HEMINGWAY, al Teatro Filodrammatici.

Pubblicato il 25 aprile 2010 su Resoconti da Adam Vaccaro

HEMINGWAY, al Teatro Filodrammatici.

Di Patrizia Gioia

Ci sono autori a cui sono stata a debita distanza. Una difesa dalla forza del fuoco che in quei libri sentivo divampare, certo sapevo di perdere molto, ma mi bastava la vita a cui dovevo fare fronte. Anche i miei devi avevano un basta.

Hemingway era per me come uno di quegli uomini che ti si fa davanti e ti apre l’impermeabile e te la fa vedere nuda e cruda la vita. Ci vogliono gli anni per farsene una ragione della vita, ci vogliono sul tuo corpo almeno qualcuna di quelle ferite che lui ti mostra, averli attraversati quei campi di battaglia, esserti trovato con gli occhi negli occhi del nemico.

Tanto, tutto quel tempo per scoprirlo il nemico, da sempre in te.

Aveva ragione la Pivano a non esserci andata a letto con Hemingway? anche se l’ha rimpianto per tutta la vita quel no.

Pur se noi donne vogliamo essere afferrate dal principe sul cavallo bianco, qualche volta, dandoci magari delle vigliacche, la lasciamo scivolare quella mano, proprio non ce la facciamo a lasciarci andare quando in quel principe sentiamo uno smarrimento uguale al nostro.

Ecco perché ne siamo attratte, si tratta di conoscerlo lo smarrimento, è così che principe e principessa potranno vivere felici e contenti e invece, ignorantemente, lottiamo con una parte di noi per lasciarlo andare da solo dentro il precipizio e crediamo di farla franca raccontandoci bugie.

Lasciare a lui il ruolo dell’eroe fa parte ancora dell’insincerità del femminile, ma qui non si parla di eroi. Hemingway è troppo animalesco per non annusarlo a distanza quell’arcaico retaggio, è l’eroe che sprona alla frase sincera, ma è sempre il perdente che insegna e segna la via.

Ci piace perdere tempo, ammazzarlo si dice e infatti lo si fa in noi l’omicidio, per non vedere lo sguardo strangolato, per non ascoltare la voce che sanguina da una lacerazione che nemmeno con litri di alcool e anestetico si può tentare di suturare.

Così si gira con fucili e per foreste, pronti a sparare all’altro per la paura della belva che abbiamo dentro.

E’ per questo che si sta a proprio agio nell’arena e tra quelli che sanno parlare di morte: viva gli spagnoli, non i francesi e gli inglesi che parlano solo di vita, scrive.

Una vita sugli spalti, bello e selvaggio come il toro sempre dentro, sempre pronto col drappo rosso ad evitarlo, fino a quando dici basta e ti doni finalmente all’amante , aperto all’incontro da sempre desiderato perché sempre presente. E’ un bisogno infinito di quiete che ci ha fatti vivere d’azione.

Ed è nell’impeto dell’ultimo balzo verso il fucile del cacciatore lo svolgersi di tutta una vita.

Ma c’è sempre anche una parte che sbanca il banco, lasciando all’imbecillità di chi crede di cucinarci interi col fuoco dell’elettrochoc, la misera certezza di avercela fatta a distruggere in noi quello che mai loro sono stati: vivi e sinceri. Il peso della farfalla, scrive De Luca, anche lui “tra” cacciatore e camoscio.

E’ stato molto bravo Corrado Accordino, ieri sera, alla prima, ci sono andata ai Filodrammatici a conoscerlo Hemingway, forse sapevo che potevo e, con in più la scusa dell’amicizia per Corrado, sentivo che era arrivato il tempo per incontrarlo il fuoco di quei libri e di quella vita.

Lo spettacolo è stato un’ ottima endovena per questo temuto incontro, Corrado me lo ha fatto entrare nel sangue poco a poco Hemingway, in un’eta non solo del jazz dove si faceva fatica a distinguere racconto e vita. Infatti non si può scriverla la storia se non la si vive, tutta, la vita.

Nella magica atmosfera del Teatro, dentro la spoglia evocante scenografia, confortata da voci e musiche che senti che appartengono anche a te, il mio sguardo spesso andava alla piccola boccia di vetro dove un bel pesce rosso silenzioso si muoveva nell’acqua.

Chissà, forse sarebbe bastata anche allora quell’acqua a spegnere il fuoco che sentivo in quelle pagine,

ma ci vuole una vita per divenirne consapevole.

Ecco, forse adesso posso comprendere più in profondità perché la Fernanda si era pentita di non esserci andata a letto con Ernest. Se ti apri all’amore diventi vulnerabile e, se Dio vuole, arriva il momento dove abbiamo imparato a riconoscerlo lo smarrimento, nostro e dell’altro, a non temerlo, ad accettarlo, ad amarlo.

E a volte è proprio quando si è pronti a prendere la mano del principe che…arriva il sonno e la favola è finita.

Milano, 9 aprile 2010

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