti,
non importa a spese di chi, genera inevitabilmente il nemico. E come si
fa a combattere un nemico generato dalle stesse pratiche economiche che
sono a fondamento della nostra libertà e della nostra democrazia,
ossia dei valori in cui l'Occidente si riconosce? Qui il circolo vizioso
si fa stringente, ma anche tragico, perché là dove il nemico
è generato da noi, la contrapposizione amico/nemico, su cui finora
ha marciato la storia, è azzerata, e riprendere questo schema nella
lotta al terrorismo vuol dire non aver capito che le pratiche economiche,
che consentono a noi libertà e democrazia, sono le stesse che altrove
generano, quando non la fame, la malattia e la morte, senz'altro schiavitù
e ribellione. Qui l'Occidente deve cominciare a pensare. A pensare se
davvero può reggere un sistema dove 800 milioni di occidentali
dispongono dell'83 per cento del reddito mondiale. Si obietterà
che non c'è alcuna relazione causale tra la povertà nel
mondo e il gesto terroristico, perché chi non ha neppure i soldi
per mangiare non ha la possibilità di compiere atti che richiedono
molto denaro, assiduo addestramento e una notevole competenza tecnica.
Certo non c'è nessun rapporto causale. Ma solo perché la
storia, a differenza dei congegni meccanici, non ha mai proceduto per
cause ed effetti, ma per speranze di vita e margini di futuro. Ora quando
Usa e Urss si spartivano l'influenza sui popoli della terra, per questi
popoli c'era un margine di speranza da giocare sfruttando la conflittualità
tra americani e sovietici. Ora che l'Unione Sovietica non c'è più,
a tutti i popoli che non appartengono al primo mondo non resta altro futuro
se non quello di subire le condizioni poste dal primo mondo, che è
"primo" solo, perché e fintanto che persegue la sua "crescita"
economica senza porsi alcun limite. Qui i margini di futuro si fanno esigui
e togliere il futuro a una quantità immane di umanità che
abita l'America Latina, l'Africa e l'Asia senza prevedere una risposta
disperata - e tragica per tutti - come può essere quella dei popoli
senza speranza, è davvero da ingenui o da supponenti. I popoli
senza futuro, se non quello previsto per loro dalla logica economica del
primo mondo, non hanno la possibilità di scatenare una guerra al
primo mondo. E allora, se non scelgono la via della rassegnazione, frange
e movimenti possono purtroppo pensare all'arma esecrabile del terrorismo
come ad una via per rivendicare un senso alla loro esistenza, non potendo
mettere in campo una forza militare e al tempo stesso trovando insignificante
e indegna una vita decisa da altri. Proviamo a indagare il progetto omicida
dei kamikaze. I kamikaze sanno che devono morire, sanno che non vedranno
il futuro che con il loro gesto sperano di inaugurare, e allora se vanno
volontariamente contro la morte è perché considerano che
la loro vita è una non vita, è già una morte. Attenzione
allo schema semplicistico secondo cui sono fanatici a cui si è
fatto credere un paradiso che non c'è, perché se questo
può essere in parte vero per il giovane palestinese che si fa saltare
in aria in territorio israeliano, è molto improbabile per piloti
addestrati con un'alta competenza tecnica come la si trova solo da noi
in Occidente. La violenza può essere "elegante" come
quella occidentale che si esprime con la sua ferrea logica economica e,
quando è il caso con le bombe intelligenti che sbagliano di frequente
i loro bersagli, o può essere "rozza" e "proditoria"
come quella terroristica che fa vittime innocenti ma non meno innocenti
dei bambini che da dieci anni continuano a morire in massa in Iraq per
effetto dell'embargo occidentale. Ma la differenza tra "eleganza"
e "rozzezza" è una vera differenza? O non è più
giusto considerare che quando si regolano i rapporti con il resto del
mondo meno fortunato di noi, e in parte per causa nostra, in termini di
"violenza" (sia pure "elegante" come può essere
un rigido condizionamento economico o una guerra a viso aperto, e per
