SE LA CULTURA È UN ROM. Da Antonio Porta al pensiero disperso

Pubblicato il 29 maggio 2008 su Saggi Società da Maurizio Baldini

SE LA CULTURA È UN ROM

Da Antonio Porta al pensiero disperso

Adam Vaccaro

La relazione complessiva tra cultura e società tende a suggerire oggi un’immagine di “realtà parallela”, che ricorda meno quella di Musil ne L’Uomo senza qualità, di più quella di Rom disgregati e emarginati: una presenza assente che non diventa “presenza”, se con questa intendiamo realtà di scambi ricchi con l’altro da sé. Gli intellettuali (termine ormai ben poco qualificante) criticano a volte la cultura degradata e messa in scena dai media o dalla politica corrente. Ma perché tali critiche (e chi le fa) rimangono sbiadite e inincidenti, distanti e insieme chiuse nel diaframma dell’attualità? Confinate in un mondo a parte, anche senza – a differenza dei campi di accoglienza degli immigrati – barriere visibili?

Molteplici e complesse le ragioni, non esauribili in brevi note. Certamente le logiche del potere e del mercato fanno il loro mestiere, interessato a favorire prodotti di distrazione di massa. Ma ciò moltiplica e non riduce la responsabilità di chi vuole o suppone di fare cultura in questa o quella forma di linguaggio. Se cultura vuol dire immaginare il nuovo in antitesi all’esistente, i linguaggi che lo strutturano non esistono senza visione di idee e pensiero critico rispetto a quello corrente. E diventano reali solo attraverso forme e azioni condivise da almeno una parte del corpo sociale. Ciò implica porsi al di là e al di fuori di concezioni di scrittura o di arte (in qualunque forma), come gioco o esercizio solitario e autocentrato, vengono coinvolte ricerca e passione che non sfuggono alla responsabilità sociale del loro fare. Passione e etica di condivisione non garantiscono qualità, ma senza di esse penso si possa oscillare facilmente tra banalità sentimentali e cerebralità chiuse, prive di eros e disinteressate all’altro. La possibile presenza e funzione sociale di una cultura alta e altra passa dal coinvolgimento della totalità di sé, che è sollecitata solo se incarna e condivide esperienze comuni.

Dopo molti anni pieni di iniziative, i miei giudizi tendono a essere piuttosto critici rispetto all’ambito, come ho scritto più volte, “affollato e ininfluente”, che si occupa di letteratura e di poesia. C’è una crescita vivace, di iniziative, proposte editoriali, riviste, cartacee e on-line, blog, che può apparire di fermento vivace. Se però lo sguardo va oltre, come si dice, lo specifico, se ne possono vedere i limiti di marginalità, chiusure e frammentazione. Favoriti anche da supponenze spesso ingiustificate, insopportabili e ridicole di chi ne fa parte (che si consideri, o sia considerato, di prima, seconda o terza fila), rivestite peraltro di un declamato amore assoluto per la Poesia, dietro il quale si celano non di rado idolatrie di sé e un Io che si sente al vertice o al centro del Mondo. “I poeti esibiscono spesso grandi sentimenti, ma essi – dice un verso di Milosz, grande poeta – hanno spesso un cuore freddo, anche se danno ad intendere il contrario, in primo luogo a se stessi.”, annota Claudio Magris in un recente articolo (Corriere, 21 ottobre 2007).

A volte rileggo pagine del Viaggio in Italia di Goethe e vi trovo echi che sembrano attualissimi. E questo può consentire di dire che nulla cambia o è cambiato nei secoli. Non mi è mai interessato rotolarmi in pessimismi disperati e impotenti, e tuttavia abbiamo assistito nel corso degli ultimi decenni a chiusure di orizzonti e a difficoltà a formulare soluzioni o a individuare forze capaci di incarnarle. Ma i problemi che abbiamo davanti non sono personali, per questo è importante cercare di vedere i limiti dell’insieme e riflettere, con coloro che scrivono e si pongono domande sulla situazione globale. Il che spinge a misurarsi con visione di idee e valori etici, al di là di atteggiamenti e comportamenti incentrati e ossessionati solo dalla promozione di sé e dell’ultima pubblicazione.

