In memoria di Gilberto Finzi

Pubblicato il 26 dicembre 2014 su Saggi Poesia da Adam Vaccaro

VERTIGINI DI VITA NELLA LUNA NERA (*)

Lettura de L’oscura verdità del nero (e di Altro) di Gilberto Finzi

di

Adam Vaccaro

Il verso che dà l’avvio al libro (Garzanti, 1987) tende a una sintesi tematica e stilistica dello svolgimento successivo: “tutto marcisce per un’altra vita” (p.11). Tempo presente del verbo, paratassi scabra, descrittività vestita di obiettività che appare indiscutibile, parascientifica. Lo sguardo e l’occhio sono, in tutta e prima evidenza, quelli delle modalità di linguaggio dell’Io (Mod-Io). Con alone, quindi, di ideologia della verità.

Ma è bene procedere con cautela. Perché già il titolo della (prima) sezione – Arcani –  contraddice col suo richiamo a bordi irrazionali e imperscrutabili. Il ritmo, con ripetuti doppi spazi bianchi che intervallano due o più versi, procede infatti in ansimi che qualificano un tessuto testuale pieno di buchi: la serenità non abita qui, tanto meno la gioia. A strattoni esplode la rabbia, e in tinte disperate. Proseguiamo per prime verifiche nella lettura del componimento di p. 11 di cui abbiamo citato l’incipit; che subito seguito da una striscia di bianco, primo significante dell’altro (rispetto al verso), così prosegue:

la rigorosa perdita del pensiero coinvolge

il morbido sfiorire del cuore e del sesso

vivrò per vedere altri morire

altri amare altri sfiorire?

Il rigore descrittivo e il tempo presente scivolano con movimento franoso dal loro ipotetico trono di freddo pensiero; il quale, costretto a denunciare la graduale perdita di sé, cerca appigli in parallele sfioriture affettive e fisiche. Da notare come rigorosa perdita e morbido sfiorire funzionano da reciproci contraltari che si contraddicono (rigorosa/morbido), si specchiano (perdita/sfiorire) e si consolano. In questo intreccio, il richiamo allitterante delle erre di rigorosa perdita può suggerire un sapore di resistenza e fatica che trova riposo, ma anche strazio disperato, in morbido sfiorire. Insomma, il rigore analitico produce, a cominciare dall’area dell’Io, panico che si dilata e cerca (può cercare) consolazioni e morbidezze (solo) ai piani più bassi; anche qui, però, trova solo conferme che tendono a chiudere, anziché ad aprire, il cerchio disperante.

Il movimento rimane ad ogni modo dall’alto al basso, tendente a una sorta di invito a danzare in nero rivolto all’area mentale e alle corrispondenti modalità di linguaggio (Mod-Es) dominate da corporalità e affettività. Tuttavia le Mod-Es operano ancora sotto la superficie del testo: si manifestano in segni di ritorno di rimosso formale, esibito ad es. dalle rinunce a titolazione, maiuscole e punteggiatura. Perciò le Mod-Io resistono e, anzi, rilanciano tentando di coinvolgere le modalità di linguaggio dell’area mentale etica (Mod-Superìo). Infatti, il secondo distico, che segue un altro spazio di lingua tagliata, passa dal tempo presente al futuro. Ma la forma interrogativa segna e conferma ansia montante, che funziona da pneuma (o vuoto/pausa) che attira le Mod-Es.

Quindi, da questo primo assaggio, il piano descrittivo è solo una pedana d’abbrivo; che consente di far risaltare ancor più i crescenti successivi sprofondi d’angoscia, nei quali si evidenzia al centro il rapporto con la Morte o, meglio, il complesso intreccio vita/morte.

Dopo altri due distici di conferma e ulteriore accumulo dei sensi e dei ritmi precedenti, il crescendo angoscioso esplode e raggiunge il climax con i primi due versi dell’ultima strofe, un endecasillabo spezzato in senario e quinario più adeguati a vestire il respiro affannoso e la lacerazione irrisolta:

foglia foglia foglia

merda del tempo

È il primo grumo di indissolubilità vita/morte, in cui le Mod-Es emergono con forza, attraverso la ripetizione e la funzione metonimica del ritmo trocaico, martellante. Il tono di rabbiosa e impotente invettiva esprime però anche una ricerca di qualche forma di uscita da quell’abbraccio; di cui i due versi compongono anche un’immagine spaziale: la vita (del primo) che decade verso l’irreparabile conclusione del secondo.

