Versinguerra
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ROBERTO
CARACCI
Il rombo dell'areoplano
Alzai la testa, appena udii sopra di me, da qualche parte nel cielo aperto,
il ronzio lontano di un aereo. Mi ricordai allora di averlo visto cadere
nel mio sogno, proprio lui o forse un altro, sopra il davanzale della
cucina. Era precipitato trasformandosi in una specie di elica in legno,
o più precisamente nell'asticella di un ghiacciolo spezzata in
due come un'ala. Ma non vidi l'aereo. Le nuvole, sparse a chiazze disordinate
nel cielo alto, coprivano evidentemente la sua piccola sagoma di uccello,
che già immaginavo scintillare al sole come una stella diurna.
Mi rotolai nell'erba e mi misi carponi, con la testa piegata dal basso
verso l'alto, in una scomoda ma divertente posizione, che mi permetteva
di sorvegliare le plaghe azzurre fra le nuvole in attesa dell'aereo. Mi
parve a un tratto di vederlo, più remoto e minuscolo di quanto
mi aspettassi, un puntolino grigiastro che non brillava affatto, e appariva
e scompariva dietro un velo di nuvole leggere. Non sembrava che il ronzio
appartenesse a quel puntolino, che provenisse da quella zona del cielo.
Lo spazio risuonava di un boato remoto e ondeggiante, che pareva ruotare
d'improvviso attorno a me e solleticarmi la nuca, provenendo ogni volta
dalla parte opposta a quella in cui guardavo. Allungai la mano per afferrare
il piccolo bagliore intermittente di quella lucciola di acciaio. Mi sfuggì
fra le dita e tornò a scomparire dietro una nuvola più densa.
Nel mio sogno l'aereo era precipitato, catapultato in una caduta fulminea
e sbilenca dalla forza di gravità. Ma appena era planato sul mio
davanzale, si era come per magia trasformato in giocattolo. Non avevo
visto morti né sangue, e neanche fumo e fuoco. Tutto nitido e pulito,
come un gioco: l'asticella spezzata del ghiacciolo lì sotto i miei
occhi. Solo questo era un aereo, un pezzo di legno fragile sballottato
dal vento, che potevo ora stringere fra le dita e persino distruggere.
Nessun morto, nessun ferito. Non mi ero nascosto la delusione per la naturalezza
senza catastrofe con la quale l'aereo di legno era crollato sotto il mio
naso, quasi spinto da una folata di scirocco. Come un passero implume
e disperso. Non ero certo infelice perché nulla di grave fosse
accaduto, ma sicuramente mi aspettavo uno schianto devastante di ali,
carlinga, coda, ruote. E qualche fiammata istantanea. Niente di tutto
questo. Ero davanti all'aereo del mio davanzale come davanti all'asticella
nuda e insapore del mio ghiacciolo, e avvertivo la stessa delusione di
quando le ultime gocce di ghiaccio zuccherato scivolavano via dalla listella
lungamente succhiata.
Mi misi a correre sull'erba seguendo una pista che approssimativamente
doveva corrispondere a quella dell'aereo dietro il velo delle nuvole.
Ma poi mi accorsi di inseguire solo le confuse onde del rombo che giungevano
alle mie orecchie da ogni direzione. Mi ritrovai a fissare uno sprazzo
di sole appena scaturito dallo squarcio di una nuvola. Chiusi gli occhi
e capovolgendomi nell'onda sonora più potente che mi investiva,
capii che l'aereo viaggiava ora dietro, dalla parte opposta a quella del
tramonto.
Stordito dall'inganno del rombo che oramai mi avvolgeva da ogni lato,
ruotai su me e finii col lasciarmi crollare a terra, sull'erba umida del
tardo pomeriggio. "Cadi, dissi all'aereo coperto dalla nuvole, dai,
cadi. Cadi sul prato, vicino a me. Forza." Aspettai il tonfo, a occhi
chiusi. Invece il rombo parve crescere sopra la mia testa, come a rispondermi
che l'aereo non sarebbe caduto, sarebbe rimasto anzi lassù in alto
per sempre, lontanissimo dalle mie mani. "Gesù, Maria, Giuseppe
e Giovanni - pregai -, fate che l'aereo cada sul prato, vicino a me."
Rimasi con le mani giunte qualche minuto, concentrandomi fortemente sulla
preghiera e il suo oggetto, la carcassa di acciaio dell'aereo che ora
non poteva più deludermi e doveva precipitare. 'Se volete qualcosa
con tutte le vostre forze, aveva detto il parroco a tutti i chierichetti,
basta che vi concentriate e lo chiediate a Gesù, direttamente,
o anche a Maria, allo sposo Giuseppe o al discepolo Giovanni, e tutto
vi sarà concesso. Perché a chi chiede con cuore puro, verrà
dato.' Fissavo a occhi chiusi l'oggetto della mia mente, di volta in volta
mostro di acciaio o listella del ghiacciolo, e premevo le labbra, contraevo
le mani, come avevo visto fare ai santi, ai martiri, ai profeti del deserto
nelle illustrazioni del messale, per fare cadere l'aereo. 'Forse sei un
po' crudele', mi dicevo. Ma oramai che avevo chiesto una grazia al cielo
perchè dal cielo stesso venisse a me il puntolino rombante e si
spegnesse fra le mie dita, non potevo più tirarmi indietro. Il
desiderio era diventato sacro.
