L’EUROPA DI MAASTRICHT E QUELLA DEI POPOLI

Pubblicato il 30 settembre 2011 su Saggi Società da Adam Vaccaro

L’EUROPA DI MAASTRICHT E QUELLA DEI POPOLI

Senza un pensiero forte di un’Europa dei popoli, quella attuale dominata dalle banche produrrà crescenti massacri sociali e rinascite di nazionalismi

Franco Romanò

PREMESSA

Non erano in molti, nel 2000, a dubitare che l’edificio di Maastricht potesse reggere. Prevaleva l’ottimismo e la prospettiva di poter girare per l’intera Europa con una moneta unica aveva un suo fascino innegabile. Per le giovani generazioni ma anche per molti non più giovanissimi poteva sembrare una nuova libertà, per gli studenti coinvolti nei programmi Erasmus la conclusione ovvia di un percorso d’integrazione che a loro doveva sembrare ancor più prossimo che ad altri. C’era molta propaganda e anche molta ideologia in tutto ciò, ma occorreva un pensiero forte per dire che la nobile aspirazione a una maggiore integrazione non poteva essere affidata a una moneta e a una banca; nello stesso tempo, tuttavia, occorreva salvaguardare, capire anche quel sentimento di maggiore libertà, al quale occorreva indicare un percorso politico. Il Governo Prodi e i grand commis della finanza nazionale legata a Fondo Monetario e Banca Mondiale che trattarono per l’Italia i rapporti di cambio e le altre clausole connesse al trattato (Padoa Schioppa e Draghi in primis), erano molto lontani dal poterlo fare e accettarono condizioni capestro che sono certamente fra le ragioni della crisi di oggi, accontentandosi (o meglio facendo finta), che all’Europa monetaria sarebbe seguita quella politica e sociale. Tuttavia, occorre capire anche le ragioni degli altri e la logica di certe scelte.

L’Italia doveva pagare un prezzo alla fine della guerra fredda per avere ‘incassato a due sportelli’: in quanto settima potenza industriale compresa nel blocco occidentale aveva goduto dei vantaggi dell’alleanza (piano Marshall e altro), ma in quanto stato occidentale con il più forte Partito Comunista aveva potuto, per ragioni tattiche facilmente comprensibili, commerciare con i paesi del blocco sovietico in una misura ben più consistente rispetto agli altri paesi occidentali, nonché svalutare la lira ad ogni inizio estate per incentivare l’afflusso turistico e riportare in attivo la bilancia dei pagamenti; infine, occupare un posto di primo piano nella politica mediterranea dopo la sconfitta anglo-francese per il controllo del canale di Suez nel 1956.

L’assassinio di Mattei non interruppe del tutto la relativa autonomia dell’Italia sullo scacchiere Mediorientale che trovò una continuazione subalterna, ma pur sempre fastidiosa, nella politica di Aldo Moro, la cui scomparsa dalla scena piacque a molti e non soltanto alle Brigate Rosse. La fine della politica dei ‘due forni’ comincia con l’assassinio di Aldo Moro, vera data d’inizio della conclusione della Prima Repubblica.

Tornando agli anni cruciali del varo dell’euro e del Trattato di Maastricht, la supina accettazione delle ragioni (pur solide) della Germania, che aveva pagato il prezzo più alto dello scontro fra i blocchi e si trovava a dover far fronte all’unificazione-annessione della ex DDR, portò a un cambio del tutto svantaggioso fra lira ed euro, a parte ogni altra considerazione sul Trattato. Al tempo stesso il trio Prodi, Draghi, Ciampi diede vita alla più colossale e servile svendita del patrimonio pubblico nazionale. La vicenda delle strane trattative fra i tre e un pool di finanzieri europei al largo di Civitavecchia sul Panfilo Britannia fu denunciata anche allora ma chi lo fece si sentì dare del complottista come il solito da parte di coloro che si stavano spartendo il bottino. Peccato che qualche settimana fa il sole 24 ore abbia dato del tutto ragione ai ‘complottisti’ di allora ricostruendo quanto accaduto con dovizia di particolari. Se mai, bisognerebbe domandarsi per quale ragione il quotidiano della Confindustria abbia deciso proprio ora di rendere pubblica quella oscura e losca faccenda, mentre si comprende molto bene perché non ne abbia dato notizia Repubblica.