Il furioso accesso non può frenare la discesa agli inferi, ma subito dopo conferma l’implicita ricerca. Questa trova la sua forma con il terz’ultimo e penultimo verso, dove ricompone ritmi più distesi con persino una qualche cantabilità, da endecasillabo a minore (primo emistichio quinario):

barrica il vento melodiosa magione

verza che spunti verminoso fiore

su terre spente della rovina

E nel sintagma melodiosa magione, cioè la poesia, la spiegazione. È come un recupero di atmosfere familiari cui attingere un minimo di consolazione: lampo di vita che non si arrende, (se è) capace di inventare e diventare luogo di metamorfosi, fiore che rinasce dove tutto marcisce, anche nella terra più spenta della rovina.

La tendenza è dunque al tocco del “rovescio del plenilunio“ (p.12), al disegno di un panorama desolato, anzi di una esplicita (con inclusa citazione eliotiana) “terra desolata dal sole e dal nord“ (p.13). Ma qui troviamo il luogo dei luoghi, della complessità e degli, appunto, illuminanti rovesciamenti.

Non a caso la descrizione si riferisce alla “città del lilio“ (ibidem), Mantova, “Manto indovina” (ibidem) che è “l’Acquaferma” (ibidem) della propria origine. E’ in tale metafora di immobile primopunto della propria nascita e del proprio panorama mentale – punto più prossimo e insieme irraggiungibile – che vita e morte trovano il più indissolubile incrocio. Quel punto, dove risiede l’accecante nerità del nostro mistero, è l’arcano di tutti gli arcani: costituisce per ognuno “la città della vertigine (ibidem), sempre presente e sempre passata: è il punto di massima malia, verso cui cerchiamo di ritornare, sempre e quanto più ci avviciniamo alla Fine, o cresce in noi la coscienza di non poterlo (più) fare.

È questo il luogo, per tutti, del potere più oscuro e abbagliante, cui abbiamo bisogno di rivolgerci per illuminare e indovinare il futuro; perché esso possiede in effetti tutti i segreti del nostro successivo cammino, ma mai li svelerà completamente: li lascerà sempre (in parte) coperti come un “un desiderio dentro un’ombra” (ibidem). E qui subentrano snodi cruciali con impliciti inviti al movimento opposto a quello disegnato all’inizio di questa lettura: dal basso verso l’alto. Con successive domande: da dove viene la luce, e dov’è invece l’ombra?

La lettura in profondità del testo tende in effetti a un rovesciamento delle consuete categorie dell’io occidentale. Sono proprio le aree mentali dell’Io (e del Superìo) che diventano fonti di nero; mentre questo può rivoltarsi in luce nei luoghi più tipici del suo regno: corpo e sogni, desideri senza fine e terrori della fine, inarrivabili archetipi di vita e di morte. La conoscenza, insomma, non può venire (solo) da un rigore analitico, ma (di nuovo) da un incrocio col suo contrario: con tutte quelle che appaiono oscurità insuperabili e che non lo sono, se non cadiamo nella presunzione di una soggettività monodeterminata, di dominarle dall’alto.

Il senso emergente dal testo è dunque esattamente contrario a quello apparente. È questo senso che ci porta all’immagine del luogo (di luce) capace di un possibile presagio: “Manto indovina”. Ma la luminazione è problematica e profetica al tempo stesso, perché è da cercare nella sottoimmagine di Acquaferma: metafora non più, solo, del più profondo sé, ma di tutto il mondo contemporaneo.

È solo con questo collegamento che possiamo capire le rabbiose e coatte oscillazioni di fiera in gabbia de “la disordinata dòmina dell’io”(p.34), che dal suo “nero di nera luna”(p.24) vede una “Terra – strafertile morte”(p.23) dove trionfa “il coito nero col Niente”(p.14); è dalla denuncia (che coinvolge quindi l’area mentale del Superìo) di lugubri pratiche e massacri di sogni, che esplode il noi e la profezia disperante: “(non vedremo nessun futuro da qui)” (p.34).

È questo il punto di collegamento di profondità e superficie, di lontano passato e impossibile futuro, coagulato ne “l’oscura verdità del nero”(p.21) di un’acquaferma, da cui è sempre più difficile far partire navi di canto. Da qui prendono infatti forma le sezioni Stanze nere (mentali e poetiche), cui seguono gli squarci con colpi di sbeffeggianti sforbiciate di Misteri o cronache e di Comportamenti, che evidenziano ancor più il corpo a corpo tra questo io e questo Mondo di tempo chiuso: un tempo che rende sempre più difficile “fare bello e caro il non veduto”(p.15), per cui una minima pietas è dovuta (a quell’io): o mio di me non farti più / lo sciocco io del tempo”(p.80). Ulteriore segno della tensione alla ricerca (dentro e fuori di sé) dell’Altro.