Rispetto a molti libri di poesia, ho trovato negli ultimi anni preziosi contributi e sollecitazioni da quegli scrittori, filosofi, cineasti ecc, che in Italia e fuori riescono a superare le strettoie e i condizionamenti in atto, producendo testi di qualità e utili a riformulare un pensiero critico forte, di un antagonismo nuovo, maturo e necessario. Un pensiero che si misuri con le tragedie del Mondo contemporaneo e della maggioranza dei suoi abitanti – generate dalla fase estrema del capitalismo. Tragedie che appaiono sempre più fuori controllo quanto più sono carenti azioni e un pensiero che si oppongono alla riduzione di ogni valore al profitto, alla sua foglia di fico dell’ideologia liberista e al suo corollario di crescita infinita. Non credo che oggi occorrano manifesti, grida o comizi, ma piuttosto confronti e scambi tra chi vuole misurarsi a fondo con i nodi duri del contesto, per continuare a immaginare un superamento e un’uscita dall’attualità, un’utopia che non sia fatta solo di speranze ingenue e illusorie. Ridare corpo a un pensiero del futuro è la ricostruzione di una polarità culturale necessaria, che è anche politica perché, dice ancora Magris (cit.): “L’eclissi del sole dell’avvenire sta comportando il tramonto del senso del futuro, della speranza del mondo.”

E andando a qualche decennio fa, su L’Unità del 18 febbraio 1989, Antonio Porta rifletteva sia sulla posizione “conservatrice” di Karl Kraus che su quella di Luciano Anceschi. Il primo temeva “la politicizzazione dell’arte”, pensando ai politici che riescono “a vincere sempre a spese di coloro che non partecipano al gioco”. Insomma, politica bassa da “Casta”. Porta, con Anceschi, parla di un’altra politica, di qui la domanda: “Vogliamo ricominciare a parlare della politica?…lo ritengo proprio indispensabile e indilazionabile…da parte degli scrittori”, perché “siamo a una svolta…che ci appare giorno dopo giorno decisiva: non possiamo più concepire la politica come un gioco ermetico, misterico; non possiamo più tollerare la separatezza ormai istituzionale dai problemi reali della società contemporanea…”

Una politica, dunque, che “smette di essere una tecnica di autoriproduzione e di esercizio del potere fine a se stesso, e va, finalmente, verso le cose, ha il coraggio di affrontare il reale. Questa può e deve essere la vera rivoluzione che parte dal nostro tempo.” Sono ipotesi che possono apparire oggi, e ciò misura il degrado attuale, visionarie e ingenue. Eppure credo con Porta che l’alternativa sia tra la possibilità di una “‘mutazione genetica’…di enorme portata culturale (e intendo il termine cultura nel suo significato più ampio, antropologico, di sistema di relazioni tra gli uomini)”, che non lasci (anche gli intellettuali) ne “l’illusione romantica della propria incontaminata salute mentale; e l’altra, di andare verso le cose…Senza paura di sporcarsi le mani, come si diceva una volta, perché tanto le mani non rimangono pulite in nessun modo.”

Antonio Porta credeva nella forza delle cose e si richiamava con Luciano Anceschi alla comune concezione di poesia, “come qualcosa che vive nel pieno sviluppo (sia, ndr) delle relazioni interne che la riguardano”, sia “delle relazioni con le altre attività umane”. Dunque, una “letteratura in cui tutto rientra, dalla filosofia alla scienza, dalla morale alla politica, dal costume allo sport”.  Gli intellettuali “non possono certo sentirsi chiamati al ruolo un po’ ridicolo di ‘angeli salvatori'”. Ma è anche indubbio che “la loro formazione sparsa somiglia sempre più a pattuglie disperse nel deserto e il momento dello smarrimento ha coinciso proprio con l’abbandono dell’impegno politico.”

“Il discorso dell’impolitico, un tempo caro agli intellettuali della fallimentare separatezza, mi pare che oggi funzioni solo da alibi: di fatto il discorso va rovesciato:…la posizione ‘impolitica’…fa riferimento a una ‘politica’ che non può più reggere neppure a se stessa.” “Si deve dunque parlare di un ‘nuovo impegno’, di un pensiero che torna a essere forte e non si rassegna ad amministrare la posizione di rendita dell’osservatore distante e rassegnato dello status quo? La mia risposta è decisamente positiva.”