Un segnale, ma rivolto a chi o per che cosa? Forse che bisogna portare a termine il massacro dell’Italia ma che questa volta toccherà farlo fare a qualcun altro? La pubblicazione da parte del Corriere della Sera della famosa lettera inviata dalla Bce al Governo italiano un mesetto fa, illumina questa zona d’ombra, anche se non contiene rivelazioni particolari, se non che in essa è visibile un ruolo maggiore di Confindustria rispetto a quello che scrivevano i giornali più importanti e sostenevano i telegiornali. La consonanza con il manifesto di Confindustria, fa pensare a una scrittura a sei mani e poi consegnata al futuro cameriere della Bce, pronto a servire qualsiasi piatto gli venga messo in mano. Il tutto sembra confezionato per un futuro governo tecnico, sponsorizzato da Napolitano e accolto con entusiasmo dal centro sinistra, con il programma di portare a termine il massacro sociale.

Tornando al momento chiave degli accordi di Maastricht (1994), avvenuto in un momento di alternanza fra governi di destra e di centro sinistra, Rifondazione comunista, silente sulla questione del Britannia di cui doveva essere a conoscenza, pose con il suo segretario Bertinotti il problema di un ingresso che doveva essere pagato dalle classi abbienti proponendo una tassa sull’Europa che Prodi accettò per ragioni che mi parvero allora incomprensibili e che oggi lo sono di meno vista la ricostruzione del sole 24 ore. Dopo avere strepitato contro il Trattato, Rifondazione metteva la sordina al tipo di accordo stabilito sul panfilo Britannia e sbandierava in modo demagogico l’idea della tassa, in buona parte grottesca dal momento che si prevedeva un rimborso successivo a cose fatte. Il polverone metteva la sordina alla svendita reale in corso del patrimonio pubblico nazionale e non rispondeva a nessuno dei reali problemi: un perfetto gioco delle parti ed è per questo, in definitiva, che l’idea della tassa fu accolta, perché la demagogia è sempre un ingrediente perfetto per silenziare altre cosette .

L’idea di una tassa non poteva peraltro né interpretare in modo positivo il sentimento diffuso di soddisfazione per quell’unità seppure fasulla, apparendo in fondo una misura meschina e miope, grettamente economicistica: d’altro canto aizzava inutilmente la becera opposizione dei ceti sociali toccati da quella misura. Nessuna analisi dei meccanismi reali del trattato, nessuna analisi delle istituzioni, nessuna dei processi di delega della sovranità: solo demagogia spicciola a sotto governo.

L’EUROPA DI MAASTRICHT

L’Europa di Maastricht non è semplicemente neoliberista, ma anche monetarista e specialmente senza nessuna istituzione politica che sia altrettanto forte della Bce e del sistema integrato delle banche centrali. Un castello di carta, un edificio costruito a cominciare dal tetto, dunque sospeso per aria. L’intenzione di colmare il vuoto politico successivamente al varo della moneta unica si è rivelata quello che era poco più di un’intenzione perché è stata la dinamica economica a governare il processo, mettendo la sordina a tutto il resto. La ripubblicazione del saggio che Massimo Bontempelli scrisse nel 2001 è impressionante perché in esso sono descritte tutte le conseguenze che le scelte di Maastricht avrebbero comportato. Oggi tutti i nodi vengono al pettine: la stessa spaccatura ai vertici della BCE indica come non si possa fare a meno della politica. Il vuoto e la mancanza d’idee da parte di governi e opposizioni (che dicono sostanzialmente le stesse cose), scarica sulla Banca centrale le tensioni. L’edificio traballa e nessuno sa più cosa fare perché non esistono neppure le procedure per uscire dalla camicia di forza dell’euro.

L’assetto di Maastricht è giunto al capolinea e sta suscitando in tutta Europa movimenti e ondate di protesta, ma anche fra i governi e gli stessi vertici delle istituzioni mondiali, si fa strada e non da oggi, l’idea che la moneta unica per come la conosciamo, ha finito il suo tempo. La sua vita potrà essere allungata, ma non più di tanto: sono le soluzioni, il modo in cui questo avverrà il problema e non comprendo, in questo senso, perché mai Costanzo Preve affermi perentoriamente che l’idea di un’uscita dall’euro non ha alcuna chance. Io penso che ce l’abbia eccome e che il rischio che corriamo è che essa sia pilotata proprio da chi l’aveva voluta, in modo da dividere ancora di più i popoli europei.