'Se accadesse, se potesse accadere', pensavo, immaginando la materializzazione
del mio desiderio. La notizia sui giornali, la foto dell'aereo fumante,
la ricerca dei rottami, il pianto e le urla dei familiari, la teoria di
bare in processione verso i cipressi del cimitero. E io il solo testimone.
Segreto, sconosciuto, anonimo. Non soltanto il testimone, ma l'artefice,
il divino o diabolico responsabile della catastrofe. Nessuno l'avrebbe
mai saputo. Avrei portato dentro di me questo segreto per sempre, come
un talismano, custodendo dietro un'apparenza di uomo comune la mia identità
di assassino. Iddio sarebbe per sempre rimasto il mio complice nel misfatto
e la sua grazia avrebbe implicato l'eterna assoluzione, avendo egli concesso
solo a me il privilegio di poter spazzare a suo nome l'umanità
come muffa o gramigna. A lui sarei stato debitore della mia strage. E
come nelle fiabe, avrei ottenuto così il segno e la garanzia della
mia immortalità.
L'aereo sfolgorò entro uno squarcio di sereno e rimase come immobile,
lassù, sopra il mio capo. Ha rallentato, pensai, è senza
carburante, ha un guasto improvviso, un meteorite l'ha colpito: sta per
cadere, rovesciando come pale le sue ali nel cielo. Le nuvole, spinte
dalla brezza leggera, viaggiavano nella direzione stessa dell'aereo, sicché
non sapevo se questo seguisse le nuvole o fosse ora davvero fermo, quasi
allo zenit, sopra di me. Sentii come se qualcosa mi spingesse a intervenire,
come se a quel punto il compito di decidere che cosa dovesse accadere,
e se davvero quella cosa dovesse accadere, spettasse a me, alla semplice
sentenza legata a un cenno del mio capo. Allora ritenni giunto il momento,
per me, di promettere qualcosa al Signore, di dargli un segno tangibile
della mia volontà, di fare un sacrificio. 'Se fai cadere l'aereo,
dissi al Signore superando la mediazione di Gesù e tutti i Santi,
io ti prometto di non bere acqua per una settimana.' Questo voto rientrava
nei fioretti francescani, ma andava bene lo stesso. Era un sacrificio
duro, lo sapevo, ma la catastrofe di un aereoplano meritava la sete di
una settimana. Rimasi in attesa.
Lacrime calde di delusione ed impotenza cominciavano a solcarmi le guance,
mentre fissavo quell'oggetto di metallo luminoso su cui il sole al tramonto
oramai scaricava un solo denso lungo raggio. Dovevo rimanere così,
con gli occhi bene aperti, a fissare l'oggetto della mia preghiera, perché
era dal filo del mio sguardo e della mia volontà, più teso
del raggio al tramonto, che quel passero d'acciaio sospeso in cima al
muro d'aria avrebbe dovuto iniziare a vacillare, a perdere quota. Ora
il rombo dilagava nell'intera campata azzurra del cielo e le nuvole color
panna parevano tremare e retrocedere all'urto di quelle onde. L'aereo
si allontanava sensibilmente, fendendo le nubi bianche e lo spazio, elegante
come un'aquila reale, sicuro nel vuoto, miracolosamente sospeso tra le
mie ciglia, e il riflesso del sole lo accompagnava. Era un viaggio lento
e tranquillo. Centinaia di passeggeri potevano rimanere seduti comodamente
nella propria poltroncina, leggendo i giornali o consumando la colazione,
perché l'aereo non sarebbe caduto. Una settimana di sete, probabilmente,
non bastava. La mia crudeltà non convinceva Dio, e neanche i Santi.
Chiedevo troppo. E non ero segnato dal cielo per fare in terra giustizia
degli uomini.
L'aereo si muoveva ora nella direzione opposta a quella del sole al tramonto
e la sua sagoma argentea si rimpiccioliva dietro una enorme nuvola a forma
di castello. Le ultime ondate del fragore proveniente dal cielo mi raggiungevano
oramai a fatica. Feci qualche passo nella direzione del puntolino luminoso
e per un attimo mi illusi di poter ridurre la distanza che ci separava.
Mi arenai in un cespuglio dove un lembo della mia camicia si era impigliata.
Il sole si stava rovesciando rapidamente dietro i tetti rossi del paese
e il tramonto spargeva sull'erba e sui tronchi degli alberi il rombo morente
dell'aereo che si allontanava.
Mio padre mi trovo nella semioscurità del prato alle prese con
una lucciola imprigionata fra le mie mani. "Lasciala andare, mi disse,
è ora di cena."
Quella notte, l'asticella del ghiacciolo rigò il cielo nero come
una libellula fluorescente. Era troppo luminosa e leggera perché
io desiderassi che precipitasse. Ma qualcosa doveva accadere. E infatti
accadde che la libellula inclinò il suo volo. E quando già
volevo e temevo che al termine della sua lunga parabola si schiantasse
fra le mie dita, sul davanzale, essa guizzava già nella forma di
una cometa e si allontanava da me e dal mio sogno in un silenzio irreale,
senza catastrofi.
Roberto Caracci
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