DA GRANDE VOGLIO FARE IL BLACK BLOC

Pubblicato il 7 maggio 2015 su Temi e Riflessioni da Adam Vaccaro

DA GRANDE VOGLIO FARE IL BLACK BLOC

Marco Travaglio

(Fonte:  Il Fatto Quotidiano del 4 maggio 20015)

Salve, sono un black bloc.

Vengo da fuori, ma non vi dico da dove, tanto lo sapete benissimo (mi riferisco all’intelligence italiana, che è sempre molto intelligente).
E niente, vorrei parlarvi un po’ del mio lavoro, che mi dà tante soddisfazioni, soprattutto in Italia.
È un bell’impiego, non c’è che dire, specie con questi chiari di luna.
Ben pagato, anche.
Io peraltro sono una vocazione precoce: sognavo di spaccare tutto fin da piccolo.
I miei matusa, ingenui, mi dicevano: “Così non vai da nessuna parte, devi smetterla di sfasciare ogni cosa che vedi, fatti una posizione”.
Ho fregato anche loro: mi son fatto una posizione sfasciando tutto.

Sono richiestissimo, indosso una divisa strafica (il nero della tuta mi slancia e acchiappo un casino), giro il mondo. Prima, ai tempi del G8 di Genova, avevo un contratto Co.Co.Co (acronimo di Cosa Colpire a Cottimo), poi trasformato in Co.Co.Pro (Cosa Colpire a Progetto).
Ora invece, grazie al Jobs Act, mi han fatto un tempo indeterminato a tutele crescenti: più vetrine sfascio, più macchine incendio, più negozi devasto, più poliziotti meno, più le autorità italiane mi proteggono.
Avete mai visto un black bloc manganellato o arrestato in Italia?
Io mai (parlo di noi col marchio Doc, diffidate dalle imitazioni e dai franchising).
È una sensazione eccitante: accendi un fumogeno, ti cambi d’abito nella nuvo-
la di gas, metti a ferro e a fuoco la città, e sfili indisturbato fra due ali di folla, di polizia, di cameramen e di fotografi professionisti e dilettanti: nessuno ti tocca, neppure una pieghina sulla tuta, bello lindo e liscio come l’olio.
Meglio di Mosè tra le acque del Mar Rosso.

Nel 2001, quando ho debuttato a Genova, non ci volevo credere.
I miei istruttori mi avevano detto: “Andiamo là, sfasciamo tutto, non ci fanno niente e torniamo a casa”.
Parlavano anche di un contratto nero su bianco, ma io quando vidi tutta quella polizia in tenuta antisommossa pensai a una frottola per convincermi a partire. Invece avevano ragione loro: la polizia menava i ragazzini, i vecchietti, persino qualche suora, ma a noi non ha torto un capello.
Non per nulla avevamo la divisa: per farci riconoscere.
Alcuni dei nostri entravano e uscivano dalla Questura e fuori le solite zecche coi telefonini filmavano la scena.
Ho detto: “Siamo fritti”.
Invece poi le zecche sono andate a dormire alla Diaz e la polizia ha distrutto tutto: crani, nasi, ossa, cartilagini, braccia, gambe, toraci, e naturalmente cellulari e filmati.
Un lavoro da manuale, roba che mi son sentito un dilettante: però ho imparato molto.
Da allora, con un po’ di amici, abbiamo messo su un’agenzia, la GEPI: Grandi Eventi Pronto Intervento.
Siamo richiestissimi.

In Italia facciamo sempre comodo a qualcuno per sputtanare quelli che nei movimenti antagonisti si battono pacificamente (pensa quanto sono coglioni) contro le mafie e le bande nascoste dietro le sigle Tav Torino-Lione, Expo Milano 2015, Mose, ecc.
Appena si muovono, arriviamo noi e sfasciamo tutto.
All’inizio era un secondo lavoro, ora è diventato il primo: abbiamo proprio una tessera-coupon con lo strappino da staccare di volta in volta.

E i capi dei No-Qualcosa ci lasciano fare.
Un po’ perché non hanno ancora capito che a noi non frega una beneamata cippa del Tav, di Expo, del Mose (veniamo da Belgio, Germania, di qua e di là e manco sappiamo che roba è, quella).
Un po’ perché non hanno ancora capito che noi lavoriamo contro di loro.
O, se l’hanno capito, fanno pippa perché hanno paura di noi, o perché gli facciamo comodo, li facciamo sentire importanti e temuti, con tutti quei titoli sui tg e i giornali.
Se sfilassero pacificamente, non se li filerebbe nessuno.
E la stampa parlerebbe d’altro: dei disoccupati che aumentano, delle bugie del governo sulla crescita, dell’Expo tutto calcinacci e cartongesso per nascondere i cantieri mai finiti, degli inquisiti candidati alle Regionali.

Noi siamo l’offerta a una domanda di mercato: facciamo comodo a tutti, al governo e agli antagonisti.
Non c’è neppure bisogno che ci chiamino: lo sappiamo noi quando serviamo, partiamo da soli senz’avvertire nessuno.
Tanto lo sanno tutti che arriviamo: gli antagonisti come il governo.
Scusate, ma che altro han mai fatto i servizi segreti italiani dagli anni 60 a oggi se non infiltrare i gruppi antigovernativi di destra e di sinistra?

Nel 1969 sapevano che i fascisti avrebbero piazzato la bomba in piazza Fontana, e gliela lasciarono piazzare.
Nel 1978 sapevano che le Br avrebbero rapito Moro, e glielo lasciarono rapire.
Nel 2001 sapevano che avremmo distrutto Genova, e ce la lasciarono distruggere.
È una tecnica vecchia come l’Italia: si chiama “destabilizzare per stabilizzare”.
E funziona ancora: dopo 50 anni, la “pista anarchica è un evergreen.
L’altroieri lo sapevano benissimo che avremmo fatto quei danni a Milano, e ce li hanno lasciati fare.

Non parlo dei poveri e ignari poliziotti da strada, mandati allo sbaraglio con l’ordine di non caricare (tant’è che sono riuscito a incendiarne uno così, en passant).

Parlo di chi, dietro e sopra di loro, sapeva da mesi del nostro arrivo, e l’ha pure fatto scrivere dai giornali e dire dai tg per fare bella figura, poi ci ha spianato la strada come sempre.
Con la differenza che con Berlusconi l’ordine era di menare qualcuno purchessia, a caso (esclusi noi, ci mancherebbe).

Ora invece, dopo la sentenza di Strasburgo sulle torture alla Diaz, la consegna è non menare più nessuno: prenderle e basta. Così poi le vostre solite teste di Twitter possono dare la colpa a Fedez (un rapper mandante nostro? Uahahahahah).
E quel genio di Alfano può dire: “abbiamo evitato il peggio”.
Ma come si permette di svilire così il nostro onesto lavoro?
Che si aspettava, i bombardamenti di Dresda?
Comunque, messaggio recepito: al prossimo grande evento, faremo meglio.

Marco Travaglio

4 maggio 2015 – Il Fatto Quotidiano

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