Dibattito sulla poesia contemporanea-II

Pubblicato il 26 luglio 2010 su Saggi Poesia da Adam Vaccaro

SECONDA LETTERA DI INTENTI

Giorgio Linguaglossa

Faccio seguito alla mia Lettera di intenti del 10 luglio 2010 nella quale caldeggiavo:

1) «che ciascuno degli addetti al comparto poesia che scriva su cose di poesia, esterni quello che pensa realmente intorno all’oggetto poesia e non quello che conviene (opportunisticamente) che si dica (per via degli scambi di relazioni e convenienze «politiche»); vorrei appena aggiungere che attendo di conoscere il parere dei vertici delle maggiori istituzioni della poesia italiana, perché la questione è di pubblico interesse e la cosa chiamata poesia è una questione pubblica.

2) In quella sede, sollecitavo le personalità chiamate in giudizio ad esternare il proprio punto di vista. La mia richiesta era rivolta agli intellettuali e ai critici (se così possiamo ancora chiamarli), agli addetti agli uffici stampa delle case editrici.

La ragione è che oggi, in Italia, siamo arrivati ad un «punto» dietro il quale non si può più indietreggiare: la cosa chiamata poesia soffre di una gravissima epidemia che ha invaso un po’ tutti i tessuti della istituzione-poesia (e del paese)… una riprova di quello che dico è nel silenzio indistinto e nebuloso dei vertici delle istituzioni letterario-poetiche, nonché nel silenzio (colposo e colpevole) di quei vertici. Il risultato è che siamo immersi in una marea sterminata di mediocrità letterarie che proliferano poeteggiamenti risibili e generalisti, “poesia” piccolo-borghese edulcorata e piastrellata di banalità… di cui l’ultimo esempio di poesia dalle piastrelle colorate è senza dubbio Roma (Guanda, 2010) di Franco Buffoni il quale ormai, privo di ritegno alcuno, pubblica un libro di piastrelle colorate ogni sei mesi, frutto di esibizionismo turistico, autofinzione autobiografica e topografica (Roma?). Siamo ormai arrivati alla discarica letteraria, alla raccolta differenziata dei rifiuti indifferenziati.

3) A questo punto, vorrei qui riprendere e rilanciare la proposta (scandalosa e paradossale) formulata dal poeta Luigi Manzi il quale in data 21 giugno 2010, chiedeva una «moratoria poetica», ovvero, una astensione dalla pubblicazione fino a data da destinarsi, una sorta di «autocensura», «visto che le parole non servono più per argomentare e i tropi letterari vengono usati neppure come artifici retorici ma come farmaci ipnotico-sedativi… bonzi e gonzi convivono in una sciagurata mattanza… in cui si muovono una quantità di furfanti, lenoni, profittatori, dispensatori di indulgenze e… uno stuolo di vittime inconsapevoli… Su di loro – su ingenui e finti ingenui – si fonda la vertiginosa babele sul cui apice nebuloso siedono certi illuminati delle università e delle case editrici…»

Roma, 13 luglio 2010

Risposta d Gianmario Lucini

Ribadisco cocciutamente che, nonostante il mio sincero apprezzamento per la statura morale del critico Giorgio Linguaglossa e riconoscendo come sensate e utili gran parte delle questioni che egli pone, NON mi trovo assolutamente d’accordo con questa proposta, per alcuni sempici motivi:

a) non riconosco, come artista, nessuna istituzione al vertice della poesia italiana, casomai una degenerazione di quello che Adorno chiamava “Industria culturale”, che di culturale non ha più nulla e forse neppure di industriale (un fai-da-te di bassa lega).  Ma evito di leggere proposte che vengano da quella parte, non per manicheismo ma per mancanza di tempo e di interesse;

b)  Le “rivoluzioni” non si fanno mai dall’alto: la storia insegni. Dall’alto ci viene solo repressione e se apriamo gli occhi ce ne accorgiamo. Occorre una proposta dal basso. Ne potrei fare, almeno due o tre; e se ci penso un giorno magari anche cento. La potrebbe fare chiunque, ma che partano dal basso, dai critici, dai poeti (specialmente) perché nessuno deve dirci che cosa è o non è poesia, ma soltanto accogliere o rifiutare il nostro personale modo di comunicare. Il lettore ha il compito di leggere, il critico di criticare, l’editore di editare, il distributore di distribuire, il poeta di scrivere.  A ognuno il suo. E si può con un minimo di creatività, rompere le balle dal basso perché ognuno faccia il suo lavoro senza invadere il campo altrui. Il problema è che noi siamo così individualisti che NON RIUSCIREMMO MAI ad organizzarci: ci manca l’umiltà necessaria, lo spirito di servizio e la socialità. Ci vuole sempre un’autorità morale o economica che ci dica cosa fare e ci obblighi a suon di ricatti. E in fin dei conti, non è quello che già accade?  Re Travicello insegna.

