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MARCO
BASCETTA
Integralismi
allo specchio
Tre minuti di silenzio, giorni e giorni di fragorosa retorica. Quello
che sarà, dopo le migliaia di vite cancellate, l'effetto più
devastante, duraturo e minaccioso del settembre nero di Washington e New
York, è stato salutato, se non proprio come una benedizione, come
un segno di salute e di forza: l'Occidente riscopre la sua "identità"
e unità, il suo "patriottismo", si stringe intorno ai
propri "valori", accantona differenze, distinzioni, conflitti,
per reagire compatto e deciso ("sapremo essere spietati") alla
barbarie che si è abbattuta sul suo poderoso capofila. La stampa
si compiace dello sventolio di bandiere e delle file di giovani americani
davanti agli uffici di reclutamento dell' esercito. Si compiace indecentemente
del fatto che l'Occidente si appresti a fare proprio quello che dalla
moschea di Kandahar, il mullah Mohammad Omar, guida spirituale dei talebani,
chiede di fare a tutti i popoli dell'Islam: guerra santa, guerra del bene
contro il male. Le peggiori pulsioni xenofobe, le versioni più
retrive e ottuse dei concetti di "cultura" e "civiltà"
vengono dissepolte dalle macerie delle torri di New York, per infiorettare
gli editoriali di prima pagina.
"Siamo tutti americani" è forse solo una generosa attestazione
di solidarietà, speriamolo. Ma se non fosse così?
Si devono forse condividere modi di vita e principii di organizzazione
sociale made in Usa, si deve necessariamente sostenere la politica di
potenza della Casa bianca e il Fondo monetario internazionale per combattere
la fanatica ferocia che si è abbattuta sulle città americane?
C'era forse bisogno di accettare la dittatura di Saddam Hussein o il feroce
nazionalismo di Milosevic per solidarizzare con le vittime di quelle guerre
e per criticare le politiche che non avevano saputo impedirne lo scoppio,
quando non se ne erano addirittura spudoratamente giovate? Certo, più
d'uno nel fronte antiamericano, in tempi lontani e recenti, ha commesso
questo errore. Antiamericanismo e filoamericanismo derivano da una medesima
ottusa semplificazione, da una sorta di disciplinamento mentale di tipo
militare. Quella stessa semplificazione di cui si alimentano da sempre
tutti i fondamentalismi del pianeta. Sarebbe naturalmente ridicolo paragonare
le democrazie occidentali al mostruoso regime dei talebani, ma in questi
richiami all'identità, a una appartenenza che non consente dissensi
né varianti, a un sistema di valori, inteso come insieme compatto
e vincolante (che tiene insieme cioè i diritti dell'89 con quelli
delle multinazionali di affamare il mondo all'interno di un unica idea
di "civiltà"), non si può non ravvisare un veleno
comune. I fondamentalismi si chiamano e si alimentano a vicenda. Fu del
resto il fondamentalismo anticomunista americano a resuscitare quello
islamico contro l'"impero del male", rivelatosi poi incontrollabile
come le armi batteriologiche che Washington si rifiuta di mettere al bando.
E, per parte loro, gli "antiimperialisti" si abbandonarono a
indecenti indulgenze nei confronti di mostri politici come quelli generati
da non poche "lotte di liberazione" o dalla rivoluzione iraniana,
in nome della comune lotta contro l'impero americano. E' una lezione che
non si deve dimenticare.
Ma il fondamentalismo, di cui la guerra in tutte le sue manifestazioni,
compresa quella terroristica, costituisce la più adeguata espressione,
non si applica solo nella bellicosa etica oscurantista degli islamisti
o nelle orgogliose fantasie identitarie e armate dei generali della Nato.