Parole del febbraio 1989! Che risuonano oggi ancora più adeguate. Per chi ha ovviamente testa e sensi per ascoltarle, e avverte l’occasione di trasformare in opportunità la crisi e il vuoto attuale. I pochi che provano a incarnare tali tensioni in questo o quel linguaggio sono però poco connessi e non fanno massa critica, capace di produrre il senso di un corpo sociale che si esprime e resiste con parole e azioni. Resistenza perciò con quale senso? un senso che tenga conto dei due drammatici cambiamenti epocali, subentrati o acutizzatisi proprio dopo il cruciale 1989: la fiducia nella provvidenza senza fine delle risorse della Terra è ormai pura follia, e Destra e Sinistra sono diventate solo due diverse declinazioni del pensiero unico, dominante e invisibile come l’aria. Di fronte a tale insieme di problemi materiali e culturali dov’è la presenza, il cuore e la testa di chi si occupa (a parole) di cultura? Tende a rimanere appiattita e invisibile perché è anch’essa in gran parte all’interno di tale pensiero.

È questo il vuoto di fondo che dovrebbe essere colmato. Spesso molta anche autorevole poesia contemporanea rimuove tali problemi, che chiedono di porre al centro la vita, e non il proprio testo-icona. Certo, non ci sono formule né garanzie, tuttavia “identificarsi con la vita implica identificarsi con tutti i suoi aspetti e dunque non solo con la primavera in fiore ma anche con i terremoti e, per quel che riguarda gli uomini, non solo con i loro amori e i loro sogni, ma anche con il male che infliggono agli altri, le ingiustizie che commettono, le guerre che scatenano”, dice ancora Magris (cit.). Il quale ricorda, con Platone, la radice della separatezza dell’arte (soggetto sacer, posto fuori) nella cultura occidentale, il suo crinale di campo a parte che incrocia sacralità e complessità, “proprio perché deve prescindere da giudizi morali”. Il che può renderla “complice dell’ingiustizia e delle violenze che regnano nel mondo” e spingere l’autore a “idolatrare la perfezione della sua opera a scapito dell’umano”, facendo dimenticare che “Gli scrittori e gli artisti non sono un clero laico…né capiscono la vita e la politica necessariamente meglio di altri”, o che “La responsabilità verso il mondo riguarda ogni persona…poco importa se da avvocato, scrittore o barbiere.”

Entro tale contesto socioculturale, possiamo dire che il paradosso necessario è che per essere presenti occorre essere inattuali. L’alternativa è essere, più che marginali, ornamentali e orgogliosamente inutili (fuori cioè dalle logiche di mercato e dell’utilità commerciale), irrilevanti, inesistenti. Si finisce per recitare una presenza che non esiste, supponente e autocentrata quanto più manca di condivisioni e corrispondenze.

L’articolo ricordato di Antonio Porta trae linfa da un nucleo analogo di riflessioni su nodi duri del contesto attuale, che – rispetto al 1989 – presenta dati di un degrado culturale e politico, ulteriore ed estremo. Ma ciò esalta ancor più le ragioni per ricreare il senso di un nuovo impegno culturale, capace di reinventare sensi e parole, quali etica, impegno, funzione sociale e civile di chi si occupa di cultura.

(Maggio 2008)

2 comments

  1. Fabia Ghenzovich ha detto:

    L’artista in genere ha sempre avuto un occhio rivolto all’arte, e un occhio rivolto al potere, perchè in modo compiacente o antagonista, col potere grande o piccolo che sia,compreso quello degli intellettuali, ha comunque avuto a che fare: un tempo i mecenati, ora la casta. Lo scenario è oggi più pericolosamente e pateticamnete parrocchiale.
    Possibile non ci sia altra via che quella di crogiolarsi in un pessimismo senza futuro, o in autocompiacimento che dimentica la vita e la relazione con l’altro? Sospendo il giudizio, perchè anche davanti a ciò che pare palese, come l’autoreferenzialità etc.credo che i poeti soffrano di una sorta di compressione o fagocitazione, come qualsiasi altro uomo o donna del nostro tempo. Viviamo in una società di finto benessere che in realtà disgrega la capacità autonoma di essere dell’individuo, favorendo i particolarismi. Diversamente non sarebbe funzionale al sistema. Pasolini ne fu profeta. Proviamo a pensare cosa succederebbe se a livello globale si smettesse di comperare questo o quel prodotto, come forma di boicottaggio cosciente delle multinazionali.Forse ci accorgeremmo di non essere proprio schiavi consenzienti dell’utopia del mercato.Cosa succederà quando i poeti riappropriandosi di ciò che siamo, corpo nel corpo del mondo,daranno voce e corpo alla parola? Forse sapranno cogliere la sfida della vita e anche di questa straordinaria azione che è la poesia.