c) La proposta di Manzi io personalmente l’ho praticata per 10 anni. Non certo per sdegnoso diniego, ma per evitare di farmi sfruttare da questo giro squallido. Ho almeno 5 raccolte nel cassetto, nelle quali credo, oltre agli infiniti versi da macerare. Se Buffoni, come dice Giorgio, si sputtana, peggio per lui (io non l’ho letto: è da anni che non acquisto più un libro perché ne sono sommerso. Figuriamoci se, da critico, devo anche acquistare le opere da criticare…gratis: alla malora!). Anzi, chiederò che mi mandino file PDF: se il libro mi piace lo acquisterò. La proposta di Manzi è tagliarsi le palle per far dispetto alla moglie e, virilità o altro a parte, mi sembra una sciocchezza. Se un poeta non comunica non ha motivo per scrivere. La proposta di Manzi è il nulla invece del Caos. Dal nulla non nasce nulla, ma dal caos può venire qualcosa, se si usa intelligenza e apertura mentale – e il coraggio di lavorare insieme, come qui si sta facendo con queste mail, ad esempio, senza sentirsi i primi della classe.

Infine, io NON sono d’accordo che la poesia italiana vada male e addirittura si parli di punto di non-ritorno. Ho visto molti ottimi libri, in questi ultimi anni. È vero, due o tre all’anno, non di più.  Poi tanti libri buoni ma non eccellenti, e moltissimi libri mediocri e da non scrivere (“borghesi”, appunto). D’altra parte, se ai tempi di Picasso avessero dipinto solo Picasso e Cézanne, non sono poi tanto sicuro che saremmo più colti e più raffinati nei gusti estetici.  Anche il ciarpame ha un suo ruolo, e anche l’intelligenza critica che lo nota e lo smaschera. Bene, se riusciamo a produrre ogni anno tre libri di poesia che sia poesia, noi saremmo un popolo civile. Il ciarpame è per il giro dei gonzi? OK, che si strafacciano di questo ciarpame sui mass media o dove credono meglio strafarsi. Ma non possiamo pretendere di redimere la gonzità. Additarla, distanziarla, distinguersi dal coro di ranocchie, ecco, questo si può tentare. E anche rompere le scatole e provocare con furbizia e intelligenza: io ci sto. Ma la libertà è sacra, anche quella dei gonzi di essere gonzi e felici. Amen.

Abbracci a tutti

14/7/2010

RISPOSTE DI FABRIZIO DALL’AGLIO

Caro Giorgio,

nel mio piccolo credo di averti risposto (vedi lettera che segue, ndr), in quanto consulente editoriale della Passigli. Riguardo alla moratoria editoriale per i libri di poesia italiana contemporanea che propone Luigi Manzi, francamente credo che molte case editrici (fra le quali la Passigli) aderirebbero molto volentieri. Io credo che ci si dimentichi che tutte le attività imprenditoriali sono dominate da logiche di mercato, e che il mercato significa “offerta” e “domanda”: ora, chiederei ai poeti che si lamentano delle case editrici italiane: pensate davvero che esista una “domanda” per i vostri/nostri libri? A fronte, questo sì, di un’“offerta” talmente inflazionata che non si capisce davvero quale destinazione possa mai avere.

È inutile nascondersi dietro un dito: l’editoria non sa che farsene della poesia italiana contemporanea, dal momento che lo stesso pubblico della poesia (almeno se ci si riferisce a numeri che possono interessare gli editori – in quanto imprenditori, ripeto) non sa che farsene. Se invece spostiamo l’attenzione, come fai tu, sulle scelte editoriali, sulla loro “impurità” o incomprensibilità, credo che valga il discorso che ti facevo nella mia mail precedente (che, naturalmente, se vuoi pubblicare come hai fatto per altre a me va benissimo). Ripeto dunque che quando non esiste un vero interesse editoriale per la poesia italiana contemporanea, è facile allora che le scelte siano all’insegna della pigrizia (soliti nomi noti, o comunque un po’ più conosciuti degli sconosciuti), delle amicizie, delle seccature in genere che il non pubblicare potrebbe caso mai comportare.