una causa che, a partire dagli interessi che la promuovono, viene percepita
dagli occidentali come "giusta"), possiamo davvero pensare che
la risposta non sia altrettanto violenta con i mezzi che i poveri hanno
a disposizione? La globalizzazione attuata solo a partire dagli interessi
economici dell'Occidente rischia di generare il terrorismo, e il nostro
secolo sarà il secolo del terrorismo se non introdurremo nel processo
di globalizzazione, oltre a quello economico, altri criteri quali l'emancipazione
dei popoli, il loro acculturamento, l'acqua, il cibo e le medicine per
la loro sete, la loro fame, le loro malattie e, insomma, un po' di futuro
per chi non ne vede alle condizioni poste da noi occidentali. Perché
chi è senza futuro è capace di suicidarsi non per depressione
come noi occidentali, ma per un progetto, - esecrabile e omicida - che
neppure vedrà realizzato. Questa differenza antropologica così
radicale va tenuta in massimo conto, perché ci dice che gli uomini
e le culture non sono tutti uguali, e l'uniformità antropologica,
a cui tende il processo di globalizzazione, semmai dovesse essere un valore
funzionale alla tecnica e all'economia dell'Occidente, non è cosa
che si realizza dall'oggi al domani. Anzi io spero che non si realizzi
mai. Dopo la tragedia di Manhattan il Senato americano ha intonato il
canto "Dio salvi l'America". Ma il Dio che gli americani invocavano
a loro protezione è lo stesso Dio che i musulmani invocano. E allora
se sono tutti figli dello stesso Dio, non è certo la religione
o il fanatismo che la religione può innescare a contrapporre così
tragicamente l'uno all'altro. Ci deve essere qualche altra ragione, non
religiosa, non fanatica, non folle, quindi "razionale" alla
base di questa contrapposizione. E allora tocca a noi occidentali, che
abbiamo fatto della conquista della razionalità la nostra prerogativa,
andare a cercare la "ragione", e magari prendere in considerazione
l'ipotesi se non sia proprio la nostra "pratica economica",
che a noi garantisce i valori di libertà e democrazia a generare
i nostri "nemici", innescando così quel circolo vizioso
che annulla per la prima volta nella storia l'antica logica amico/nemico,
perché, per la prima volta nella storia il nemico non è
fuori di noi, di fronte a noi, altro da noi, ma nasce come effetto delle
condizioni di vita che siamo stati in grado di garantire solo per noi.
Da "La Repubblica", 19/09/01
2- Guerre senza ragione
Scrive Kant: "La ragione
è un'isola nell'oceano
dell'irrazionale"
Albert Camus, dopo gli eventi dell'ultima guerra mondiale ebbe a dire:
"Se tutto è possibile e nulla ha importanza, facciamo almeno
che questo non sia un castigo".
E in questo castigo che di uomini devono confrontarsi attraverso la ragione.
Ho letto stamattina che Il nostro Presidente dei Consiglio è, più
che mai, concorde e solidale con Il Presidente degli Stati Uniti d'America
nel valutare lo scenario che stiamo vivendo una lotta "dei bene contro
il male". E terribile sentire dire ciò perché, ogni
guerra, dal momento che Inizia al momento che termina, è sempre
sorretta da questa visione. Oggi, come mio padre, 65 anni, ho paura di
questi "signori presidenti'. Quello che oggi stiamo vivendo non è
uno scontro tra "il bene e Il male' ma è semplicemente la
"follia" di due visioni dei mondo ove non vi è più
spazio per la ragione!
Bruno Audisio - Torino
No sentito In TV le due parole: attacco ponderato. Mi hanno dato Immediatamente
un senso di stonatura, di forzatura, di non verità. Se attacco
è offensiva violenta contro un nemico, ponderato è di un'azione
a lungo meditata valutando saggiamente tutte le Implicazioni di un atto.
E l'attacco di cui si parla sarà Invece reazione In sé giusta,
ma carica di un'emotività che esclude la ponderatezza. Se Il parlare,
da parte di chi ha responsabilità, deve essere frutto di ponderata
ragionevolezza, In quelle due parole messe Insieme vedo una contraddizione
In termini che vorrebbe giustificare ciò che la ragione non può
giustificare.