  2. Biagio Cepollaro ha detto:

    Caro Adam,
    sono convinto che dici cose che molti pensano –e non solo della tua generazione, formazione etc.
    Si potrà suggerire impostazione e linguaggio diversi, ma la sostanza, ne sono certo, resta la stessa. Molti che restano ammutoliti da come le cose sono andate e stanno andando…
    Ricordo il passaggio tra gli anni ’80 e gli anni ’90: era quasi una rincorsa: l’estetizzazione della vita allora rintracciabile nel perfezionamento della comunicazione pubblicitaria anticipava quella che sarebbe diventata estetizzazione della politica attraverso la regressione mitologica fino all’imbarazzante ideologema…
    Biopolitica ma anche la possibilità di vedere con chiarezza la miseria reale di ciò che una volta si sognava la funzione intellettuale. Altro che Pasolini, Fortini, Volponi…
    L’apporto in tal senso di un Sanguineti è stato nullo se non controproducente: gran parte delle neoavanguardie degli anni ’60 hanno semplicemente aggiornato logiche antiche, accademiche, baronali, salottiere. Emilio Villa (per citare un esempio eclatante) è stato diverso perché in verità apparteneva alle avanguardie storiche lui, l’ultimo, nato nel ’14. Era troppo diverso per non essere emarginato da coloro che dieci anni dopo mostravano anomalìe di linguaggio come sabotaggio….
    E dunque c’è stata una responsabilità storica nel confermare il ritardo e nel produrre pavidi cloni che, subalterni alla povertà di questi presunti maestri, parlano di tutto e in tutti i luoghi. Ma spettano a noi queste analisi? E come pretendere coraggio e onestà intellettuale nello sfacelo delle psicologie (io bisognosi di rassicurazione e riconoscimento) a monte di ogni possibile esercizio di serena attività intellettuale?
    Le descrizioni sociologiche sono o piuttosto pretendono di essere asettiche.
    La verità morale si manifesta con l’esempio. Dividendo bene i due piani si evita da un lato l’ideologia e dall’altro il moralismo. Ma occorre accettare due proposizioni evidenti : le cose non vanno necessariamente come sarebbe giusto e il bene non è un’idea ma un concreto comportamento.
    Questa doppia impostazione mi consiglia un certo tipo di realismo: la funzione intellettuale è oggi necessariamente una funzione interna alla produzione simbolica massmediale e se non ci stai bene (come non ci sto io e tanti altri) dobbiamo fare un’altra cosa.
    E di fatto mi pare tu hai fatto un’altra cosa cercando di territorializzare i discorsi culturali raccogliendo energie a Milano. La separatezza che denunci in parte è voluta dall’egocentrico vacuo narcisismo degli operatori, in parte è necessitata dallo stato delle cose. Perché i simboli che noi oggi produciamo non sono all’interno di una semiosfera condivisa. Forse non lo saranno mai più e si è trattato di una breve parentesi (la vita dei nostri padri e la nostra) tra il secondo dopoguerra e gli anni 70, complice la rudimentalità dei mezzi di comunicazione di massa.
    Sembra di vivere in un altro Paese. Ma è forse solo la fine di un’illusione. L’Italia (o Itaglia come diceva Emilio Villa) è caratterizzata da una debolezza strutturale: ritardo storico e fascismo endemico e tanto tanto analfabetismo di andata e di ritorno. Per quanto la concezione umanistica della cultura leghi quest’ultima alla vocazione per l’universale, le cose stanno in altro modo. Le cose , i simboli che noi produciamo hanno un valore che non è universale ma locale. Il best-seller scimmiotta l’universalità in epoca post-umanistica e forse post-culturale. Era questo che volevano dire -senza dirlo- con il termine postmoderno?
    D’altra parte se i fisici parlano di fisica locale perché noi dovremmo pretendere di più?
    La centralità del territorio insieme alla rete deterritorializzata (come appare) mi sembrano le vie praticabili. E infatti, senza nulla attenderci, e nei limiti di una vita che sono i limiti delle nostre vite concrete, noi le pratichiamo.
    Biagio Cepollaro

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