Nessuna collana di poesie che io conosca mi pare esente da questi rischi; chi, come me, lavora comunque nell’editoria, si accontenta che non tutti i libri, ma che qualche libro, il più possibile, di tanto in tanto, possa dargli motivo di soddisfazione (e questo, intendiamoci, non vale soltanto per la poesia). Per molti anni è stato Mario Luzi a scegliere i poeti italiani per la nostra collana. Certamente Luzi era un grande poeta e una persona di grande levatura morale e intellettuale; ma neppure le sue scelte hanno potuto sempre evitare quanto dicevo prima; alcune erano convinte, altre lo erano molto di meno e altre con ogni probabilità non lo erano affatto. Anche quando si rimpiangono i grandi consulenti di una volta, sarebbe del tutto ingenuo pensare che per loro le cose andassero in modo molto diverso. Ci sono stati poeti, anche in passato, inspiegabilmente (almeno per noi oggi) baciati dalla fortuna editoriale.

Non sto facendo un discorso morale. Da questo punto di vista, sono completamente d’accordo con Roberto Bertoldo. Conosco poeti che mi fanno spesso discorsi di quel tipo, sulle consorterie varie, ‘do ut des’ ecc., e che poi mi propongono favori in cambio di favori, che nel mio caso è ovviamente che io li faccia pubblicare con Passigli. La cosa non mi scandalizza, perché non esiste un mondo dei poeti separato dal mondo comune, e se sono arrivato ormai a 55 anni ho fatto in tempo a imparare come funziona e come non funziona il mondo. Quello che semmai mi scandalizza è che questi stessi poeti mi facciano poi discorsi morali sulla poesia.

Ma voglio farti un esempio: se un editore di poesia dovesse scegliere fra una nuova raccolta poetica di (tanto per fare un esempio in linea con la tua ultima lettera, non ho proprio nulla contro di lui e anzi mi è simpatico) Franco Buffoni e un’altra di Cosimo Turani (il nome è inventato), credi che esiterebbe nella scelta anche se al suo gusto le poesie di quest’ultimo sembrassero molto superiori? No, non esiterebbe, credimi, perché giustamente (dal suo punto di vista) sceglierebbe l’opera che gli garantisce maggiore attenzione da parte dei librai, di possibili recensori e di possibili lettori (o meglio acquirenti di libri: non è che chi compra un libro si trasformi in lettore con un colpo di bacchetta magica, deve prima leggerlo davvero e solo dopo, magari, si accorgerà che non ne valeva la pena). E questo è sempre accaduto, non è una novità del nostro deterioramento generale. Che pure è evidente.

Insomma, alla fine mi sembra che succeda come per i premi letterari: gli unici degni di rispetto sono quelli che vinciamo noi, gli altri sono viziati e corrotti…

Un caro saluto,

Fabrizio Dall’Aglio

Caro Giorgio,

ti ringrazio per le mail che mi arrivano e che leggo sempre con interesse. Ho ordinato il tuo libro sulla poesia modernista, e sto aspettando che mi arrivi. In genere, non mi piace prendere parte a queste diatribe che mi paiono sempre un po’ manichee e spesso frutto di frustrazioni personali (che rispetto, ma sulle quali mi pare inutile discutere). Inoltre, non avendo ancora letto il tuo libro, mi parrebbe sciocco disquisirne, anche se lateralmente. Ho molta e sincera stima per Gezim Hajdari; capisco quanto scrive al riguardo, temo però che lui e altri non si rendano ben conto di cosa significhi pubblicare poesia contemporanea. E non solo in Italia, la situazione non è molto migliore in Francia, o in Spagna, o altrove. Del resto, basterebbe che i poeti provassero a separare nelle loro biblioteche i libri dei loro colleghi che hanno comprato da quelli che hanno ricevuto invece in omaggio e si accorgerebbero, credo, che sono ben pochi i libri di poesia italiana contemporanea da loro effettivamente acquistati in questi anni.