Anche la dottrina liberista si presenta oggi con la stessa prepotenza
di un dogma indiscutibile. Come la "scuola di Chicago" sia diventata
qualcosa di molto simile a una scuola coranica è sotto gli occhi
di tutti. Il cosìddetto "pensiero unico", dettato direttamente
dalle "leggi naturali" dell'economia, assomiglia sempre di più
al "libro unico", dettato direttamente dalla volontà
di Dio. Né l'uno, né l'altro si curano delle vittime disseminate
lungo la strada che conduce all'affermazione delle rispettive assolute
verità. Né l'uno né l'altro accettano relativismi
e mediazioni, dissensi o alternative. Tutto è così predisposto
perchè la dottrina liberista, nella sua versione più impermeabile
e prepotente, possa essere infine identificata con la civiltà occidentale
tout court, con la sua natura più propriamente e puramente universalistica,
ben più di quei diritti civili, politici e sociali sempre disposti
a scendere a compromessi con le emergenze politiche e con un relativismo
culturale di comodo e il più delle volte altamente redditizio.
L'emergenza e la minaccia bellica portano a compimento, senza più
residui, questa operazione di accecamento ideologico. Ben poche erano
le voci politiche capaci di levarsi contro questa identificazione e ancor
meno saranno nell'immediato futuro.
Il movimento dei movimenti, la critica dal basso della globalizzazione
capitalistica, costituisce forse il solo antidoto efficace contro il dilagare
del fondamentalismo in tutte queste sue diverse dimensioni, in qualche
modo collegate fra loro. Non ha bisogno di farsi "americano"
per combattere la ferocia del terrorismo, né di sposare tradizioni
culturali oppressive o regimi autoritari e oscurantisti, per combattere
gli squilibri dell'economia globale e le tragedie che ne conseguono (come
è invece il caso, quando non si tratti di pura e semplice ipocrisia,
dell'antiglobalismo di stampo fascista, identitario e micronazionalista)
non ha bisogno dunque neanche di essere "antiamericano". E'
una enorme responsabilità quella che gli si para di fronte. Il
settembre nero di New York non può tacitarlo, ma non può
neanche scomparire nella reiterazione delle parole d'ordine di sempre,
nella lineare certezza delle proprie ragioni, nell'argomento debole, banale,
impotente, secondo cui ingiustizia chiama ingiustizia e disperazione genera
ferocia. Inutili verità, a volte pericolose. La vocazione pacifista
del movimento dei movimenti, la sua pluralità costituzionalmente
antifondamentalista, assumono in questa circostanza una posizione e un
significato decisivi. Chi è in grado di aprire un vasto fronte
di lotta contro quella spirale di guerra, di cui non è dato prevedere
né le dimensioni né la fine, che i cantori della "civiltà
occidentale" e gli ideologi della guerra santa hanno ormai innescato
con reciproca soddisfazione? Chi può essere capace di aggredire
i dogmi del fondamentalismo politico-economico, contrari a quella tradizione
"occidentale" di libertà sostanziale in cui ci riconosciamo,
e che, ben presto anche in versione armata, pretenderanno di cancellare
diritti e conflitti, dissensi e ricchezze comuni delle società
in cui viviamo? Forse è proprio il movimento dei movimenti, a fronte
di una evidente fanatizzazione di istituzioni internazionali come la Nato
in marcia verso la "guerra tra civiltà", a poter rappresentare
una grande forza sovranazionale da contrappore all'affermarsi di tutti
i fondamentalismi e dell'oppressione di cui sono, a vari livelli, portatori.
Le stragi di Washington e di New York hanno scosso, spiazzato i movimenti
di protesta. Soprattutto perchè questi concepivano i propri obiettivi
come prevenzione di quel feroce scenario, come intervento sugli squilibri
che lo avrebbero determinato. E' come se, mentre si discute dell'accordo
di Kyoto, l'effetto serra dispiegasse improvvisamente tutti gli effetti
devastanti che si intendevano prevenire. Il tempo della catastrofe si
è accelerato, quello del movimento dovrà fare altrettanto.
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