Conferma di tutto questo – se pure ce ne fosse bisogno – la troviamo nella nota introduttiva stilata dallo stesso Finzi per la selezione di (19+2) poesie scritte fra il 1953 e 1959, (ri)pubblicate nel 1997 da Vanni Scheiwiller (All’insegna del pesce d’oro) e raccolte sotto il titolo di POESIE LAGHISTE. Ebbene in tale nota Finzi confessa di non essere riuscito a rinunciare a queste poesie perché erano quelle che, rispetto ad altre, incartavano e incarnavano di più “una suggestione quasi ossessiva dell’acqua ferma e di chi, pesce, uccello, o uomo, ci viveva. “Poesie laghiste”, dunque, scritte fra le grandi estati e gli autunni rossi e gialli del triplice lago formato dal Mincio a Mantova…quando la provincia era un’isola, con i suoi pescatori, le lavandaie e i “poveri” degli Anni Cinquanta”.

La presa pressoché in diretta di questa nota con le nervature costitutive del Soggetto Storicoreale (SSR) fornisce il sentore di tutta la complessità che un territorio ha per la costruzione di una mappa mentale. I testi di questa raccolta sono poi preziosi, perché danno conto di tutti i termini – etici, razionali e affettivi – intrecciati in quel primopunto, rimasto e ritrovato poi nei testi del libro che stiamo cercando di penetrare.

Nell’acqua ferma delle Poesie laghiste (ri)troviamo ben di più della metafora di un luogo; ritroviamo la metafora del mondo e di tutto il suo inestricabile intreccio vita/morte: acqua amniotica e marcescenze, fango e sangue, folaghe e cacciatori, partigiani e aguzzini, guerra e pace, amori e campi di concentramento. Tuttavia, inevitabilmente, i colori restituiscono la maggiore levità (non solo per la minore età di chi ne scrive) di quegli anni: anni di minore disponibilità di cose e maggiori speranze. Anni da cui traspare il panorama mentale di un Soggetto Scrivente (SS) che sente “qui ancora a guardia del futuro / lo stento il sonno e il sogno.” (p.47); che annota “Come una vecchia madre” che “la terra trema e si sfoglia” (p.69) e vede già “come corre la sera dietro al sole” (p.64) o come “lungo il corso / del Mincio anche la gloria / ha fermato il suo volo”. Si evidenziano perciò robuste aree dell’Io e del Superìo, che analizzano il presente, lo valutano e guardano al futuro, ma accusano già ventate di disincanto, prendono nota di erosioni e caducità, per cui quell’Acquaferma diventa l’immagine dell’archetipo della Grande madre, di una terra consolante e, insieme, ammorbante. Una doppietà senza uscita, di delizie e fascinata tensione al nero, che rimarrà per sempre l’immagine, non da capire semplicemente da accogliere, di quella che alcuni (come lo psicologo americano James Hillman) chiamano anima.

Anima quindi priva di spiritualismi religiosi, o di sensi animistici da new age e simili; anima che potrebbe trovare corrispondenze in tutt’altri termini e versanti di indagini, quale è quello della metodologia operativa (leggi Scuola Operativa Italiana di Silvio Ceccato e altri), che ha definito il (nucleo) costitutivo di un’identità, rispetto allo sviluppo (o inviluppo) consecutivo successivo. In ogni caso, è in tali luoghi che risiedono le fonti della creatività e dunque della poesia; ritroviamo così, riguardo a quest’ultima, la radice fondante della definizione e dell’invito di Zanzotto: nient’altro che accogliere.

È in tali luoghi che la categorizzazione razionale incontra l’altro da sé, e scopre che il Sé non è una costruzione stabile, ma un campo di circolazione energetica, di cui possiamo fruire solo se lo concepiamo in termini di massima provvisorietà, continuamente morto e rinato, sempre uguale e sempre diverso, da disfare ricostituire e rifare, come il letto, ogni mattina.

Solo nell’accoglimento di tale circolazione, attiva e passiva a un tempo, possiamo trovare attimi di pacificazione e di gioia, di recupero vitale oltre che di ricongiungimento della nostra (piccola) vicenda nella storia più grande e generale. E riusciamo persino a cogliere qualche presagio illuminante, qualche divinazione dalla Manto indovina di ognuno.