Il massacro sociale che comunque sarà il corollario di qualsiasi scelta, genera per forza di cose conflitti che sono destinati a moltiplicarsi: se saranno solo delle disperate jacqueries e il semplice riflesso pavloviano di un sistema che genera conflitti, oppure se diventeranno qualcosa d’altro dipenderà dai programmi che sapranno mettere in campo e dalla nascita di nuove soggettività politiche. Concordo pienamente con Preve quando dice che una parola d’ordine tipo ‘fare come in Tunisia’ non è adeguata; solo che prima o poi la gente lo farà lo stesso perché la pressione sociale dei provvedimenti sarà impossibile da reggere! Preve afferma giustamente che se Berlusconi fuggisse come Ben Alì avremmo un governo tecnico di Monti che farebbe anche peggio: ma questo accadrà comunque, perché se le ricette sono queste anche i popoli che oggi si ritengono al riparo da misure draconiane, ne verranno colpiti! Io non credo, per esempio, che uno scenario di tipo greco sia ancora virtuale per l’Italia: lo ritengo invece concretissimo!

Le soggettività esistenti, i partiti in competizione e gli schieramenti, hanno dimostrato tutti di avere più o meno le stesse ricette e programmi e gli stessi tabù, non solo per drammatiche carenze culturali, ma anche perché in molti casi non sono altro che politici che scrivono sotto dettatura quanto viene deciso da FMI, BM, Federal Reserve, quando addirittura non sono a libro paga dei potentati economici o finanziari. Il cosiddetto conflitto d’interessi non riguarda solo Berlusconi: che dire dell’ineffabile ex cancelliere socialdemocratico Schroeder che il giorno dopo essersi dimesso diventa il numero due della Gazprom di Putin? Come si fa a pensare che fino al giorno prima avesse curato gli interessi di chi lo aveva eletto e del suo popolo piuttosto che qualcosa d’altro? E che dire dello scampato candidato della sinistra francese Stauss Khan che, a parte la sua natura sordida, come si evince dalle note vicende, ha passato l’intera vita nelle stanze e nei corridoi del FMI prima di diventarne presidente? Quando la politica ha i propri candidati fra finanzieri e industriali, oppure elegge Presidenti della Repubblica banchieri (Ciampi), vuol dire che è semplicemente finita perché tutti questi candidati in pectore o meno, sono dei semplici funzionari di altri poteri prestati alla politica.

Credo che un passaggio chiave di questa trasformazione, sfuggita ai più, avvenne quando Margaret Thatcher fu travolta da un’ondata di rivolte popolari a seguito dell’introduzione della famosa poll tax. Mentre molti in Europa inneggiavano piuttosto stupidamente alle qualità democratiche del popolo inglese, i poteri reali prepararono la successione di John Major, il primo dei funzionari anonimi approdati alla poltrona di Primo Ministro. La stessa continua alternanza degli schieramenti al governo, puniti regolarmente dall’elettorato alla tornata successiva (nonostante le apparenze contrarie è stato così anche per l’Italia), non indica salute democratica ma proprio il suo contrario e cioè il totale svuotamento della democrazia rappresentativa. Non sarà un’impresa facile, ma rimanere abbarbicati all’edificio di Maastricht temendo il peggio, ci porterà il peggio comunque. Come funziona l’Europa di Maastricht e come nasce il mostro a due teste: una moneta unica senza stato e un’entità politica governata direttamente da una banca?

Un po’ di storia credo sia necessaria.

L’unità europea, finché sono esistiti i blocchi e la guerra asimmetrica fra i due schieramenti, era un’articolazione interna al mondo occidentale, la cui autonomia era per forza maggiore limitata dagli esiti della seconda Guerra Mondiale e dagli accordi fra le due superpotenze. Velleità autonomistiche sono sempre esistite, così come la guerra economica interna fra Usa e Unione Europea: ma le prime erano destinate a rimanere pure velleità e la guerriglia economica era a bassa intensità perché prevalevano per forza di cose le ragioni dell’unità del blocco. Con la fine del mondo bipolare, cambia lo scenario oggettivo. Il pericolo e il pensiero di un’Europa indipendente cessa di essere una pura velleità, l’Europa può diventare un contendente e questo preoccupa l’establishment statunitense: il pericolo maggiore è proprio quello di un’Europa che diventa davvero un’unione politica e non solo un’area di libero scambio di merci, capitali ed esseri umani.