Pier Paolo Komel - lmola
Si pone come assolutamente necessario e urgente un movimento mondiale
d'opinione pubblica "super partes', criticamente neutrale nel confronti
sia degli americani sia dei talebani. È semplicemente folle rispondere
alla barbarie terroristica con una barbarie maggiore, capace solo di danni
incalcolabili all'umanità e alla stessa democrazia. Questo terrorismo
è frutto di questo capitalismo, ignaro delle parole evangeliche:
"Al poveri va dato il contenuto dei piatto, non gli avanzi".
Sac. Dr. Franco Rafti - Monopoli (Bari)
Sono un suo lettore, vivo e risiedo a New York da ormai 5 anni. Ho letto
Il suo articolo pubblicato su Repubblica pochi giorni fa e l'ho trovato
chiaro e netto da un punto di vista storico. Ho letto anche altre tesi,
altre "spiegazioni" culturali, importanti per orientarsi, ma
che alla fine lasciano un vuoto, un senso di Immobilità. Credo
che forse anche gli Intellettuali dovrebbero pensare a una sorta di soluzione
al problema (sempre che di soluzione si possa parlare), essere più
precisi, prendere parte In modo più concreto al problema senza
esserne così distaccati. Il distacco di tanti Intellettuali suona
spesso come autocompiacimento.
Nicola Benizzi - New York
Trovo sommamente offensivo e culturalmente infantile l'articolo di Umberto
Galimberti dal titolo "Quando Dio arma gli eserciti". Non si
possono accettare affermazione gravemente offensive per i credenti cristiani
dei tipo: "La storia umana è uscita dalla dimensione simbolica
solo da due secoli e limitatamente all'Occidente, che con l'illuminismo
ha promosso Il primato della ragione e quel suo corollario che è
l'ateismo, essendo Dio Il fondamento di ogni dimensione simbolica'!!!
William Giampietro - pwgiampletro@tìscalinet.ft
Delle numerose lettere che ho ricevuto a commento della guerra ho scelto
quelle che chiedono che rapporto esiste tra le pratiche di guerra e l'uso
della ragione. Nessun rapporto, perché la guerra è la sospensione
dell'uso della ragione.
La ragione, infatti, che tutti gli uomini celebrano perché in essa
scorgono la differenza specifica che li distingue dagli animali, è
una macchina che funziona solo nell'ambito di coloro che condividono la
stessa visione dei mondo o, come io preferisco dire, la stessa simbolica,
la quale si costituisce prima dell'uso della ragione e in termini assolutamente
pre-razionali.
È infatti pre-razionale che io ragioni come un occidentale, perché
è pre-razionale che io sia nato in Occidente, abbia avuto una certa
educazione, abbia introiettato certi valori qui diffusi, abbia assimilato
certi usi e costumi, e, a partire da qui, abbia costruito una mia identità,
un certo modo di relazionarmi, di sentire, di pensare, di valutare. Lo
stesso vale per chi è nato nel mondo islamico, la cui simbolica
è dei tutto diversa, come diversa è la simbolica della cultura
cinese, della cultura indiana, della cultura animista africana.
La ragione funziona solo tra chi condivide la stessa simbolica, quindi
solo all'interno della stessa visione dei mondo. Fuori dalle rispettive
simboliche, essendo queste pre-razionali, la ragione non funziona ed è
subito guerra. Con la globalizzazione gli occidentali hanno pensato che
la loro simbolica fosse universale, e perciò estendibile a tutta
la terra, senza rendersi conto che le moltitudini della terra abitano
simboliche diverse, non leggibili con i soli strumenti della "nostra"
ragione che noi abbiamo scambiato con la "Ragione". Per questo
il mondo è diventato così instabile, anni luce più
instabile di quanto non lo fosse nel conflitto tra comunismo e capitalismo,
dove, fatte salve le dovute differenze, la simbolica delle due civiltà
non era poi molto differente.
Se non si capisce la dimensione pre-razionale che diversifica gli uomini
prima dell'uso della ragione, la catena degli orrori e delle tragedie,
innescate dall'uso esclusivo della "propria" ragione, sarà
catastrofica.
Da "La Repubblica",
06/11/2001
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