I lampi delle possibilità vitali non sono da cercare perciò (solo) tra le elucubrazioni e i razionalismi dell’io: da sole ci dividono e distanziano, assicurandoci tutto il dolore dell’alienazione. Esse risiedono nell’accoglimento e nella fruizione delle apparenti oscurità del corpo, dove è posto lo scrigno della nostra memoria profonda. Quanto più il SS riesce ad aprirlo e a coinvolgerlo fa aumentare la qualità dei testi, perché tocca il segreto del fascino di ciò che da millenni chiamiamo poesia. Che coincide con un logos fantasticante capace di dare forma alla phisis: il linguaggio diventa così luogo di vertigine dolorosa-gioiosa e dell’ossimoro (apparente) di una parola materiale e lirica. È a questo credo si riferisse Leopardi, quando parlava di poesia corporale materiale e fantastica (rispetto a quella metafisica ragionevole e spirituale attribuita ai romantici milanesi), fondata sull’invenzione di analogie tra le cose le più lontane, nascoste e insondabili (Zibaldone).

Tornando alle modalità specifiche della tensione adiacente (tra le lingue del proprio universo mentale) individuata nei testi di Finzi, se questo azzardo interpretativo ha minimi fondamenti, esse devono risaltare e risultare – come per ogni SS – traccia marcante in tutto il percorso di scrittura. Soprattutto se questo percorso è lungo, tali modalità diventano traccia di stile, codice genetico della continuità e dei cambiamenti, persino fonte di presagio per il futuro (del SS). (1)

Abbiamo già fatto qualche verifica nei testi di più vecchia datazione, ma ulteriori conferme possiamo trarle anche da un testo lontano per oggetto: Dèmone se vuoi (Book Editore, 1994). Testo di efflorescenze amorose, dalle intense connotazioni e risonanze fisiche. L’esondazione della gioia più acuta con esplicite connotazioni sessuali, porta a evidenziare nel SS che “il tuo-mio / ‘io’ è un dinosauro dell’età salgariana” (p.35), con l’immagine conseguente di una benefica riduzione dell’area dell’Io. Eppure questa non demorde: tallona tutti i lampi di vita. Anche nel caldo di un abbraccio porta il suo raggio freddo e verde: “un caldo di rugiada sui tuoi seni e sùbito / un verde pallido di luna colorata / traccia sul sole una notte fonda” (p.34).

Sono le Mod-Io che enumerano, misurano costruiscono sequenze, in particolare rispetto al Tempo (per le Mod-Es il tempo come sequenza notoriamente non esiste, essendo sempre passato e sempre presente); per cui sono esse che rifiutano un termine, una fine: quell’amore “da rosse arterie inventato” (p.38) rischia così di vedere che “il nero-neve abbatte un Eros senza più ali, / un essere ferito, offeso e fatto savio / dal vero battere del Tempo” (p.42); rischia continuamente di essere azzannato e sopraffatto dal pensiero de “…l’ora ultima / il tempo e la morta stagione – che no non / continua il gioco, il bacio, il matto chiude, il nero vince, /…/ ‘ultimo’ è una parola / orribile, ultimo amore mio – / non pronunciamola (ibidem).

Sono le Mod-Io che esprimono il terrore della Morte, anche tra le lenzuola: “nel tuo letto: sogni, spettri, misirizzi, /…/ e infando dolore (a p.81); “la tua nera notte / con l’incubo e il mostro dentro” (p.78); “la Morte è fra noi come un sogno” (p.83).

È opportuno vedere una sequenza particolarmente riuscita di questa sorta di tango macabro tra gioia e io che insegue inseguito dalle sue ossessioni: “svegliandomi da te, con te / al fianco, e chiedendomi dove / dov’è dov’era il limite certo / fra vita e vita – o piuttosto / fra vita e morte – o anche (meglio) fra / due specie di morte o due / estraneità di vita, lì, chiuse le mani / su te – fermo per un attimo (l’attimo / in cui tutto è simile al simile / ma diverso da chi e da cosa) / avvenne che a scendere fu (incredibile) / lo stesso paradiso” (p.28).