La mia opinione, per diversi motivi, è che hanno fatto bene. Un editore cerca di vendere un po’ di tutto, naturalmente. Ma non è difficile capire che un romanzo, anche molto modesto, può trovare un buon numero di lettori anche solo in virtù, per esempio, del suo soggetto; in un mondo in cui l’attualità ha invaso il senso del contemporaneo, sempre che lo stesso contemporaneo abbia davvero un senso diverso da quello letterale puro e semplice, un soggetto d’attualità reso alla meno peggio possibile ha già un forte motivo di interesse.

Per la poesia non è così, naturalmente, e mi fanno ridere quei poeti che per decantare le possibilità commerciali delle loro opere mi spiegano che uscirebbero nel momento giusto, in quanto si parla di questo o di quello. Di solito questi poeti si definiscono “emergenti”, il che è tutto dire. E comunque, tanto per reimmergerci, se la poesia contemporanea affida alla propria qualità intrinseca le sue pur poche possibilità di ricezione e dunque, almeno in parte, di “mercato”, non possiamo neppure nasconderci che non viviamo in un’epoca di grandi poeti e di grande poesia.

Questo si riflette anche nelle cosiddette scelte editoriali: se per i romanzi il fatto che alcuni appaiano più commerciabili di altri costituisce comunque, piaccia o meno, un criterio di valutazione editoriale (si pensi al proliferare di gialli, noir, mistery ecc., perché l’altra faccia dell’attualità è la cronaca più o meno nera), per la poesia pare non esistere alcun criterio. Il che, a ben vedere, è probabilmente peggio. L’editore sa che non può contare commercialmente su quei titoli e dunque se ne disinteressa, se continua a farne è perché trova una compensazione (anche commerciale) diversa, magari chiedendo al poeta l’acquisto di un certo numero di copie. Può apparire brutto; ma come spiegare che mediamente di un libro di poesia italiana contemporanea su tutto il territorio nazionale, e pur avvalendosi di ottimi promotori e distributori, escono meno e spesso molto meno di 300 copie?

L’editore, pubblicando un libro del genere, sa già che su quel libro non solo non guadagnerà ma perderà dei soldi. Chi glielo fa fare? Non dimentichiamoci che una casa editrice è un’impresa commerciale, ogni anno deve cercare di fare quadrare i propri conti. Non è che arrivino le sovvenzioni dello Stato. Io non faccio l’avvocato d’ufficio degli editori, anzi, pur lavorando da tempo in questo ambito quella degli editori non è una categoria che mi interessa e neppure mi affascina; però quando si vuole criticarli, sarebbe bene sapere un po’ meglio di cosa si sta parlando.

Per il resto, per il discorso che riguarda più da vicino la poesia, rimando a quando avrò letto il tuo libro. Cosa che farò ben volentieri prima possibile.

Un caro saluto,

Fabrizio Dall’Aglio

14/7/2010

Gianmario Lucini

Beh, certo, al momento dell’analisi, o “pars destruens” come la chiama Franco, siamo tutti d’accordo e se ci sono dei distinguo non sono certo dettati da una visione deformata da interessi estranei.  Ad esempio, Giorgio dice che la poesia italiana è alla frutta o quasi, io sostengo invece che alcuni bei titoli all’anno si leggono ancora e Franco rileva a sua volta che, mica si legge tutto e se per fortuna sfugge il peggio, per sfortuna sfugge anche il meglio.  Insomma, un bel pantano.  Peraltro Franco mi propone una soluzione che sfugge a ogni logica pratica: come si fa a dire “non pubblichiamo più a pagamento” (chi? e con quale diritto glielo impediamo? mi sembra fragile come idea). E poi: per pubblicare un libro a rischio dell’editore, proviamo a fare due conti in croce: pochissimi editori lo possono fare in Italia, e alludo ai “grandi”, e sappiamo come si comportano.

Mi sembra un bel passo indietro rispetto ad adesso. Piuttosto: stabiliamo che il rischio, almeno quello, è dell’editore. Questo sì. È immorale, come editore, accollare sul groppone dell’autore anche il proprio guadagno: in questo modo, tu editore non hai più nessun motivo di vendere, perché hai già fatto il tuo guadagno. La maggioranza delle case editrici piccole, non hanno un rudimento di strategia di mercato, spesso neppure la possono impostare, proprio a causa della debolezza finanziaria ed economica, e forse anche per mancanza di idee ed iniziativa. Ecco perché i libri finiscono al macero: perché non hanno un’adeguata pubblicizzazione, perché nessuno lavora intorno alla loro fortuna editoriale e letteraria. Nei bei libri ci si imbatte quasi sempre per caso, ma non è possibile andare avanti così. All’autore non importa se deve spendere “x” per stampare, SE sa di recuperarli comunque (SE) il suo lavoro merita (se non merita… non si pone il problema: ci pensi prima).

