Sensibili alle forme-Massimo Pamio

Pubblicato il 12 dicembre 2019 su Saggi Arte da Adam Vaccaro

Massimo Pamio, “Sensibili alle forme. Che cos’è l’arte”,
Mimesis, Milano-Udine, 2019, pp. 170, ill., € 18.00, pref. di Arnaldo Colasanti.

L’Autore analizza l’attività artistica dal punto di vista scientifico, presentandola come un prodotto dell’evoluzione, in base a una nuova ipotesi che prevede tre fasi: la morfogenesi, la morfognosia, la morfoestesia, per poi interrogarne, dal punto di vista filosofico, il senso, individuato come “rappresentazione della rappresentazione”, in base agli sviluppi ultimi del pensiero garroniano. Nella terza parte la questione viene affrontata dal punto di vista culturale e sociologico, con risposte originali e provocatorie: l’arte, nella storia, ricopre la funzione di strumento pubblicitario e poi di maschera cosmetica. In appendice, grazie all’ausilio di 60 opere di altrettanti autori, si descrive il clima di altissimo valore visionario che si respira nell’attuale contesto artistico italiano, i cui paladini dovrebbero essere fatti conoscere in tutto il mondo.
“Quello che state per leggere è un libro forte, perentorio, impertinente. Si direbbe nella tonalità della voce, prima che nell’argomentazione. Ma il tono non è una semplice misura dell’enfasi, quanto l’acutezza, la forza percussiva dello sguardo. La domanda radicale cos’è l’arte? è la fine del sensus communis: mai come questa volta resta la traccia oscura di un esercizio di radicalità reale” (dalla prefazione di Arnaldo Colasanti).
Nella prima parte, la domanda radicale “che cos’è l’arte” viene analizzata dal punto di vista scientifico, nella seconda dal punto di vista filosofico, nella terza da quello antropologico e sociologico. L’opera viene completata da un finale a sorpresa e da un’appendice dedicata agli artisti italiani dei nostri giorni, che, per il loro valore altissimo, scrive l’Autore, “dovrebbero essere posti all’attenzione del mondo”.