La battaglia per un’Europa dei popoli era la battaglia che la sinistra avrebbe dovuto fare, ma l’ha fatta solo a prole, talvolta neppure con quelle e tradendola nei fatti o facendo battaglie di retroguardia. Lo strepito anti Maastricht senza alcuna proposta alternativa se non quella generica di un’Europa sociale, non poteva scalfire in alcun modo il progetto neoliberista, la mancanza di proposta e l’accettazione subalterna del progetto europeo varato dai governi di tutte le colorazioni (liberalizzazioni selvagge, deregulation, caduta dei confini fra economia legale ed economia criminale, pratica estesa del falso in bilancio, che comincia con la Ennron e Lehman Brothers e non ad Arcore), ha ridotto drasticamente la stessa influenza elettorale della sinistra più o meno radicale per mancanza di credibilità.

La mancata apertura di un dibattito sulle ragioni di esistenza dell’Alleanza Atlantica dopo che le ragioni politiche e militari della sua esistenza erano cadute, è un altro buco nero nella politica delle sinistre; l’atlantismo fu confermato senza neppure un dubbio. Anzi, per quanto riguarda l’Italia, la trasformazione nel giro di pochi anni del più grande partito comunista occidentale, nel servo più fedele dell’atlantismo più becero, è stato davvero impressionante. Ma anche la minoranza interna che si batté contro la svolta della Bolognina non ha proposto alcun orizzonte diverso, non ha fatto dell’Europa il terreno per una forte proposta democratica, ha condotto battaglie di pura resistenza, anche generose ma destinate alla sconfitta senza un quadro di riferimento di più ampio respiro. Il risultato è stata la progressiva erosione dell’elettorato, la fuga verso soluzioni identitarie (molti militanti della Lega provengono dalla sinistra e non dalla vecchia DC), l’accettazione della politica all’americana, fondata sul carisma del leader, la presenza mediatica, la rinuncia a costruire il partito nel territorio, criticata quando a proporla era quel personaggio ridicolo di Veltroni (il partito leggero e altre sciocchezze), ma sostanzialmente praticata anche da Rifondazione Comunista, partito televisivo esattamente come tutti gli altri, tanto da proporre Vladimir Lussuria come candidato dopo che aveva vinto L’isola dei Famosi!

Il carachiri dell’Europa dei popoli ha un secondo, decisivo e tragico preludio (il primo fu la continuità dell’Alleanza atlantica senza alcun dibattito), nell’abbandono di Sarajervo al suo destino, nel ripetersi come farsa (seppure tragica), degli schieramenti della Prima Guerra Mondiale, che portarono allo smembramento della ex Jugoslavia, alla conseguente guerra civile culminata nella criminale guerra alla Serbia condotta in Italia dal primo governo presieduto dall’ex comunista (o mai stato comunista) D’Alema. La guerra alla Serbia non fu solo criminale in sé, ma lo fu doppiamente per l’appoggio dato alla banda del PKK albanese, una sorta di mafia locale dedita allo spaccio di droga e al traffico di organi. Il risultato di quella guerra fu lo spostamento della più grande base americana nel Mediterraneo in Kossovo (senza che l’Italia ne avesse almeno il vantaggio di vedersene togliere qualcuna delle sue), la fine dei progetti di sviluppo e industrializzazione (autostrada Tirana Belgrado Istambul) e altre infrastrutture. Fra l’altro la Fiat perse qualcosa come 17.000 miliardi d’investimenti.

Il primo atto della possibile Europa indipendente non fu dunque una costituzione ma una guerra! Alla deriva kossovara seguirono tutte le altre successive, all’oscuro (in realtà chiarissimo) attentato dell’11 settembre: Iraq, Afghanistan e oggi Libia, che segna tuttavia un ulteriore passaggio cui va dedicata qualche parola in più. Soltanto la Germana e la Francia (prima di Sarkozy), hanno cercato in qualche modo di porre un argine all’atlantismo più becero, ma senza nessun passo reale verso un’Europa politica, osteggiata dalla Germania, ossessionata dal pericolo dell’inflazione e dei fantasmi che si porta dietro dalla repubblica di Weimar in poi. Infine, con l’avvento alla presidenza francese di una destra non più gollista è finito anche quel residuo di autonomia politica dell’Europa e sono cominciate pericolose spinte nazionalistiche, di cui mi occuperò successivamente.

