Google – Il nome di Dio – Letture 10

Pubblicato il 10 settembre 2022 su Scrittura e Letture da Adam Vaccaro

Google, fallace divinità virtuale

Claudio Zanini

Adam Vaccaro, Google – il nome di dio, puntoacapo Ed., Pasturana (AL), 2021, pp. 101

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 Tra i molti versi dell’intenso libro di Adam Vaccaro, Google – il nome di dio, mi hanno colpito quelli dedicati al novello oracolo postmoderno: Alexa (anch’io ne ho un esemplare). La si interroga, dunque, questa novella Sibilla aspettando la risposta. Pausa ansiosa, quindi, s’ode quel languido risuonar vocale che par rivolgersi esclusivamente all’intimo tuo, segreto. Voce di simulacro incorporeo che allude alle strabilianti cose che potrebbe dirti, inducendoti a immaginarle in favolosi sogni, non a percepire l’esiziale inganno che t’irretisce. (Nota: nel film Her, (2013) di Spike Onze, uno scrittore s’innamora di una virtuale ma suadente voce femminile. Finirà amaramente disilluso quando Her gli dice che ha un paio di milioni d’amanti come lui.) Il poeta, però, non si lascia sedurre, anzi svela, con crudele sarcasmo il raggiro. Lo smaschera: Alexa, “piccola madonnina sul comodino” d’apparenza innocua è tremenda creatura dell’orrore plasticato. Voce, “che non puoi vedere né sentire” d’algoritmico nitore, perfetta nel suo vuoto suadente e nell’assenza di corpo e anima; “madonna-universo di miliardi di stelle, stelline madonnine” (27). Insieme ad altri sofisticati marchingegni, Alexa è generata dal potente dio Google, che chiede al fedele di affidarsi totalmente a lui: “venite a me, fanciulli (…) credete in me, solo in me”,(24). Divinità virtuale e in ogni luogo che, sebbene prometta un universo di merci, non riesce a concedere neanche “un po’ di pio pane di pace” (28) a un diseredato in fila al “Pane quotidiano” e dispensa soltanto illusioni e speranze fallaci.

Alexa, dunque, come il Bimby prodigioso che “frulla, t’impasta e ti cuoce” (29) non solo il cibo ma anche la tua carne e il tuo cervello, in un turbinio inarrestabile; come l’oggetto microscopico di plastica, metallo ed elettroni ignoti, che “ti entra nella carne, nella testa nel cuore con bit di un ago/ capace d’infilzare anche l’ego che si crede più immune” (25); e i mille nuovi Canali TV, ciascuno esclusivo per te utente consumatore, in cui si può “dimenticare ogni angusto pensiero” e ricevere falsità spacciate per unica verità (26). Quindi, l’infinita litania delle strepitose occasioni: “solo 99 euro al mese, anzi 89, (…) solo 69, ma l’offerta finisce” (30) inesorabilmente domenica per ricominciare il lunedì; e, ancora, l’armonia intatta sebbene nauseante dei vari mulini bianchi “dove non si sente il grido di milioni di morti di fame” ma è ribadita “l’importanza di depilarsi (…) deodorarsi e profumarsi (17-18). Un martellamento di “deliranti spot ininterrotti di 1000 TV” (54) che sfinisce ma non finisce, una sorta di costante colonna sonora che frulla il nostro cervello e avvelena la mente.

Sono versi duri e amaramente sarcastici della prima sezione del suo testo, Cuore nero, titolo che, non a caso, richiama alla mente Cuore di tenebra dove Conrad descrive l’infamia e l’orrore della colonizzazione in Congo. Anche qui si tratta di colonizzazione delle nostre menti, che Vaccaro mette lucidamente allo scoperto: “impareremo a essere/ più rispettosi/ più sospettosi/ più patriottosi/ più esclusi/ più ansiosi forse/ più ammansiti o/ più annientati …” (40) e “italiani educati come bambini / in fila rieducati come topini/ come marmotte pietrificate” (41); e così via. Impiegando magnificamente il medesimo lessico del linguaggio mellifluo e insinuante, ma stravolgendolo contro il sistema che lo produce e mostrandone gli inganni, Vaccaro svela quella strategia di livellamento sociale che, come diceva Pasolini, tende a “deformare la coscienza (dell’individuo) fino a un’irreversibile degradazione”. Uno stordimento esiziale in cui, tuttavia, scrive Vaccaro, presto dell’”ala gelida del male potrai sentire anche i denti – che dei sapori dell’amore amano il suo caldo sangue” (33); in effetti, “volano avvoltoi su noi come fossimo carogne da spulciare” (16). Sono “intelligenti cretini” i cinici dominatori d’una realtà dove “maiali che grufolando ci succhiano la pelle e l’anima” (50), “spacciano falsità come unica verità”; sciacalli famelici e assetati si nutrono “persino della tua pietà” (51).