INTORNO AL MONDO DELL’ARTE
di Tino Di Cicco

Intorno alle parole vere, profonde, quasi-eterne, è difficile la novità; eppure Massimo Pamio in “Sensibili alle forme. Che cos’è l’arte” (Mimesis) riesce a regalarci un testo inedito, visionario, spaesante, sull’arte.
Da Platone ai nostri giorni l’arte è stata una esemplare categoria dello spirito. Non filosofia, non teologia, non scienza, eppure capace di aprire l’uomo ad una conoscenza più necessaria della filosofia, della teologia e della scienza. Più necessaria forse perché meno legata al discorsivo, alla logica generata dal tempo e dallo spazio, e più capace di rompere il “muro” eretto da quella logica per andare oltre; l’oltre che noi siamo. Quell’oltre che se scompare dal nostro mondo, non danneggia il mondo, ma la nostra vita. “L’arte torna ad essere un Annuncio, Annunciazione di che cosa? Di Sé? Iniziazione al Reale?” (pag. 91).
L’arte è puro trascendersi, è puro annuncio. Manca il significato, il fine che ci garantisca per sempre. E, forse, solo l’arte ha questa consapevolezza.
Il compito che Massimo Pamio si dà non è ordinario: “il mio studio si promette di contribuire a fornire elementi per la nascita di una nuova logica, naturalistica, che desti l’uomo dal torpore agonico in cui versa” (pag. 11). E per destare l’uomo da questo torpore, la via più efficace passa per l’arte. Perché?
Forse perché aveva più futuro l’esperienza del mondo di Friedrich Holderlin, che quella del suo compagno nello Stift di Tubingen Georg Wilhem Friedrich Hegel.
Se quest’ultimo pensava che tutta l’esperienza dell’uomo sarebbe stata un giorno riassunta nel “concetto”, il poeta folle non era così sicuro. Intuiva che non sarebbe mai stato possibile racchiudere dentro una conoscenza delimitata e definitiva, questa nostra incredibile esperienza della realtà: “io capii il silenzio del cielo /non ho mai capito la parola umana.” (F. Holderlin, Quando ero ragazzo).
Tutte le modalità che la nostra natura conosce per renderci possibile l’esperienza del mondo, sono subordinate al tempo, “il piacere artistico è – invece – quello che riesce a dilatare il tempo, a rallentarlo” (pag. 53); l’arte non si rassegna a questo tempo, sa che esiste altro, per questo deve andare oltre.
Ed è proprio questa la “ragione” fondamentale dell’arte, come ci ricorda anche la Weil: “l’attività poetica dovrebbe condurre alla scoperta di un ritmo diverso dal tempo.”
Perché è proprio il ritmo generato dal tempo, quello che determina i limiti del nostro mondo; ed è perciò il tempo la nostra più terribile prigione: “principio degli esseri è l’infinito (…) da dove gli esseri hanno origine lì hanno anche distruzione secondo necessità poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo” (Anassimandro), e l’unica breccia a questa prigione può aprirla una relazione emozionata, ferita, innamorata, con realtà; e questa relazione è l’arte.
Perché l’arte è generata dall’esigenza di chi non riesce a rassegnarsi alla conoscenza cronicizzata, consolidata, consacrata, ma deve cercare di esplorare in proprio l’invisibile notte che ci sovrasta (“l’arte è conoscenza, meglio l’arte è esplorazione”, S. Weil).
Solo chi soffre il buio, la notte, il nulla, ha bisogno di tentare l’esplorazione. E proprio questa esplorazione genera arte: “l’arte sorge come dall’orizzonte nasce il sole, per ripetere il fenomeno di ciò che scaturisce dal contrasto tra luce e buio per animare gli oggetti, donare la vita dell’ombra alle creature. Per divenire anche lui, uomo, ombra nel teatro della grotta del mondo, fratello del fuoco” (pag. 37).
Dopo arriveranno altri a giudicare, a criticare, a tentare di capire il valore di questa esplorazione. E a considerarla degna o meno di essere inserita dentro la “storia dell’arte”. Ma per la sensibilità dell’artista non è importante muoversi al sicuro; importante, vitale, essenziale, è tentare di capire; anche a costo di pagare un prezzo altissimo per questa ricerca.
Dice Pamio: “noi uomini dovremmo ogni volta inventare il vedere nascosto nel mondo, così ad ogni briciola di sguardo ci accorgeremmo del suo rinnovarsi, proprio davanti a noi: saremmo finalmente capaci di superare quel limite che piano piano si stabilisce e si radica nel nostro vedere e nel nostro essere visti da quell’immensa fantasmagoria della Visione che è l’Universo, che ci rende ciechi vedenti o al massimo orbi in terra caecorum”(pag. 49).
E sembra così rinnovare l’invito del filosofo coreano-tedesco Byung-Chul Han, quando invita gli uomini ad “osservare l’acqua come l’acqua osserva l’acqua”, e non come viene vista dai nostri bisogni.
Ma questo comporta la riduzione dell’uomo, la “soppressione” della sua volontà, della sua invadente identità; quella che non lascia essere l’Essere, ma solo i nostri bisogni, i nostri desideri. E solo dopo, dopo che l’uomo si è “nullificato”, è possibile “accorgersi del rinnovarsi del mondo davanti a noi”.
E quando ci accorgiamo della creazione continua del mondo, possiamo anche pensare (con Massimo) che non solo l’uomo crea, ma soprattutto la natura: “Se questo fosse il fine della materia? Produrre sogni?”(pag. 95)
Forse qui è il cuore del messaggio del libro “Sensibili alle forme”, non dissimile dal “siamo fatti della stessa sostanza dei sogni” di Shakespeare.
E solo l’arte può entrare in questo “sogno”; forse perché l’arte è la prosecuzione della generazione della natura con altri mezzi. E gli altri mezzi sono forniti principalmente dallo sgomento e dallo spaesamento; sgomento e spaesamento generati dal nostro essere qui: “lo stupore è ciò che principia il logos, è vibrazione che si farà suono e poi parola, perché lo stupore ha bisogno di un segno che lo rappresenti per sempre” (pag. 35). Perché l’emozione, lo stupore, come ben sapeva Martin Heidegger, è all’origine del nostro rapporto con il mondo: “ogni atteggiamento essenziale e ogni azione dell’uomo storico vibrano in uno stato d’animo fondamentale. L’azione più decisiva dell’uomo storico è il suo poetare”.
Qui sulla terra non c’è niente di “vero”, perché “la realtà del mondo è fatta da noi, col nostro attaccamento. E’ la realtà dell’io trasportata da noi nelle cose. Non è affatto la realtà esteriore” (S.Weil). Anche per questo Nietzsche poteva dire “intorno all’eroe tutto diviene tragedia, intorno al semidio tutto diviene danza di satiri, intorno a Dio tutto diviene – che cosa? Forse diviene mondo”.
Il mondo è solo il sogno di qualcuno, Dio o natura non cambia. Chi lo scopre, chi lo vive, partecipa alla generazione del mondo. Agli altri tocca credere “vero”, quello che è soltanto una “biglia scagliata da un bambino” (pag. 95).
E quel bambino possiamo essere noi, ognuno di noi, se riusciamo a destarci dall’illusione che governa la nostra vita, per entrare nella realtà: “viviamo in un continuo stato di finzione, risvegliarci è continuare il gioco del sogno lucidamente, nella consapevolezza che la realtà è fatta della stessa sostanza dell’arte” (90).

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