È un tessuto testuale di intensità fisica e lirica dominata dalle Mod-Io, che persistono nonostante la riduzione (inevitabile) della loro area mentale, che ansimano e si insinuano nell’Altro: lo testimonia la forma, colma di virgole, incisi e subordinate, tipica di un processo elucubrante; al polo opposto l’attimo in cui avvenne che a scendere fu…lo stesso paradiso: proprio incredibile e bellissima, la vittoria di quell’attimo e della poesia. Da notare che dall’abbrivo di un gerundio, recante il senso presente delle Mod-Io, l’attimo della (vittoria della) gioia deve sprofondare nel passato remoto (tempo delle Mod-Es).

(1) Al fine di fornire almeno qualche elemento del percorso complessivo citiamo la raccolta Costume e pattume (Armando, Roma 1990), che sono importanti perché danno conto specificamente della robustezza e della qualità dell’area del Superìo: densi di passione civile, completano una figura di scrittore che non vuole assolutamente chiudersi nel letterario, interessata anzi a “scoprire un punto di passaggio tra ‘civile’ e ‘letterario’; servendomi da nuovo Calibano, di una certa violenza intellettuale, trattenendola nella scrittura. Puntando con forza contro l’azzeramento culturale degli anni ‘80”. È un libro che mostra una capacità di scrittura a 360 gradi e di un uomo che vuole misurarsi con i mille orrori, tumori e pustole di un tempo sospeso tra velocità, affollamento e smemoratezza.

Ma a questo versante storicosociale occorre aggiungere una estensione altrettanto notevole di saggistica letteraria, aggrumata in testi e interventi vari, prefazioni e traduzioni, Antologie curate da solo o in collaborazione con Altri. Da questo insieme di testi emerge con forza la radicata convinzione che “lo stile è un’identità attraverso il linguaggio”, da cui discende la necessità, per la scrittura in generale e per la poesia in particolare, della “elaborazione di strumenti appositi, che implicano la ricerca (per quell’identità e per la poesia) di una “scienza in sé, di sé (Il prossimo villaggio, intervento al Convegno Letteratura e scienza, organizzato da Testuale e Il Segnale nel 1993, Atti 1995).

Anche come segno contro il giulivo effimero di mille simulacri metropolitani che si affannano a smemorarci e distanziarci dalla nostra vita, segue un elenco selezionato di opere.

Poesia: La Nuova Arca, Rizzoli 1965; L’alto Medioevo nel suo più brutale ricorso, ai nostri giorni, “A spese degli Amici” 1970; Morire di pace (autobiografia), Shakespeare & Co., 1977 (Riediz. Campanotto 1992; Tre formule del desiderio, pref. di Giuliano Gramigna, Spirali 1981; L’oscura verdità del nero, Garzanti 1987; Demone se vuoi, Book Ed. 1994; Poesie laghiste (1953-1959), Scheiwiller 1997; Soldatino d’aria, Marsilio 2000.

In inglese: lifeline (Traduz. Vanna Tessier), Snowapple Press, Edmonton (Canada) 1993.

Narrativa: O barare o volare, Garzanti 1977; L’ultimo valzer di Chopin, La Vita Felice 1995 (Traduz. Inglese di Vanna Tessier, The.Last Waltz of Chopin, Snowapple Press, Edmonton, Canada 1999).

Saggistica: Lo Spirito del ’45, Giordano 1967; Invito alla Lettura di Quasimodo, Mursia 1972 (6a ediz. 1995); L’utopia letteraria, Marsilio 1973; “La luna e i falò” di Pavese, Mursia I976 (5a Ediz.1997); Poesia in Italia – Montale, Novissimi, PostNovissimi (1959-1978), Mursia 1979; Crepuscolo della Scrittura, Mursia 1991.

Saggistica varia: Costume e pattume, Armando 1990.

Ha curato inoltre l’opera omnia del Nobel S. Quasimodo: Poesie e Dscorsi sulla poesia, Meridiani Mondadori 1971; X ediz. riveduta e ampliata, 1996) e varie opere singole del poeta.

Tra le antologie, da citare i due voll. Novelle italiane – L’Ottocento, Garzanti 1985 e Novelle Italiane – Il Novecento, Garzanti 1991. Numerosi i lavori sulla Scapigliatura e su autori dell’800 e del ‘900, con due traduzioni.

(*) Cfr A. Vaccaro, Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi, Milano 2001

2 comments

  1. Mariella Bettarini ha detto:

    Intensa davvero, ed oggi più che mai preziosa questa ampia nota critica al libro dell’indimenticabile Gilberto Finzi.
    Grazie, e un amichevole, commosso saluto da
    Mariella Bettarini

  2. Adam ha detto:

    E grazie a te, Cara mariella, della tua intensa condivisione!
    Adam

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