L’ARCHITETTURA DI MAASTRICHT

Le analisi del Trattato di Maastricht sono aumentate di molto negli ultimi tempi: ne esiste una anche mia pubblicata su Megachip. A tutte queste rimando: considero particolarmente lucide e complete quelle di Guido Viale, del già citato Massimo Bontempelli, di Loretta Napoleoni, di Pino Cabras, di Franco Cardini, di Aldo Giannuli. In sintesi, l’Europa monetarista oggi esistente è un ectoplasma: non è un’entità politica, ma neppure economica mancando di un piano industriale integrato e di una politica fiscale più omogenea: rimangono l’esproprio delle politiche nazionali, la delega agli istituti finanziati e alla Bce del governo reale. Se la paragoniamo agli Stati Uniti, sarebbe come se il Colorado avesse una politica economica e monetaria nonché militare diversa dall’Arizona, ecc. ecc. Un edificio come questo descritto non può rimanere in piedi e infatti è ciò che sta accadendo lo dimostra ampiamente.

Molti si chiedono nel dibattito in corso, come sia possibile però che classi dirigenti per quanto becere abbiano potuto inventare un meccanismo così perverso e qualcuno avanza pure l’idea che neppure finanzieri e governi sappiamo più bene dove si stia andando. Altri accreditano la visione esattamente opposta e cioè che i padroni del vapore sappiamo benissimo dove stanno andando. Questa seconda ipotesi riecheggia nella solita ipotesi mai del tutto sopita del fantomatico ‘piano del capitale’.

Il capitalismo è un sistema anarchico e rimane quello che è, ancora più che non alle origini perché il predominio della finanza sul profitto industriale (da 1 euro di profitto si possono ricavare fino a 12 prodotti finanziari derivati! Il gioco del lotto è più affidabile!), lo rende ancor più anarchico e in balia di fluttuazioni che stanno al confine fra economia e psicologia di massa; dunque è un po’ vero che neppure chi in teoria lo dovrebbe guidare sa dove sta andando (nel senso che è un po’ come correre su un’auto a cui siano stati tolti i freni). Se mai è sbagliata l’idea di partenza: chi è nella cabina di comando non si domanda affatto dove andare o dove stia andando, ma semplicemente di far durare il gioco il più possibile perché lui ci guadagna!

In sostanza è l’esatto contrario di un piano che per definizione prevede tempi almeno medi di attuazione, mentre invece, nel nostro caso, i tempi sono rapidissimi, quando si apre una falla bisogna tapparla in qualche modo drenando nuove ricchezze, non importa che se ne aprirà un’altra domani (e lo si prevede già), l’importante è non fermare la macchina.

Maastricht, in questo senso, non è altro che un gigantesco processo di concentrazione e centralizzazione del capitale che espropria della sovranità non solo i parlamenti nazionali ma anche le banche centrali che non possono più battere moneta, dal momento che può farlo solo la BCE, secondo logiche imperscrutabili, bizzarre spesso e senza alcun controllo politico. Porre l’accento soltanto su questi aspetti, però, rischia di assolvere senza rendersene conto, la responsabilità dei governi e delle forze politiche. Furono loro nel 1994 a varare quel progetto, furono loro a rinunciare alle prerogative della politica mettendosi nelle mani di una finanza che probabilmente li aveva ‘in mano’ anche grazie a colossali conflitti d’interessi e corruzione, ma furono pur sempre loro a privare la politica dei propri strumenti. D’altro canto prendersela solo con le classi dirigenti politiche rischia oggi di essere una protesta contro il ‘babbo morto.’

Come uscire da questa situazione con un’iniziativa politica che sia di contrasto alla deriva ormai evidente del progetto di Maastricht, cui legare però anche una proposta? La prossima manifestazione europea del 15 è un primo banco di prova per i movimenti ma anche per i soggetti politici che vogliono misurarsi con questa sfida, ma rischia anche – come dirò più avanti – di essere in ritardo rispetto agli eventi.