Però, tornando al discorso di ieri, ci ho riflettuto un po’. A un meccanismo di critica, pur rudimentale, che venga dal basso, intendo.

Voglio allora fare una proposta, a mio avviso praticabile nella teoria ma so già che non lo sarà nella pratica, perché al di là dei sacri furori, poi ognuno ha i suoi scheletri negli armadi e una proposta “trasparente”… beh, io credo che faccia paura a tutti per motivi diversi: autori, critici, editori e persino lettori. Lo dico con disincanto sperando di sbagliarmi, e anche con grande comprensione per le nostre debolezze: siamo fatti così…Lecteur, mon semblable, mon frère diceva uno che cantava i fiori del male.

Si tratta di una proposta di autoregolamentazione, rudimentale e per forza di cose parziale, ma almeno in grado di fornire indicazioni credibili (non certo soluzioni esatte – impossibili) e rompere davvero le palle alle cosche della poesia.

a) Gli editori, i critici e gli autori, i lettori che ci stanno, acquistano uno spazio web comune (e già qui ti voglio vedere), versando 10 € all’anno, gestito in comune.

b) ognuno di loro acquisisce una sigla. Ad esempio: l’autore Gianmario Lucini, A001, il critico Franco Romanò C001, il lettore Giorgio Linguaglossa L001, ecc.

c)  Gli editori mandano una copia PDF delle opere edite alla gestione del sito, che si preoccupa di distribuirle a tutti gli aderenti all’iniziativa, senza il nome dell’autore e della casa editrice.  Si può ragionare se completo o no di tutte le poesie di un volume (ed è un bel problema)

d)  È rigorosamente segreto (con sanzioni feroci) l’identità degli aderenti in abbinamento con la sigla Il che non garantisce comunque che uno di essi si palesi come consegnatario di una certa sigla, nel qual caso viene buttato fuori dall’iniziativa, i suoi giudizi segnalati come inautentici e debitamente sputtannato.Nessuna preclusione invece (e anzi, è bene farlo), dichiararsi aderenti al progetto (ma senza dichiarare la propria sigla).

e) Ognuno invia per ogni PDF, le sue considerazioni, che vengono esposte. E su queste considerazioni si costruisce un set di domande (non oltre 10) e si chiede il giudizio sintetico (una frase). Molti libri non saranno ovviamente letti e ci sarà una casistica per capire il motivo della non-lettura. Chi critica, dovrà inoltre specificare se conosce il nome dell’autore avendo ricevuto in omaggio o acquistato il libro

In questo modo:

a) Nessuno sa chi scrive e chi legge: l’attenzione è centrata sul testo e basta. Si eliminano dalla scena una serie di variabili parassite, compreso la paura di scontrarsi con qualcuno, la paura di crearsi dei nemici, il desiderio di procurarsi amici, favori e consorterie…

b) Diventa molto difficile costruire cordate

c) Si garantisce alle opere inviate una visibilità uguale per tutti

d) Si garantisce un numero maggiore di feed-back autentici (per quanto possibile) all’autore

e) Si diffonde davvero l’opera ai diretti interessati e indirettamente la si propone a livello più ampio.

f) Si rompe le palle alle cosche poetiche, perché ci si dota di uno strumento di credibilità di cui esse non dispongono

E non mi si venga a dire che facendo girare PDF in questo gruppo compromettiamo la vendita: se un libro di poesie in Italia vende 100 (cento) copie, ormai è un best-seller – e quelle 100 copie ovviamente non le acquistano persone del genere suindicato.

Ecco la mia proposta dal basso. Non mi sembra complessa, ma è praticabile soltanto con la “volontà politica” di farlo. Ed è per questo che non si può fare.

Consideratelo un paradosso estivo.  O un giochino utopistico.

Salutissimi a tutti

15/7/2010

One comment

  1. enrico dignani ha detto:

    A passeggio
    con il marketing scemo
    nei templi della cultura
    contempla la moltitudine,
    temporeggia,
    questo presunto colto
    diffuso
    prolisso centellinare
    il nulla nel dire
    che pattina nella noia
    e toglie il sorriso alle fanciulle.

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