Oltraggiata, la lingua viene ridotta a miseri stereotipi anglicizzanti, a cliché vuoti di significato. Siamo, infatti, costretti a leggere e sentire questi orrendi suoni: runner, startapp, easy, smart, light, like, wireless in tilt, trendy, ecc. (17), oppure a subire l’inflazione delle faccine gialle, simpatiche icone che però riducono il senso, allegramente lo svuotano. Sostituendola, immiseriscono la lingua.

Tale impoverimento è sintomo palese di quella mutazione antropologica, prodotta dal neoliberismo, che Pasolini aveva previsto: “mostruosa omologazione alle regole di un pervasivo mercato globalizzato, un adeguamento generale dell’umano alla sola dimensione del consumo” con i suoi mortiferi feticci, la tragica riduzione della complessa bellezza del mondo a una manciata di algoritmi prodotti da un Potere avido e totalizzante, funzionali al modello di sviluppo neoliberista che ci vogliono imporre.

Siamo, dunque, soffocati dalle spire del gergo di “rimbambilandia”, squallido e conformista, appiattito su un misero presente e funzionale al mercato globalizzato.  Opposta e rara è invece la parola poetica che, scrive Vaccaro, deve assumere un ruolo etico, incidendo il reale come “un coltello impietoso che divida il male e il bene”. Si è già accennato a come l’autore impieghi gli stessi neologismi di questo perverso lessico torcendolo contro se stesso. Con sarcasmo lo cita – adottando il tono scandito dell’invettiva e dell’amara ironia – smascherandolo in sequenze in cui interrompe la fluidità del verso mediante un ritmo sincopato, fratture d’arbitrari a capo (enjambement anche a mezzo d’una parola), ripetute allitterazioni, inceppamenti e pause ansiose nell’ordito del discorso.

La scrittura poetica di Vaccaro, tuttavia, non è solo fiera invettiva e denuncia, in quanto si avvale di molteplici registri espressivi, coinvolgendo il lettore in un flusso emotivo dove la parola si manifesta sia come materiale corporeo dagli aspetti bassi e triviali, sia come lingua lirica in grado d’esprimere emozioni e sentimenti e “sappia ancora dire di me e di te”. Possa essere, in poche parole, autentica comunicazione tra umani soggetti, e dire quell’indicibile che mai, nessun algoritmo potrà ingabbiare. Se povertà e vuoto di senso caratterizzano il lessico del linguaggio dei cosiddetti social, il medesimo vuoto permea la condizione umana cui il poeta si rivolge con testi d’appassionata e dolente partecipazione.

Vaccaro tratteggia con crudo realismo figure di diseredati avvolti dal vuoto, di vinti “muti dietro al nulla” (Marina e Renzino) (19-20), relitti umani che hanno “già visto il vuoto” (il ragazzo che si occupa “di arte della sopravvivenza”(21); di rappresentanti un’umanità misera rintanati come topi sotto un “ponte pieno di niente” (Pietro-Mohamed) o dentro un tubo di ferro; oppure di emarginati come Rosina, desolata creatura sotto “un cielo lattemiele e gelo della tv” che chiede a lei 9 euro per i bambini dell’Africa mentre spudoratamente cresce la ricchezza dell’oligarchia “dominante del vento iperliberista”, di coloro che “salvano il capitale dalla caduta del saggio di profitto, ammassando miseria a miseria, disperazione a disperazione” (54); mentre “il denaro (diventa) (…) mina vagante nelle mani d’invisibili croupier sul tavolo dell’immenso magma di debiti imposti/ al mondo” (49) e di coloro che perseguono la logica chimerica e perversa dell’infinita crescita del PIL.

Fronteggia questo rovinoso panorama contemporaneo, infida “palude senza guida e senza idee”, il recupero della tradizione attraverso il ricordo di paesaggi dell’infanzia: la natura della campagna molisana, “la piazza e/ la linea della collina che incorona/ il limite del/ mondo”; un aspro “paese di sassi… (con) sentori di vita e d’infinito” dove sgorgava una fonte “la cui acqua poteva dare l’illusione di tergere tutti i peccati e gli orrori del mondo” (63). Sono concrete e vitali memorie di sapori, aromi, sensazioni che evocano sullo sfondo un appassionato slancio verso l’utopia di un possibile altrove giusto e armonico.