I cinque punti dell’appello DOBBIAMO FERMARLI e altri più o meno simili (quello firmato da Viale e da altri per esempio), sono un buon punto di partenza intorno al quale costruire iniziative politiche in ogni paese, meno chiari invece mi sembrano gli intenti della manifestazione in sé. Le istituzioni finanziarie europee e non sono certamente il primo obiettivo da indicare, anche per rintuzzare un’offensiva ideologica che cerca di scaricare alternativamente su ‘altri’ le responsabilità di quanto sta avvenendo. Se si parla con funzionari di medio-alto livello delle banche più importanti (in Italia Unicredit, Intesa San Paolo e Commerciale), vi sentirete dire che è colpa dei tedeschi e della loro ossessione monetarista e antiinflazionistica, ma se andate in Germania vi sentirete dire che è colpa dei greci, degli italiani e dei portoghesi, se si ascolta il FMI e la Federal Reserve la colpa è dei governi europei. In sostanza è facile per il complesso finanziario e i suoi organi di stampa aizzare i nazionalismi che già trovano maggiore spazio nelle derive populiste di molti leader. L’assenza di un forte movimento in Francia, per esempio, può benissimo scontare l’illusione di essere fuori dalla tempesta della crisi. In sostanza, con l’ulteriore e prossimo aggravarsi della crisi, l’idea di salvarsi da sé a scapito degli altri potrebbe diventare la soluzione facile che leader populisti e demagoghi di ogni tipo si apprestano a cavalcare. Mi è capitato la settimana scorsa di ascoltare l’intervista a una manifestante greca, non una qualunque ma un dirigente del movimento: sosteneva che il FMI si era comportato meglio dell’Europa con la Grecia! Se siamo a questo punto, vuole dire che le condizioni oggettive per una deriva populista ci sono tutte. In sostanza, occorre affermare con chiarezza il principio che il rifiuto è all’Europa di Maastricht e non all’idea di una unione in sé, ma per far questo occorre un’iniziativa politica che aggreghi le diverse aree europee in diverso modo: l’Europa cosiddetta a due velocità esiste già, l’allargamento indiscriminato senza tener in alcun conto i differenziali fra le economie e i regimi fiscali, fu un’altra, fra le molte, decisioni suicide. Occorre una proposta che si rivolga alle diverse aree come primo passo per una strategia comune, e la nostra area di riferimento sono ovviamente i paesi del mediterraneo, Francia compresa, che sarà il prossimo bersaglio che verrà attaccato, e il Portogallo.

Per questo i cinque punti dell’appello, pur importante, non affrontano il nodo politico della questione e cioè rifondare e potenziare istituzioni politiche che sottraggano potere allo strapotere delle istituzioni finanziarie. Se non si affronta questo nodo il vuoto politico potrà esser coperto (in Italia, per esempio), da governi tecnici che farebbero ancora più danni dello stesso governo Berlusconi, come dimostrano le precedenti esperienze dei Governi Amato e Ciampi, i primi ad avviare il massacro sociale di cui oggi paghiamo tutte le conseguenze.

COME USCIRE DA MAASTRICHT

La manifestazione del 15 ottobre rischia di avvenire quando già i buoi sono scappati e vorrei aprire a questo punto una riflessione ulteriore su quanto scrive Costanzo Preve nel suo intervento di ieri su Megachip. La resistenza che il popolo greco sta opponendo in massa ai provvedimenti, può ancora aprire uno scenario diverso, perché il contino e ricattatorio rinvio degli ‘aiuti finanziari’ alla Grecia, nonostante il via libero dato oggi dal Bundestag non mutano lo scenario di fondo. Prima di tutto perché tali misure non serviranno a nulla se non per un breve periodo di euforia finanziaria destinato ad esaurirsi nel giro di poche settimane. Tali misure inoltre sono già insostenibili socialmente e c’è un limite oltre il quale non si può andare: in sostanza i greci potrebbero non avere altra strada che quella di una resistenza a oltranza. Concordo con Preve quando afferma che Teodorakis fa benissimo a tenere unito il popolo greco in questa drammatica fase, ma poi cosa farà una volta esaurita la protesta?

Quello che non capisco è perché i greci siano lasciti soli a manifestare in questi giorni: un segmento importante di quello che accadrà si gioca oggi e il 15 è assai lontano quando contano anche le ore! Una manifestazione di solidarietà immediata e di sostegno alla resistenza a oltranza è secondo me necessaria e potrebbe aprire alla manifestazioni del 15 un orizzonte diverso. Se la resistenza sociale si approfondisce in Grecia e si allarga in altri paesi, subito, è probabile che tutto venga rimesso in discussione.

A MEDIO TERMINE

Franco Cardini, in una recente intervista pubblicata su Megachip, parlava della necessità di creare uno spirito identitario europeo, arrivando a parlare persino di patriottismo europeo come utopia necessaria per consolidare una cultura e una politica che ci porti fuori da questo disastro. Io preferisco la vecchia dizione di Europa dei popoli perché penso che il concetto di patriottismo sia decisamente troppo di là da venire. Fu così per la vecchia Europa carolingia, che Cardini vede rappresentata nella figura recentemente scomparsa di Otto d’Asburgo: ma ci vollero secoli per arrivarci, senza dimenticare che quel modello era pur sempre fondato sulla contrapposizione con il mondo islamico (non c’è Carlo Magno senza Maometto), mentre oggi con le rivolte nel vicino Magreb e Maschrec dovrebbe se mai accadere il contrario.

Tuttavia, Cardini pone con forza un problema non solo reale, ma attualissimo: quello della costruzione di una identità politica e culturale europea, senza la quale saremo travolti tutti. Naturalmente vi è una drammatica discrepanza di tempi: quelli del disastro neoliberista prossimo venturo sono rapidissimi, mentre la costruzione di una identità politica e culturale che indichi un orizzonte diverso da quello neoliberista, ha bisogno di tempo: ma se si resta prigionieri di questa contraddizione non solo non si comincia mai, ma si andrà lo stesso verso il disastro.

Da dove cominciare? Ai cinque punti dell’appello “dobbiamo fermarli” occorre affiancare a mio avviso la proposta di azzeramento delle istituzioni attuali, l’elezione di un’assemblea costituente europea eletta a suffragio universale con proporzionale puro, ma anche l’elezione di organismi di area: Mediterranea, centro e nord; in alcuni casi le appartenenze possono essere di frontiera, ma questo è facilmente superabile. Senza questo, parlare di Europa dei popoli non ha senso, ma va pure detto che un progetto di unione non può essere imposto ma neppure sottoposto al ricatto dei veti come fin qui è avvenuto: parlo prima di tutto dei veti inglesi, insuperabili perché bisogna convincersi una volta per tutte che l’Inghilterra non romperà mai, se non costretta a farlo, i legami particolari con gli Usa e allora bisogna domandarsi se esistono o meno in Inghilterra movimenti che vanno in questa direzione, o meno.

Il secondo aspetto riguarda la cultura: in questo campo si è forse più avanti almeno fra le giovani generazioni, ma manca ancora l’idea di costruire una grande emittente (radio-televisione, riviste cartacee o meno) con redazioni europee: lo spontaneismo della rete non basta, occorre qualcosa di più solido del passa parola, che può essere utilissimo per organizzare manifestazioni ma non può varare programmi e iniziative e obiettivi di lotta.

Infine l’aspetto più delicato e cioè la politica di difesa, che va ripensata come pura difesa e deterrenza, fuori dall’Alleanza Atlantica, ma anche lontana dall’integralismo pacifista. Se a tempi brevi non esisterà un soggetto politico, anche piccolo, ma che tenga accesa la luce di un’Europa possibile e diversa da quella neoliberista, saranno i nazionalismi a vincere e nel giro di una generazione sarà di nuovo guerra.

Non esistono uscite individuali, stato per stato, da questo mostro di Maastricht; il ritorno alla sovranità politica e monetaria è ovviamente necessario, ma non avverrà ripristinando semplicemente la situazione precedente l’introduzione della moneta unica, anche per il semplice motivo che se qualche stato lo facesse – oltre l’Islanda che è troppo piccola per influire sulle dinamiche europee e che oltretutto non faceva parte dell’eurozona – ci sarebbe un effetto domino.

Anche per questo non capisco per quale ragione non si sostengono i greci nel loro no: parlo dei greci e non del loro governo ovviamente! Se l’insurrezione sociale si allargasse in questo momento e trovasse solidarietà in moti paesi a cominciare da quelli mediterranei è possibile che il governo greco sia costretto a fare marcia indietro e a quel punto i precari equilibri in Germania salterebbero di certo. Se soli, è probabile che i greci desistano e allora francamente, manifestare il 15 ottobre sarà pressoché inutile.

Vedi anche su: http://www.agendadiscrittore.blogspot.com/

2 comments

  1. Franco!E’ perfetta… mi occorrerebbe un link per postarla, che va benissimo sulla bacheca di fb.
    Mi aiutI? Grazie,

    Maria Pia Quintavalla

  2. Fabia Ghenzovich ha detto:

    Sì anch’io vorrei postarla su facebook,è possibile avere link? Grazie
    Fabia Ghenzovich

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