Ecco, ancora Ciao bella ciao, canzone partigiana e voce dell’anima smarrita che immagina “un cielo ancora possibile, – unico tra passato presente e futuro” (55), ora negato ma costante presenza nel pensiero e, soprattutto, nel cuore del poeta. Un ideale possibile vivificato dal ricordo della Resistenza, che risuona nell’esortazione di Vilma, staffetta partigiana: “forza! La vita è vostra e nelle vostre mani, ragazzi!” (57). Poiché c’è ancora spazio per “fondamenti d’inventio e bisogni di ricostruzione tra ridenti pori e colori di libertà” (58). Un bagaglio ricchissimo di ricordi che, dunque, non sono mai riflusso nel rimpianto del passato, bensì rielaborazione costante del vissuto e consapevolezza della necessità d’agire nella storia presente.

Il poeta, infatti, rivedendosi ragazzo, chiede a quel lontano se stesso: “profumami ancora origano molisano questo mio stare qui” (64). Questo “qui”, è l’oggi di Adam Vaccaro che, alla conclusione d’un percorso individuale – dalle radici mai recise nel cuore di una natura contadina, al tempo presente nel fervore della metropoli milanese –, vive il suo attuale impegno aprendolo all’altro (per esempio, con l’associazione culturale Milanocosa) con la medesima passione. La sua poesia si rivolge a un interlocutore che intende scuotere e indignare esortandolo alla lucida critica e al dissenso nei confronti di una società che si riempie la bocca di valori che costantemente infanga e tradisce.

L’ultima sezione, Cuore bianco, si apre con la considerazione: ora sono “ricco e immenso in ogni cosa”, dopo “la conta delle spese e dei presagi”; vale a dire, dopo l’attraversamento di una vita (60), scrive l’autore in un sonetto di suggestione e misura dantesche.  Nel suo denso itinerario esistenziale persiste il pensiero costante delle “forme di un’utopia (…) resistente nella mente”, “un’utopia impossibile imprevista e resistente” cui corrisponde la volontà indomita di chi non s’arrende e si esprime aprendo bianche ali e “spiccando voli negati che il cuore continua a inventare” (62), e “polvere di morte che (…) si alza e ritrova il volo” (65); come il fiore d’autunno che “non smette di parlare della primavera” preannunciandola.

Infine, in chiusura, ci sono le poesie dove la speranza si realizza, quasi il progetto d’un mondo nuovo acquisisse una forma vitale, reale e viva, nei nipoti, nuovi nati. Il linguaggio si fa meno aspro, più dolce e trasparente. Smussa le asperità dell’invettiva, quasi illuminandosi in attimi d’infinito (vedi Chiara luce, 71). Oltre la trama d’un sistema che vorrebbe pietrificarlo nei suoi infallibili algoritmi, scopre il tempo ignoto nel mistero della nascita (72); riconosce una temporalità che ubbidisce soltanto ai ritmi della natura e agli spazi dell’affettività.

In parallelo, alla delicata e nitida presenza dei nuovi nati, si delineano le affettuose immagini del padre, “viso pulito di staffetta militare” in Croazia. Lo rivede in una vecchia foto, con quel “sorriso rimasto in me”… nel “disfatto viso di ritorno a casa dal tuo inferno tedesco” (75). Cui si aggiunge il ricordo del nonno, seduto sulle sue ginocchia, “radice viva che resiste e batte ancora qui, intatta” (76).

Un canto alla Vita e una commossa rievocazione paterna concludono questa intensa vicenda poetica. “Un percorso che da un inferno risale ad attimi di un possibile paradiso”, come scrive lo stesso Vaccaro nella sua nota finale.

                                                                                              Claudio Zanini, agosto 2022

 

 

2 comments

  1. Mariella Bettarini ha detto:

    Caro Adam,

    complimenti sempre, di tutto cuore. E’ quanto meriti!
    Grazie per i tuoi preziosi invii e mille auguri.
    Un saluto affettuoso da

    Mariella

  2. VACCARO ADAMO ha detto:

    Ricevo email col commento che segue, di Claudia Azzola:

    Ho finalmente letto la recensione di Claudio alla raccolta poetica di Adam Vaccaro, recensione puntuale al ciclo completo in cui la poetica dell’autore si misura e si svolge, in tutte le sue forme espressive. Un ciclo, appunto, che dopo l’attraversamento dell’insignificanza retorica e morale di un mondo dell’oggi approda a un cielo di speranza e di umanità rinnovata perché perseguita. L’esame di Zanini è profondo, la sua lettura competente dal punto di vista retorico e partecipata dal punto di vista della ragione e della volontà che comunque sempre si deve esercitare.
    Claudia Azzola

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